mercoledì 14 maggio 2014

Giuseppina Turrisi la poetessa che lottò per l'Unità d'Italia

di Rita Frattolillo

Giuseppina Turrisi (Palermo, 2.4.1822 – 17.2.1848) poetessa e patriota

A Palermo la chiesa seicentesca di San Domenico, che dà sull’ omonima piazza, è il Pantheon dell’isola.  Custodisce gli spiriti eletti, i campioni siculi che credettero nell’Unità d’Italia, per essa combatterono e morirono, e coloro che dopo il 1860 hanno provato a plasmare l’Italia e a darle identità di nazione. Numerosi i musicisti e poeti qui ricordati da monumenti e  lapidi. Ma sono due bei monumenti funebri ad attirare la mia attenzione, perché custodiscono i resti mortali di due donne, entrambe ispirate poetesse, ed entrambe accomunate da un destino avverso: la sofferenza e una morte prematura.

Lauretta Greci e Turrisi Giuseppina,  questi i loro nomi, rappresentano la punta di diamante di una folta generazione di donne intellettuali (Laura Beatrice Mancini Oliva, Mariannina Coffa chiamata la “Capinera di Noto”, Ramondetta Fileti, Rosina Muzio Salvo) che, pur avendo dato molto alle lettere e alla consapevolezza politica nel periodo cruciale del Risorgimento, sono riuscite difficilmente ad avere visibilità. Quello che colpisce, al di là delle loro vicende biografiche, è una costante che è possibile rintracciare in tutte: l’appartenenza ad un ceto sociale alto borghese o addirittura nobile.

Oggi, con la scolarizzazione per tutti, non ce ne rendiamo conto, perché diamo per scontato che ognuno sia fornito degli strumenti per la conoscenza e mettere a frutto il proprio talento, ma nell’Ottocento il sapere era un privilegio riservato agli uomini, dal momento che il potere, il futuro della casata e del patrimonio erano concentrati nelle loro mani. E sempre loro avrebbero preso il posto dei padri, come avvocati, notai, farmacisti, medici, perpetuando i privilegi della  loro casta.  Tuttavia le famiglie più avvertite e consapevoli non si accontentavano di far coltivare alle ragazze l’arte del ricamo, la musica e il francese, doti da spendere in vista di buoni  matrimoni; ricorrendo ad un percorso di educazione personalizzata, le avviavano allo studio del greco e del latino, grazie ai servigi di un precettore privato.

 Questo procedimento è comune al Sud come al Nord della penisola ancora in pieno Ottocento. Le discepole più sensibili e dotate, avvicinandosi alle letterature classiche,  facevano il loro ingresso nel mondo della creatività se si sentivano sollecitate a scrivere, ad esprimere i loro sentimenti. Spesso tuttavia il loro margine di autonomia intellettuale era piuttosto ridotto, perché influenzate dalle scelte del precettore.

Comunque, il primo problema da affrontare era la padronanza dell’italiano, dal momento che in Sicilia ancora a metà Ottocento il siciliano era visto come lingua ufficiale in accordo con le diffuse correnti separatiste. Quindi scrivere, verseggiare in  italiano letterario costava alle isolane una doppia fatica perché si trattava di impadronirsi della lingua poetica. Di solito le future poetesse o scrittrici siciliane cominciavano con l’impegno delle traduzioni, proprio allo scopo di colmare il loro svantaggio di partenza, oltre che come forma di apprendistato poetico.
Giuseppina Turrisi Colonna si misurò  con il greco e il latino, Muzio Salvo col francese e l’inglese, Fileti tradusse alcuni racconti di E. A. Poe in italiano.  Ovvio che la discepola che aveva a disposizione il migliore maestro potesse contare su una preparazione molto solida, cosa che si può dire proprio della Turrisi, che ebbe come maestri  prima Giuseppe Borghi e poi Francesco Paolo Perez, e arrivò a padroneggiare il fiorentino, suscitando la sorpresa dei salotti toscani.

Una maggiore consapevolezza di sé, che cresceva di pari passo con la maturazione intellettuale, ebbe come  conseguenza che le autrici siciliane, ognuna a suo modo, non si rassegnarono al proprio destino, conducendo spesso battaglie nell’ambito familiare. La Turrisi, ad esempio, rifiutò tutte le proposte di matrimonio fino a quando non riuscì ad impalmare l’uomo da lei lungamente amato, il principe palermitano e grecista Giuseppe de Spuches. Ma lottarono anche esponendosi per le loro idee sociali  e politiche: fondarono giornali e riviste, collaborarono ad essi con interventi in cui incitavano alla rivolta le altre donne, spingendole ad avere un ruolo attivo nella causa risorgimentale. Il loro fu un impegno civile  molto forte e intenso, e già  la loro sola presenza, pur senza considerare le scelte “politiche”, fu vista spesso come un’insidia al predominio maschile nel mondo della parola scritta.
Infatti non a caso furono denominate intellettuali-donne, una specificazione che suona decisamente discriminante. Nella sua breve vita Giuseppina Turrisi  ha bruciato le tappe, sembra avere avuto fretta di realizzare quanto le stava più a cuore, perché il suo dinamismo, il non essersi mai fermata danno davvero l’impressione di una che sapeva che avrebbe lasciato presto questo mondo.

