domenica 10 gennaio 2016

Un amore muto e impossibile di Gabriele Pepe


di RITA FRATTOLILLO



Una domenica mattina del lontano 1796  Gabriele Pepe, diciassette anni, si vestì con più cura del solito. Si spazzolò la camiciola chiara col collo alto e il pantalone alla francese aderente  come usava all'epoca,  si passò il pettine tra i folti ricci biondi.
L'occhiata rapida che lanciò allo specchio prima di gettarsi sulle spalle il tabarro scuro, uscendo, gli rimandò l'immagine di un giovane pallido -non si era ancora ripreso da quel dannato intervento alla vescica - con le guance appena ombrate da un'incipiente peluria. Tanta cura perché quella mattina era speciale: Gabriele sentiva di essersi  innamorato, ma sul serio; non una cottarella giovanile, di quelle che passano presto senza lasciare segni, ma un amore intero, completo, che gli levava il sonno. Si avviò in tutta fretta verso il piazzale del castello Angioino, perché di lì a poco, come tutte le domeniche, lei sarebbe passata, accompagnata dai genitori, per andare alla messa solenne di S. Maria Maggiore.


Questo lato sentimentale viene fuori solo leggendo il diario  ̶  rimasto a lungo manoscritto e in parte distrutto  ̶  il Galimazias, che Gabriele Pepe iniziò nel 1807 con l'intenzione di "buttarvi tutto quello che mi veniva in testa di scrivere, avventure, osservazioni, varietà, pensieri e delusioni", tra le mille difficoltà di uomo spasmodicamente diviso tra Marte e Minerva, tra l’impegno delle strategie militari e il gusto per i rovelli letterari.

 I numerosi biografi del nostro grande corregionale hanno giustamente speso fiumi di parole sull'uomo d'arme e sul patriota, col risultato però che si ricorda di lui quasi soltanto il celebre duello sostenuto nel 1826 con l'incauto poeta e uomo politico francese Alphonse de Lamartine che, definendo l'Italia "terra di morti", aveva suscitato il risentimento di Gabriele, il quale da allora si guadagnò  il soprannome di  "gallo italico".

Su Pepe uomo di lettere e autore prolifico sembra invece essere calato un velo d'oblìo, evidentemente propiziato dalla spettacolarità - e dall'uso politico - che si fece del duello a fini di comprensibile propaganda nazionale. A quel che sembra, la politica-spettacolo non l’abbiamo inventata oggi!
Alphonse Lamartine

E di questa sublime love-story del bel Gabriele, un amore giovanile  durato testardamente tutta la vita, non si è mai saputo nulla.
Fatto sta che tra una pagina e l'altra del Galimazias - vera miniera per chi voglia avvicinarsi all'uomo - tra le fatiche delle guerre, i fuochi notturni negli accampamenti, le peripezie dell'esule, affiora qua e là il ricordo struggente di quell'impetuoso amore giovanile.
In data 1807 trovo questa confidenza: "All'età di 17 anni una grande rivoluzione si operò in tutto il mio essere, sia mediante la guarigione da una grave malattia (l'operazione alla vescica), sia mediante l'Amore.

Cupido vibrò ad una tale età il suo dardo: io ebbi la prima passione e l'unica, l'azione della quale risento ancora dopo dieci anni, e probabilmente risentirò in tutta la mia vita".
Parole profetiche, poiché fino alla fine dei suoi giorni lo accompagnerà il ricordo struggente di Luisa. Ma chi era, in realtà, questa ragazza che gli era entrata con tanta prepotenza nel sangue?
Sicuramente i due ragazzi, entrambi di Civitacampomarano, si erano visti in una delle occasioni "canoniche" dell'epoca,  come l'uscita dalla messa o la festa del Santo patrono; oggi sarebbe l'incontro in discoteca o la “vasca” per il Corso.
Luisa De Marinis, tratti delicati, bocca piccola e incarnato chiaro, aveva attirato immediatamente, e con prepotenza, l'attenzione del giovane Gabriele. Il matrimonio poteva essere lo sbocco naturale di quella passione profonda, ma le nozze che lui desiderava con tutte le sue forze non avvennero né allora né dopo, perché De Marinis padre, borbonico e conservatore come molti altri a Civita, non vedeva di buon occhio i Pepe, che considerava rivoluzionari giacobini, ubriacati dalle nuove idee, come del resto i loro cugini, i Cuoco.

 Non per niente, doveva pensare il De Marinis, la madre di Gabriele, Angelamaria, era la zia di quel Vincenzo Cuoco che faceva tanto parlare di sé. Ma si sa, la malapianta delle novità attecchisce subito in certa gente, che si riempie la bocca con parole grosse come libertà, uguaglianza.. e Dio solo sapeva che altro si complottava nel salotto di Olimpia Frangipani a Castelbottaccio. Ma – ragionava tra sé De Marinis - come poteva, la baronessa, alimentare gli stessi ideali rivoluzionari che avevano fatto cadere, neanche dieci anni prima, la testa di migliaia di aristocratici francesi?
Valli a capire, i nobili!

