di Rita Frattolillo
“Gauguin…come
Gauguin”, ha commentato qualcuno riferendosi alla fuga dalla “civiltà” di Charles Moulin. Ma, se il pittore parigino,
dopo la drammatica rottura con Van Gogh,
era riparato a Tahiti, in
Polinesia - paradiso esotico abitato da ragazze
vestite più di serti floreali che
di abiti - dandosi risposte (d’où venons-nous? Où allons-nous?) e dando una
svolta al suo stile pittorico, Moulin,
rintanandosi tra i picchi delle Mainarde, anche se geograficamente più vicino
alla “civiltà”, si era isolato dagli
ambienti artistici e si era fatto
ignorare dai circuiti artistico-commerciali. Soprattutto, a differenza di
Gauguin, non è stato mai celebrato tra i grandi del suo secolo, anzi; e la sua
non breve esistenza è passata quasi inosservata.
Aveva certamente
pesato il significato della sua scelta di vita, l’aver rifiutato la notorietà e il guadagno: Charles
viaggiava à rebours, proprio al contrario! E sì che a fine Ottocento il sogno
degli artisti era raggiungere la ville lumière - basti pensare al “nostro”
Arnaldo De Lisio - tutti con la voglia di vivere la metropoli da protagonisti,
e lui, Charles, già noto a Lille e Parigi, dava un calcio a tutto per cercare
se stesso nella solitudine di posti sconosciuti…
E’ un fatto che
di lui si era parlato raramente, più che altro intorno agli anni ’60, poco
prima della sua morte, e subito dopo. Ingoiato dal silenzio. Un silenzio,
questo sì, voluto, perseguito e ottenuto con ostinazione.
Certo, già prima
del ‘60, qualche giornale aveva captato
lo spirito di una visione della vita assolutamente originale: “Charles Moulin
…un grande maestro che ha fatto dell’arte una seconda religione”. Vero; per
essa si era annullato completamente, rinunciando, oltre che a un sicuro
successo, persino all’amore della sua vita,
Emilie.
Di sé diceva:
“Vivo non di arte, ma per l’arte…l‘arte non ha prezzo”. Il compagno di studi e
amico di Henri Matisse, l’allievo di Bouguereau, ad un certo punto della sua
vita, infrangendo ogni cliché, era andato a vivere come un eremita, in un
misero rifugio che si era costruito con
le sue mani sul Monte Marrone, nelle Mainarde.
Eppure, lì aveva
tutto il necessario: i pastelli, i pennelli, i cartoni e le tele, e,
sopratutto, la luce, la luce che lo aveva stregato fin dalla prima volta che
era capitato in Italia, quando, nel 1896, era venuto nella capitale per
ritirare il prestigioso prix de Rome a villa Medici, sede dell’Accademia di
Francia, dove si era distinto per il suo talento. E poi? Poi si era diviso per
qualche tempo tra Parigi, Lille, la città francese di confine dove era nato il 6 .01.1869, e
l’Italia.
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Castelnuovo al Volturno, dipinto di Moulin |
Si sarebbe
dovuto trattenere solo qualche
settimana, ma fu amore a prima vista: scenari di sconvolgente bellezza, natura
selvaggia, boschi immersi in un silenzio
sovrumano, monti maestosi, e, soprattutto, la luce abbagliante…
Tutto questo,
congiunto alla semplicità degli abitanti, lo aveva deciso a girare le spalle
alla “civiltà”.
Solo qualche
ritorno, a Parigi o a Lille, per esporre le opere ispirate a quei panorami
selvaggi e superbi, oppure per ritirare qualche
premio; poi il periodo del soggiorno americano, e il contributo alla
Patria in armi come ufficiale degli Spahis durante la Grande guerra.
Per il resto,
una vita quasi da anacoreta sul Monte Marrone, tra lupi e camosci. Anni dopo,
fu la volta di Collerosso, un colle circondato da ginestre, boschetti di
querce, distante un chilometro circa da Castelnuovo al Volturno, dove visse in una
minuscola costruzione di lastre di tufo addossata a un sasso, arredata con il
minimo indispensabile. Lì si sentiva libero di vivere alla maniera dell’Emilio di J.Jacques Rousseau –il
filosofo che sentiva più vicino - in sintonia totale con Madre natura, e libero di dipingere.
