giovedì 14 gennaio 2016

Charles Moulin, il poeta del pastello


di Rita Frattolillo



Gauguin…come Gauguin”, ha commentato qualcuno riferendosi alla fuga dalla “civiltà” di  Charles Moulin. Ma, se il pittore parigino, dopo la drammatica rottura con Van Gogh,  era   riparato a Tahiti, in Polinesia - paradiso esotico abitato da ragazze  vestite  più di serti floreali che di abiti - dandosi risposte (d’où venons-nous? Où allons-nous?) e dando una svolta al suo stile pittorico,  Moulin, rintanandosi tra i picchi delle Mainarde, anche se geograficamente più vicino alla “civiltà”,  si era isolato dagli ambienti artistici  e si era fatto ignorare dai circuiti artistico-commerciali. Soprattutto, a differenza di Gauguin, non è stato mai celebrato tra i grandi del suo secolo, anzi; e la sua non breve esistenza è passata quasi inosservata.

Aveva certamente pesato il significato della sua scelta di vita, l’aver  rifiutato la notorietà e il guadagno: Charles viaggiava à rebours, proprio al contrario! E sì che a fine Ottocento il sogno degli artisti era raggiungere la ville lumière - basti pensare al “nostro” Arnaldo De Lisio - tutti con la voglia di vivere la metropoli da protagonisti, e lui, Charles, già noto a Lille e Parigi, dava un calcio a tutto per cercare se stesso nella solitudine di posti sconosciuti…
E’ un fatto che di lui si era parlato raramente, più che altro intorno agli anni ’60, poco prima della sua morte, e subito dopo. Ingoiato dal silenzio. Un silenzio, questo sì, voluto, perseguito e ottenuto con ostinazione.
Certo, già prima del ‘60, qualche giornale  aveva captato lo spirito di una visione della vita assolutamente originale: “Charles Moulin …un grande maestro che ha fatto dell’arte una seconda religione”. Vero; per essa si era annullato completamente, rinunciando, oltre che a un sicuro successo, persino all’amore della sua vita,  Emilie.
Di sé diceva: “Vivo non di arte, ma per l’arte…l‘arte non ha prezzo”. Il compagno di studi e amico di Henri Matisse, l’allievo di Bouguereau, ad un certo punto della sua vita, infrangendo ogni cliché, era andato a vivere come un eremita, in un misero rifugio che  si era costruito con le sue mani sul Monte Marrone, nelle Mainarde.
Eppure, lì aveva tutto il necessario: i pastelli, i pennelli, i cartoni e le tele, e, sopratutto, la luce, la luce che lo aveva stregato fin dalla prima volta che era capitato in Italia, quando, nel 1896, era venuto nella capitale per ritirare il prestigioso prix de Rome a villa Medici, sede dell’Accademia di Francia, dove si era distinto per il suo talento. E poi? Poi si era diviso per qualche tempo tra Parigi, Lille, la città francese di confine dove era nato il 6 .01.1869, e l’Italia.
Castelnuovo al Volturno, dipinto di Moulin
Qui soggiornò ad Anticoli Corrado, il paese delle modelle, meta obbligata degli artisti. Proprio grazie all’invito di un suo modello che aveva posato a Lille come zampognaro,  capitò, nel 1911, nella valle del Volturno e a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta.
Si sarebbe dovuto trattenere solo  qualche settimana, ma fu amore a prima vista: scenari di sconvolgente bellezza, natura selvaggia, boschi immersi in un  silenzio sovrumano, monti maestosi, e, soprattutto, la luce abbagliante…
Tutto questo, congiunto alla semplicità degli abitanti, lo aveva deciso a girare le spalle alla “civiltà”.
Solo qualche ritorno, a Parigi o a Lille, per esporre le opere ispirate a quei panorami selvaggi e superbi, oppure per ritirare qualche  premio; poi il periodo del soggiorno americano, e il contributo alla Patria in armi come ufficiale degli Spahis durante la Grande guerra.