 Comunque, avevano fatto bene a dare una lezione a quel senzadio di Marcello Pepe, mandandolo in galera a Lucera, perché pure lui faceva parte della combriccola di Castelbottaccio.... anche se in fondo gli dispiaceva per i sei ragazzi, già orfani di madre (Angelamaria, pace all'anima sua, se n'era andata già da due anni).
Quel giovanotto che aveva messo gli occhi sulla figlia, il terzogenito di Marcello, sì, Gabriele, forse era un pò indolente negli studi ma era stato educato bene dallo zio gesuita, don Francesco Maria; comunque, uno cresciuto tra "sovversivi", senza madre né padre, che avvenire poteva dare alla sua Luisa?
Gabriele, dopo un’attesa che gli parve eterna, finalmente vide comparire Luisa all’estremità della piazza.
Il corpetto e la gonna a pieghe di tessuto leggero lasciavano intuire le forme snelle ma piene della ragazza, e la piccola mappa di raso nascondeva a malapena la massa biondo grano dei lunghi capelli appena mossi.
Rapito da quella visione, Gabriele la fissò in volto, e rimase sconcertato dal suo sguardo accorato. Vi lesse la sua condanna quando, attraversando il piazzale in direzione della chiesa, lei fece in modo di passargli  vicino  sfiorandolo.
Mamma De Marinis, chioma raccolta secondo il costume delle donne maritate, tirò dritto.
 Lo stesso fece il padre, ma Luisa non poté fare a meno di alzare lo sguardo dolce e mesto su Gabriele, che si sentì percorrere da un fremito per tutte le membra.
I tre sparirono nel portale buio di S. Maria Maggiore, e del fugace passaggio di Luisa  gli rimase solo la scia del suo profumo, che sapeva di buono…
Amareggiato e deluso, il giovane  scappò via da Civita, pronto ad abbracciare la carriera delle armi, alla quale del resto si sentiva fortemente incline, distinguendosi, oltre che per valore di soldato e di letterato, come il patriota insigne e generoso che conosciamo.
La Repubblica partenopea lo trova impegnato sui campi di battaglia, il 14 giugno 1799 è ferito e preso, rinchiuso nelle carceri della Vicaria.

Questa è solo la prima di una lunga serie di peripezie che si intrecceranno con i successi militari e letterari.
L'effimera Repubblica partenopea viene soffocata nel sangue e sfocia nella feroce repressione sanfedista: molti centri del Contado di Molise, come Casacalenda e Civita - dove anche casa Pepe viene saccheggiata - sono teatro di luttuosi episodi di violenza fratricida.
Nel 1812, lo "spettacolo diabolico" di alcune "damigelle" napoletane acuisce in lui il rimpianto per quell'amore infelice ed angelicato: "Quanta differenza tra queste donne e L…Ma! che dissi? Ardisco io rabbassarla con una sì vituperosa comparazione? No. Resti ognuno al suo posto. L.. nel suo candore, nella sublimità delle sue virtù, nella perfezione morale del suo cuore, e fisica dell'angelico volto; queste nel lezzo della civetteria e della corruzione." Parole che ci consegnano un Gabriele rivoluzionario  sì, ma moralista.

Nel 1814, gravemente ferito nei pressi di Macerata nel corso degli scontri che segnano la fine del regno murattiano, viene riportato a Civita per la convalescenza e in questa occasione confessa: "Mi rammento di essermi arrestato sul Monte S. Angelo Altissimo e salutai di là la mia terra natale con una specie di santo entusiasmo. Io provai un'estasi di gioia e consolazione al pensiero che era presso a rivedere i miei fratelli, i miei parenti, i miei compaesani e quell'angelo infine di beltade e virtù che è stato l'oggetto del primo ed unico amore, e che io amo ancora".


In verità l’”angelica” signorina De Marinis andò in moglie all'illustre giureconsulto Zaccaria Padulo. Un’unione apparentemente irreprensibile, dietro la quale però alcuni storici fanno intravedere un matrimonio subìto e una passione segretamente ricambiata. Uno di loro, Raffaele De Rensis, arriva a buttar lì una frase che vale da sola la trama di un romanzo tutto da scrivere quando afferma che le eccessive "affezioni" della signora Luisa Padulo verso il nipote di Gabriele, Marcellino, "rivelavano i suoi sentimenti". Che si vuole intendere? Che tra Gabriele e Luisa ci fu un amore impossibile ma reciproco? Che la sottomessa Luisa non ebbe il coraggio di rompere il rigore delle convenzioni "fuggendo" col bel compaesano e che si contentava di rimpianti e ricordi? E non potrebbe magari essere che, in fondo in fondo, la vera vocazione di donna Luisa De Marinis fosse proprio quella della signora alto-borghese e che la sua "affezione" per Marcellino fosse semplicemente un modo grazioso, e soprattutto comodo, per riscattarsi di tante pene d'amore inflitte a Gabriele? Chissà se si scioglierà mai questa matassa…                   

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