Quei luoghi - come era già successo a Van Gogh
quando aveva lasciato il grigio cielo olandese per il sole della Provenza - lo
incantavano per la qualità della luce, che provò da allora, e fino alle fine
dei suoi giorni, a tradurre su cartoni e tele.
Dipingeva tutti
i giorni, in tutte le stagioni, e, conoscendo le piante officinali, se ne
nutriva, ma si prodigava anche per
curare con esse la gente del paese, che lo chiamava col nome storpiato di
“Mussié Mulà”,e che a poco a poco gli costruì intorno una leggenda alimentata
dalla sua generosità, dalla gentilezza d’animo, dalla sua genialità.
Persino i colori li traeva dalla natura: preparava i
pastelli con la terra e la colla attaccata ai ciliegi; le scatole da
imballaggio che si faceva regalare dai negozianti gli servivano da cartoni per
dipingere.
Non ritraeva solo il paesaggio circostante, i
fiori, i corsi d’acqua, perché si recava presso le famiglie del paese per
eseguire ritratti che poi regalava. Il suo compenso consisteva in un piatto di
minestra calda. Oppure si sdebitava con piccoli oggetti di legno che
fabbricava.
Amava dialogare
con il suo modello mentre lo ritraeva, perché attraverso le parole riusciva a capire il mondo interiore della
persona che aveva di fronte, trasponendo il suo stato d’animo nello sguardo e
nell’espressione del volto che stava dipingendo.
Dopo un inizio neoclassico, l'artista aveva
abbandonato l'olio per il pastello, perché quest’ultimo non si scurisce e quindi conserva meglio, anche dopo
anni, luminosità e freschezza.
“ La sua - ha
scritto il compianto Lino Mastropaolo – fu una concezione tardo-romantica, che gli fece vivere marginalmente la modernità dei nuovi processi culturali.
Questi, certamente, non lo entusiasmarono ma, consapevolmente o non, erano
dentro di lui e sono riscontrabili nelle opere che risentono della lezione impressionista e simbolista”(Arti visive nel
Molise,1920-1950, Ed. Enne, 2000, p.122).
Tra i rarissimi
visitatori, ebbe Marcello Scarano, che, nel 1936, si rifugiò su quelle
montagne, dove scrisse L’incanto delle
Mainarde.
Alla fine del
’43, quando gli americani, sbarcati in Sicilia, cominciarono a salire su per la
Penisola facendo arretrare i tedeschi, i castelnovesi ebbero l’ordine di
lasciare il paese.
Moulin, prima di
allontanarsi, ebbe cura di sotterrare in una buca le sue tele.
Dopo qualche
giorno giunse in paese un ufficiale francese con il proposito di conoscere il
pittore.
Quando gli fu
risposto che Moulin era andato via, diede ordine di rovistare ovunque ai suoi
soldati, che si fermarono solo quando scoprirono il nascondiglio.
Al suo ritorno
l’artista non trovò più nulla…
Ma non era finita, perché il paesino fu teatro di una macabra messa in
scena quando interi reparti alleati vi
affluirono inscenando una battaglia in piena regola che si concluse con il
bombardamento e la distruzione del centro abitato, al solo scopo di girare un
film di propaganda da mostrare agli americani sull'assalto alla Linea
Gustav.

E’tuttora sepolto nella cappella di Pasquale
Rufo nel cimitero di Castelnuovo.
La sua figura è
entrata nel mito, ma ha continuato ad essere relegata in un limbo senza nome,
finché l’amministrazione comunale di Rocchetta al Volturno, il sindaco Teodoro
Santilli - che sta portando avanti il progetto di realizzare un percorso
museale per mantenere vivo il ricordo dell’artista francese – non hanno deciso
di metterne in luce con un video la vicenda umana e la statura artistica.
Al regista e attore campobassano Pierluigi
Giorgio, reduce dal successo del filmato
Con le periferie nel cuore tratto
dall’omonimo libro del vaticanista Raffaele Luise, l’impegno di realizzare un
film- documentario su Moulin.