Per il resto, una vita quasi da anacoreta sul Monte Marrone, tra lupi e camosci. Anni dopo, fu la volta di Collerosso, un colle circondato da ginestre, boschetti di querce, distante un chilometro circa da  Castelnuovo al Volturno, dove visse in una minuscola costruzione di lastre di tufo addossata a un sasso, arredata con il minimo indispensabile. Lì si sentiva libero di vivere alla maniera dell’Emilio di J.Jacques Rousseau –il filosofo che sentiva più vicino - in sintonia totale con Madre natura, e  libero di dipingere.
 Quei luoghi - come era già successo a Van Gogh quando aveva lasciato il grigio cielo olandese per il sole della Provenza - lo incantavano per la qualità della luce, che provò da allora, e fino alle fine dei suoi giorni, a tradurre su cartoni e tele.
Dipingeva tutti i giorni, in tutte le stagioni, e, conoscendo le piante officinali, se ne nutriva, ma si  prodigava anche per curare con esse la gente del paese, che lo chiamava col nome storpiato di “Mussié Mulà”,e che a poco a poco gli costruì intorno una leggenda alimentata dalla sua generosità, dalla gentilezza d’animo, dalla sua genialità.
Persino i  colori li traeva dalla natura: preparava i pastelli con la terra e la colla attaccata ai ciliegi; le scatole da imballaggio che si faceva regalare dai negozianti gli servivano da cartoni per dipingere.
 Non ritraeva solo il paesaggio circostante, i fiori, i corsi d’acqua, perché si recava presso le famiglie del paese per eseguire ritratti che poi regalava. Il suo compenso consisteva in un piatto di minestra calda. Oppure si sdebitava con piccoli oggetti di legno che fabbricava.
Amava dialogare con il suo modello mentre lo ritraeva, perché attraverso le parole  riusciva a capire il mondo interiore della persona che aveva di fronte, trasponendo il suo stato d’animo nello sguardo e nell’espressione del volto che stava dipingendo.
 Dopo un inizio neoclassico, l'artista aveva abbandonato l'olio per il pastello, perché quest’ultimo non si scurisce  e quindi conserva meglio, anche dopo anni,  luminosità e freschezza.
“ La sua - ha scritto il compianto Lino Mastropaolo – fu una concezione tardo-romantica, che gli fece vivere marginalmente la modernità dei nuovi processi culturali. Questi, certamente, non lo entusiasmarono ma, consapevolmente o non, erano dentro di lui e sono riscontrabili nelle opere che risentono della lezione impressionista e simbolista”(Arti visive nel Molise,1920-1950, Ed. Enne, 2000, p.122).
Tra i rarissimi visitatori, ebbe Marcello Scarano, che, nel 1936, si rifugiò su quelle montagne, dove scrisse L’incanto delle Mainarde.
Alla fine del ’43, quando gli americani, sbarcati in Sicilia, cominciarono a salire su per la Penisola facendo arretrare i tedeschi, i castelnovesi ebbero l’ordine di lasciare il paese.
Moulin, prima di allontanarsi, ebbe cura di sotterrare in una buca le sue tele.
Dopo qualche giorno giunse in paese un ufficiale francese con il proposito di conoscere il pittore.
Quando gli fu risposto che Moulin era andato via, diede ordine di rovistare ovunque ai suoi soldati, che si fermarono solo quando scoprirono il nascondiglio.
Al suo ritorno l’artista non trovò più nulla…
Ma non era finita, perché il paesino fu teatro di una macabra messa in scena quando interi reparti alleati  vi affluirono inscenando una battaglia in piena regola che si concluse con il bombardamento e la distruzione del centro abitato, al solo scopo di girare un film di propaganda da mostrare agli americani sull'assalto alla Linea Gustav.
Charles riprese comunque l’attività con ritmo intenso, finché la salute glielo consentì; l’ultimo ritratto eseguito, quello di Suor Pia, fu iniziato nella clinica Pansini di  Isernia, dove era stato ricoverato; poi, la morte, il 21 marzo 1960.
 E’tuttora sepolto nella cappella di Pasquale Rufo  nel cimitero di Castelnuovo.
La sua figura è entrata nel mito, ma ha continuato ad essere relegata in un limbo senza nome, finché l’amministrazione comunale di Rocchetta al Volturno, il sindaco Teodoro Santilli - che sta portando avanti il progetto di realizzare un percorso museale per mantenere vivo il ricordo dell’artista francese – non hanno deciso di metterne in luce con un video la vicenda umana e la statura artistica.