 Seconda di cinque figli, Giuseppina fu allevata in una famiglia nobile e colta. La primogenita, Anna, mostrò ben presto grande inclinazione per l’arte, e infatti diventerà un’apprezzata pittrice e ricercatrice. Giuseppina, ancora bambina, trascorreva il suo tempo sui libri, componeva farse e commedie che poi recitava con i fratelli in famiglia. La mamma Emilia Colonna, donna colta ed energica, curò particolarmente l’istruzione delle figlie a cui trasmise  i suoi stessi ideali, l’arte, la cultura e la patria, che divennero il loro  pane quotidiano. Giuseppina  e la sorella vennero poi educate nell’esclusivo istituto francese “Revillon”, a Palermo, e infine ebbero  due istitutori “domestici”. Il primo, l’abate Giuseppe Borghi, giunse a Palermo quando la disputa tra classici e romantici era al culmine, e ottenne grande successo con le sue lezioni sulla Divina Commedia. L’altro insegnante, F. P. Perez, che aprì i suoi discepoli al metodo socratico,  basato sul confronto diretto maestro-allievo, diffuse i nuovi ideali di patria e libertà.  Giuseppina assorbì quegli ideali, che ispireranno diverse sue poesie civili, tra cui Alla Patria. Su sollecitazione del suo primo maestro, Borghi, che aveva introdotto in città gli  Inni sacri manzoniani,  la ragazza ne compose alcuni, ma i suoi versi erano ben lontani dalla cristiana  rassegnazione che quelli suggeriscono; lei  esaltava le imprese di Giuditta, liberatrice del suo popolo, facendo intuire, oltre al suo talento, la volontà di scuotere le coscienze, l’amore per la Patria e la libertà. Comincia a tradurre i versi di Lord Byron, che per lei rappresenta l’eroe romantico tormentato, il poeta e il patriota capace di morire per il suo ideale di libertà. Tra le sue poesie spicca una trilogia a George Gordon Byron, che a lei appare come un eroe; nei suoi versi si colgono suggestioni foscoliane e leopardiane.  

L’Addio di Lord Byron all’Italia

Alfin partì. Chi del crudel momento/ Può narrar le memorie ed il dolore,
E ciò che disse ai monti, all'acque, al vento/ Di quella terra ove lasciava il core?

Oh come quel dolcissimo lamento/ Fu travolto per ira o per livore!
Qual menzognero addio sulle divine/ Labbra pose un Francese, un Lamartine?
Taci! L'italo amor del mio Britanno, Gl'itali sensi, oh male, oh mal comprendi:
Non all'Italia no; ma frutteranno/ Onta infame a te stesso i vilipendi.
Italia morta? e innanzi a te non stanno/ Ancor vivi, temuti, ancor tremendi
Ugo, Alfieri, Canova' e presso a questi  Sì magnanimi Eroi, dinne, che resti? —
 Quella terra, quel ciel che l'innamora,/ Pien di mille pensier, di mille affetti,

Giorgio saluta dalla mesta prora/ Coi sospiri, coll'anima, coi detti:
 Chi non sogna di te? chi non t'adora,/ O bella Patria d' animosi petti
Bella Patria dell'arti! il viver mio/ Tu che allegrar potesti, Italia, addio.


Se già dall’inizio si intuisce in lei la ragazza dotata di talento, è in occasione della drammatica epidemia di colera del 1837 che miete migliaia di vittime in tutta la Sicilia, che Giuseppina esprime la sua forza in versi (pubblicati in volume nel 1841) di incitamento ai suoi conterranei per ritrovare comunque la speranza, per risorgere in nome dell’amore di patria. Suggerisce a tutti, ma soprattutto alle altre donne, di guardare all’esempio delle eroine antichi, come Giuditta e Giovanna d’Arco.
 Incalza le sue lettrici  e le spinge a reagire, per ridare orgoglio, forza e audacia   al loro genere e alla società in cui fanno disgraziatamente  solo da spettatrici.
Disegna una costellazione femminile in cui punti di riferimento poetici sono Vittoria Colonna, contessa di Vasto in Abruzzo, e Gaspara Stampa.

 Spetta alle donne, scrive Giuseppina, far ritrovare alla Sicilia l’antico splendore e la grandezza di un tempo, purtroppo perduti, e questi propositi li esprime nell’ode Alle donne siciliane, scritta quando, nel 1843, da Parigi le chiedono – prestigioso riconoscimento – un componimento da includere nel Parnaso italiano dei poeti contemporanei. Per lei, femminista viva e originale alla stregua di tante altre patriote e letterate del suo tempo, “né trastullo né servo è il nostro sesso”, e l’educazione dei figli è un compito nobilissimo, in quanto è la madre che plasma i futuri cittadini. Quindi, la “somma virtù” muliebre è indispensabile alla patria, che ha bisogno di nuova linfa, perché solo attraverso il risorgimento morale si può raggiungere quello politico, ed è questo ideale - tenuto sempre alto e fermo - di donna “eroica” che combatte per un’Italia unita,  a caratterizzare la sua corrispondenza con altre poetesse, a distinguere i suoi articoli sul polemico giornale La ruota.

Nel 1846 poté realizzare un ambito soggiorno a Firenze, accompagnata dalla madre e dal fratello Giuseppe. Fu l’occasione  tanto attesa di studiare la lingua di Dante, e di conoscere i maggiori esponenti della cultura toscana, da Guerrazzi a Giusti. Contattò l’editore Le Monnier, e  in luglio pubblicò un volumetto di liriche che incontrò un buon successo in tutta Italia. Ad agosto rientrò  a Palermo e l‘anno successivo, il 29 aprile, poté finalmente sposare  Giuseppe de Spuches, principe di Galati.

Il 17 febbraio 1848, mentre il cannone dei rivoluzionari insorti rombava a Porta Maqueda, Giuseppina spirava colta da un aneurisma, tre giorni dopo aver dato alla luce una bimba che morì poche ore dopo il parto. Il marito, colpito dall’atroce perdita, le dedicò  cinque elegie latine, e volle per lei un monumento nel Pantheon, opera dello scultore Valerio Villareale. A tre giorni di distanza anche la sorella Anna moriva di tisi.
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