Documentarista di livello nazionale, vincitore
di premi in Festival del cinema, da decenni attento alle tematiche ambientali e
alle tradizioni popolari, sensibile alla salvaguardia delle etnie “minori”,
Giorgio ha tra l’altro percorso a piedi chilometri di tratturi pugliesi e
molisani per attirare l’attenzione sulla salvaguardia delle vie della
transumanza.
Suggestionato
dalla personalità del pittore francese, Giorgio era da tempo sulle sue tracce,
tanto che già nel ’90 si era attivato per la ricostruzione del rifugio di
Moulin su Monte Marrone.
Che la narrazione nasca da una lunga, intima
sedimentazione, si avverte durante tutta la proiezione del film Moulin il poeta del pastello, perché dal
tono e dal testo si percepisce fino a che punto Giorgio sia soggiogato da
quella figura d’artista - di cui sembra
condividere le scelte di vita - tanto da dare l’impressione, verso la fine del
docufilm, di indugiare a lungo,
quasi un non voler mettere la parola
fine ad una storia così straordinaria.
Se per le
riprese degli scenari mozzafiato delle Mainarde, che fanno parte del Parco
nazionale di Abruzzo, Molise e Lazio, non ci sono stati problemi, non si può
dire lo stesso per quelle nei vicoli e
negli interni.
Infatti le
locations sono state svariate per motivi di credibilità scenica, dato il
periodo storico rappresentato, quello degli anni ’40-‘50: infissi anodizzati e
fili elettrici a vista hanno costretto il regista a esplorare scorci e
angolazioni alternativi in altri paesi molisani, come Ferrazzano e Macchia. Più
facile, per il regista, riprendere Emilie nella splendida cornice della villa
De Capoa di Campobasso, un cameo prezioso dedicato all’unico amore di Charles.
Anche reperire
il povero vestiario di quegli anni, le “cioce”che portava ai piedi
Giorgio-Moulin, non è stato diffcile, grazie soprattutto alla disponibilità
degli abitanti di Castelnuovo, Rocchetta e Jelsi.
Supportato dalle testimonianze raccolte nel
volumetto di Antonia Izzi Rufo (Ho
conosciuto Charles Moulin, Il Cervo,1998) e arricchito dalla viva voce
delle persone che hanno conosciuto e frequentato il pittore francese, il film Moulin il poeta del pastello, che, dopo
la prima assoluta a Isernia (29 dicembre 2015) è stato proiettato con
grandissimo successo anche a Campobasso (7 gennaio c.a.), ricostruisce con rigore filologico e intima partecipazione emotiva la lunga esistenza dell'artista che cercò
di riflettere sul significato profondo della vita per scoprirne i valori eterni nella bellezza
del creato e delle sue creature.

Giorgio, nel duplice ruolo di Moulin e del narratore che cerca le sue
“orme” nei luoghi dove l’artista visse, si è compenetrato nella sua parte in
maniera portentosa, restituendo con gran forza
empatica l'essenza stessa della visione filosofica che animò e ispirò
ogni tocco e ogni pensiero del pittore, genuinamente intinta di naturalismo
rousseauiano.
Le magnifiche riprese e il montaggio
dovuti alla maestria del multipremiato regista William Mussini, che ha prodotto
il film con la Mad Video, rendono appieno l’unicità dello straordinario pittore
così come la vibrante spettacolarità della natura selvaggia delle Mainarde; le
canzoni di Danilo Sacco e la voce limpida di Liana Marino incantano,
accrescendo la suggestione e la liricità del docufilm, che a sessant’anni circa
dalla scomparsa dell’artista gli rende finalmente un meritato, bello e sentito
omaggio.
Ci aspettiamo che questo toccante lavoro, per il suo portato storico e
culturale, sia divulgato il più possibile in tutt’Italia e all’estero, aprendo
la strada ad una (finalmente) maggiore conoscenza dell’artista e del Molise,
una terra che fu sua fonte di ispirazione intensa e duratura.
Rita Frattolillo© 2016 tutti i diritti riservati
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