 Al regista e attore campobassano Pierluigi Giorgio, reduce dal successo del filmato  Con le periferie nel cuore tratto dall’omonimo libro del vaticanista Raffaele Luise, l’impegno di realizzare un film- documentario su Moulin.
 Documentarista di livello nazionale, vincitore di premi in Festival del cinema, da decenni attento alle tematiche ambientali e alle tradizioni popolari, sensibile alla salvaguardia delle etnie “minori”, Giorgio ha tra l’altro percorso a piedi chilometri di tratturi pugliesi e molisani per attirare l’attenzione sulla salvaguardia delle vie della transumanza.

Suggestionato dalla personalità del pittore francese, Giorgio era da tempo sulle sue tracce, tanto che già nel ’90 si era attivato per la ricostruzione del rifugio di Moulin su Monte Marrone.
 Che la narrazione nasca da una lunga, intima sedimentazione, si avverte durante tutta la proiezione del film Moulin il poeta del pastello, perché dal tono e dal testo si percepisce fino a che punto Giorgio sia soggiogato da quella  figura d’artista - di cui sembra condividere le scelte di vita - tanto da dare l’impressione, verso la fine del docufilm, di  indugiare a lungo, quasi  un non voler mettere la parola fine ad una storia così straordinaria.
Se per le riprese degli scenari mozzafiato delle Mainarde, che fanno parte del Parco nazionale di Abruzzo, Molise e Lazio, non ci sono stati problemi, non si può dire lo stesso  per quelle nei vicoli e negli interni.

Infatti le locations sono state svariate per motivi di credibilità scenica, dato il periodo storico rappresentato, quello degli anni ’40-‘50: infissi anodizzati e fili elettrici a vista hanno costretto il regista a esplorare scorci e angolazioni alternativi in altri paesi molisani, come Ferrazzano e Macchia. Più facile, per il regista, riprendere Emilie nella splendida cornice della villa De Capoa di Campobasso, un cameo prezioso dedicato all’unico amore di Charles.
Anche reperire il povero vestiario di quegli anni, le “cioce”che portava ai piedi Giorgio-Moulin, non è stato diffcile, grazie soprattutto alla disponibilità degli abitanti di Castelnuovo, Rocchetta e Jelsi.
 Supportato dalle testimonianze raccolte nel volumetto di Antonia Izzi Rufo (Ho conosciuto Charles Moulin, Il Cervo,1998) e arricchito dalla viva voce delle persone che hanno conosciuto e frequentato il pittore francese, il film Moulin il poeta del pastello, che, dopo la prima assoluta a Isernia (29 dicembre 2015) è stato proiettato con grandissimo successo anche a Campobasso (7 gennaio c.a.),  ricostruisce con rigore filologico e intima partecipazione emotiva la lunga esistenza dell'artista che cercò di riflettere sul significato profondo della vita  per scoprirne i valori eterni nella bellezza del creato e delle sue creature.

Giorgio, nel duplice ruolo di Moulin e del narratore che cerca le sue “orme” nei luoghi dove l’artista visse, si è compenetrato nella sua parte in maniera portentosa, restituendo con gran forza  empatica l'essenza stessa della visione filosofica che animò e ispirò ogni tocco e ogni pensiero del pittore, genuinamente intinta di naturalismo rousseauiano.
 Le magnifiche riprese e il montaggio dovuti alla maestria del multipremiato regista William Mussini, che ha prodotto il film con la Mad Video, rendono appieno l’unicità dello straordinario pittore così come la vibrante spettacolarità della natura selvaggia delle Mainarde; le canzoni di Danilo Sacco e la voce limpida di Liana Marino incantano, accrescendo la suggestione e la liricità del docufilm, che a sessant’anni circa dalla scomparsa dell’artista gli rende finalmente un meritato, bello e sentito omaggio.
Ci aspettiamo che questo toccante lavoro, per il suo portato storico e culturale, sia divulgato il più possibile in tutt’Italia e all’estero, aprendo la strada ad una (finalmente) maggiore conoscenza dell’artista e del Molise, una terra che fu sua fonte di ispirazione intensa e duratura.
Rita Frattolillo© 2016 tutti i diritti riservati 



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