martedì 26 gennaio 2016

Per la giornata della memoria


 Rita Frattolillo
        Perché in questa giornata del 27 gennaio il nostro pensiero sia      rivolto, oltre che alla  shoah di  sei milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale, a tanti altri olocausti di cui si sa poco o nulla.
Perché troppo spesso gli studiosi occidentali passano sotto silenzio o dimenticano i grandi eventi che sono accaduti al di fuori dei  confini di loro “competenza”.
 Del feroce genocidio perpetrato ai danni dei curdi, qualcosa  ogni tanto comincia a trapelare, ma a fatica.
 Quasi nulla, poi, è affiorato sulla sorte tragica toccata a più riprese, durante i secoli, ad un popolo geloso della propria indipendenza ed unicità come quello armeno.
Il loro genocidio è tuttora negato, ed è per questo che voglio parlarne.
Tre sono  i momenti  tragicamente indimenticabili  - mi pare - della loro travagliata lotta per l’indipendenza.
Nel V sec. d.C. la battaglia di Avarayr (26 maggio 451) segna un evento decisivo per l’affermazione dell’identità del popolo armeno, che aveva aderito al Cristianesimo dodici anni  prima dell’Editto di Costantino, nel 301.

 A quell’epoca gli armeni erano stati assoggettati ai persiani, i quali, professando lo zoroastrismo, cercarono in tutti i modi di convincerli ad aderire alla loro religione. Ma questi si ribellarono ai magi (sacerdoti di Zoroastro), riuscendo a mettere in piedi un esercito guidato dal leader militare Vardan Mamikonian, filo-romano e insofferente ai soprusi sasanidi. Esercito che, malgrado il valore, nulla poté contro gli schieramenti persiani potentissimi, completi di elefanti e cavalieri con armamento pesante. Vardan, che prima dello scontro aveva pronunciato queste parole galvanizzando i suoi: “Chi credeva che il Cristianesimo fosse per noi un abito, ora saprà che non potrà togliercelo, come colore della nostra pelle!” fu trucidato in battaglia con altri 1036 martiri, guadagnandosi l’onore degli altari.
Dopo decenni di guerriglia tra armeni e  armate persiane fu deciso, per evitare ulteriori danni, di concedere agli armeni la libertà di culto. Era il 484 d.C.
 Questo è il primo dato sconvolgente di una storia tutta intrisa di una fede cristiana rimasta salda, compatta, che ha fatto da collante sociale e morale di fronte a intimidazioni, minacce, persecuzioni e tormenti di ogni genere.

Il secondo momento incancellabile è il massacro di Adana, città in provincia di Cilicia, nell’Anatolia, iniziato il 14 aprile 1909 e proseguito per quindici giorni.
Era un mercoledì di Pasqua e la città contava all’incirca “novecento famiglie armene; oggi, in quello che resta delle case più volte distrutte e altrettante volte ricostruite sono rimasti ventotto uomini e sessanta donne” (domenicobonvegna@alice.it, da Rozzano, 10 marzo 2012). Ma cosa era successo?
 Quando nello sfaldamento del potere ottomano la Grecia e i territori balcanici diventano indipendenti, il partito ultranazionalista “Unione e progresso” dei Giovani Turchi che  arriva al governo ha in animo di rispolverare il  mito della Grande Turchia.
Inizia così il disegno di annullamento degli armeni, sospettati anche di simpatizzare per i russi. Tra il 1894 e il 1896 si erano contate duecentomila vittime, a cui bisogna aggiungere conversioni forzate e migliaia di armeni in fuga.
 Quella mattina del 14 aprile 1909 civili e militari turchi, al grido di “Uccidete gli infedeli!”si abbandonarono ad efferatezze inaudite che sconvolsero i pochi osservatori internazionali. A colpi d’ascia, gli assalitori  forzavano le porte, dilaniavano e torturavano le vittime, poi gettavano gli oggetti recuperabili in una carretta ferma in strada, e infine con una pompa si passava “al petrolio”la casa, dandole fuoco. I banditi procedevano con metodo, avanzando progressivamente nel quartiere armeno, risparmiando le abitazioni che avrebbero potuto trasmettere le fiamme alle case dei musulmani. Tutto il resto veniva raso al suolo (c.f.r.Manoscritto di Padre Rigal, gesuita del Collegio di San Paolo, testimone oculare.) Non furono risparmiate dai saccheggi neanche le fattorie dei dintorni di Adana: uomini crocifissi sulle tavole, bimbi infilzati in cima alle baionette, donne violentate e sventrate a colpi di coltello….Furono quindici giorni e quindici notti di terrore e angoscia.

Ma non è finita: la fase decisiva del genocidio si verifica nel 1915, quando, approfittando del fatto che le potenze europee sono impegnate al fronte (Prima guerra mondiale), il regime dei Giovani Turchi ha finalmente mano libera per risolvere una volta per tutte la “fastidiosa Questione armena”(Questione ufficialmente entrata nella diplomazia internazionale  - ma senza esiti reali - al Congresso di Berlino 1878), quella, cioè, di un popolo che vuole rimanere a tutti i costi cristiana e rifiuta decisamnete sia l’islam che l’ideologia panturca.
“ Il genocidio diventa  sistematico e capillare, portando a compimento una ininterrota serie di persecuzioni e di stragi contro le minoranze cristiane presenti in Europa (Serbi, Bulgari…) e in Asia minore (Greci, Assiri, Armeni). Inizia anche un piano sistematico di deportazione accompagnato da violenze e stragi inenarrabili che vengono ignorate dall’opinione pubblica mondiale  impegnata in guerra e dall’opportunismo delle alleanze politiche e militari”(c.f.r.Angela Frattolillo, Armenia: Antica Chiesa di frontiera tra Storia e Tradizione, in c.d.s., pp. 9-10).
E’ un piano di pulizia etnica che, iniziato il 24 aprile 1915, giorno di Metz Jeghern (del Grande Male), coordinato da un direttorio di cui faceva parte anche Mustafa Kemal, noto come Ataturk, ha l’obiettivo di cancellare dalla faccia della terra la comunità armena cristiana. E ci riesce.
Quel 24 aprile 1916 comincia con il massacro dei notabili, a cui segue la confisca dei beni e l’arruolamento dei maschi armeni i quali, una volta in divisa, vengono messi al muro. Subito dopo un’Organizzazione speciale paramilitare si abbandona a eccidi e violenze sulla popolazione civile e infine  i superstiti sono deportati dall’Anatolia – dove gli armeni erano installati dal VII sec. a.C. - nel deserto di Der es Zor.
Metà di essi perisce durante la terribile marcia, e il resto viene soppresso con metodi brutali, il più spesso con la lapidazione, per risparmiare le munizioni.
 

Dal 21 luglio al 12 settembre del 1915 sul monte di Mosè - Mussa Dagh-  si arroccano circa cinquemila armeni che, ribellandosi al governo ottomano, intendono sfuggire alla deportazione. Assediati, attaccati, bombardati, non cedono,poi riescono a farsi trarre in salvo da un incrociatore anglo-francese di passaggio nel golfo di Alessandretta e portati in salvo a Porto Said in Egitto.
 Paolo Granzotto ha scritto (Il Giornale.it) che i quaranta giorni di Mussa Dagh sono l’unico episodio di resistenza da parte degli armeni ai tempi dell’Olocausto.
 Sono in molti a negare  il genocidio di Metz Jeghern, ma Vittorio Messori ha scritto che oltre un milione e mezzo di morti su una popolazione di due milioni sono una “percentuale dell’orrore che non ha pari, in età moderna, per nessun altro popolo”.

E Giovanni Paolo II si è chiesto “come il mondo abbia potuto conoscere aberrazioni tanto disumane”. Aberrazione che a tutt’oggi – conclude Granzotto – il governo turco con ambizioni europee continua a negare.

Rita Frattolillo©2016 Tutti i diritti riservati
















Nessun commento: