sabato 25 marzo 2017

"Cent'anni di solitudine" di Gabriel Garcìa Màrquez


di Rita Frattolillo
              Sull’onda del buon docufilm “Gabo”  mi sono riavvicinata al romanzo “Cent’anni di solitudine” scritto nel 1967 dallo scrittore colombiano  G.G. Màrquez (1927-2014), premio Nobel 1982. Sono quattrocento pagine che con piglio epico  narrano la storia della famiglia Buendia lungo sei-sette generazioni, a cominciare dal patriarca José Arcadio Buendía, il quale, dopo aver vagato a lungo e  inutilmente con altre famiglie amiche nella sierra alla ricerca della costa, si ferma a fondare il villaggio di  Macondo,  vicino alla grande palude. Di pari passo con la saga familiare, seguiamo la crescita di Macondo, la sua “prosperità miracolosa”, ma anche la sua distruzione. Inizialmente composto da  poche  case di fango, esso  si abbellisce via via con abitazioni in mattoni e tetti di zinco, finché arriva la compagnia bananiera che porta lavoro e nuove possibilità economiche. Anche la vita si anima, la gente si civilizza, conosce il grammofono e il telefono, arriva la ferrovia.
Ma la rivolta sindacale portata avanti dagli operai  in sciopero contro la compagnia bananiera sfocia in una inattesa quanto sanguinosa repressione, che verrà negata dagli stessi parenti delle vittime del massacro: è questo l’inizio del declino, a cui segue  il  lunghissimo diluvio che porta alla rovina  di molte case,  compresa quella dei Buendía, e come se non bastasse, un vento biblico spazzerà via tutto.
Cominciare la lettura di questo romanzo che è considerato l’opera più importante scritta in lingua spagnola dopo il “Don Chisciotte della Mancia” di Cervantes  mi ha comportato una certa fatica per superare il dépaysement iniziale. Alla struttura narrativa articolata su diversi piani di lettura, si aggiungeva il ricorso dell’A. alla mescolanza di  futuro e passato (prolessi =previsione; analessi=flashback). Poi, si trattava per me di penetrare in un mondo completamente diverso, in cui gli esseri umani convivono mescolati  in tutta naturalezza con gli animali e le piante, che siano formiche scarafaggi rane farfalle tarli, e poi fiori e foglie, vivi o appassiti. E familiarizzare con quel contesto. Gli uomini e le donne  di “Cien aňos de soledad”  non conoscono il compromesso, l’ipocrisia, la falsità: esseri primitivi, semplici, arcaici,  che agiscono governati dalla loro passione dominante, che quasi mai è quella giusta; non sono capaci di liberarsene, per cui in definitiva sono vittime di se stessi, in quanto vivono accartocciati su di sé, tra sentimenti e gesti ripetitivi. E non riescono a scrollarsi di dosso il fato della solitudine: mai e poi mai i Buendìa riescono a condividerla con chi vive accanto a loro, nella stessa casa. Questo microcosmo arcano tuttavia, con lo scorrere delle pagine, del tempo e dei fatti, assume una risonanza universale, una dimensione mitica. E a Macondo,  poi, villaggio “di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come pietre preistoriche”, nessuno si meraviglia, le cose succedono e basta, viene accettato tutto. Eppure,
la quotidianità dei fatti si accompagna ad eventi  magici, come la salita al cielo di Remedios la Bella, le farfalle che accompagnano Mauricio Babilonia e ne annunciano la presenza, l'apparizione dell'Ebreo Errante,  il diluvio che dura  più di quattro anni, la pioggerella di minuscoli fiori gialli, il vento misterioso che distrugge il villaggio. Tutti eventi soprannaturali  intrecciati alla quotidianità che  disorientano. La scrittura di Màrquez, densa, intensa, inusuale nell’aggettivazione come nei paragoni, che porta con sé il retaggio dei miti, delle tradizioni ancestrali del continente sudamericano fa il miracolo,  creando un’atmosfera evocativa, “magica”.  Atmosfera strana, grazie anche al rapporto particolare - e al confine labile -  tra i vivi e i morti. Perché questi ultimi, pur di non sentirsi soli tra gli altri morti, tornano tra i vivi.  Lo fa Melquíades, quando “scosse la polvere della loro vecchia amicizia. Lo zingaro era stato nella morte, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la solitudine”(p.50).  Lo fa Prudencio Aguilar: “Dopo molti anni di morte, era così intensa la nostalgia dei vivi, così incalzante il bisogno di compagnia, così terrificante la prossimità dell’altra morte che esisteva dentro la morte, che Prudencio Aguilar aveva finito per voler bene al suo nemico [Josè Arcadio] e lo stava cercando chiedendo di lui ai morti che arrivavano dalla palude”(p.77). E  con molta naturalezza Amaranta [che conosce il giorno della sua morte] si fa consegnare i messaggi per i morti che lei stessa porterà nell’aldilà, così come Amaranta Ursula e Aureliano sono “svegliati dal traffico dei morti che parlavano e pregavano” nella stanza accanto.  Ebbene, i morti cercano i vivi – anche se erano loro rivali o nemici - e tornano da loro per stare in compagnia, al contrario i vivi Buendìa, come il colonnello Aureliano, che “grattò per parecchie ore, cercando di romperla, la dura crosta della sua solitudine”, non ci riescono mai a condividerla. L’unico che avrebbe potuto spezzare questa condanna, è un frutto dell’incesto, e, in quanto negazione dell’apertura all’esterno, deve morire, decretando la fine della stirpe.  E’ stato detto che Màrquez ha inseguito tutta la vita il senso della solitudine; forse. Ma, al di là dei collegamenti sicuramente esistenti tra la biografia di Márquez e i fatti narrati e trasfigurati nella narrazione, che riflette in maniera fantastica la realtà colombiana e sudamericana, alcune storie dal sapore mitico sono state sicuramente ispirate a quelle che raccontava la nonna dell'autore, nella grande casa dove García Márquez  è cresciuto da bambino. Dando ragione, ancora  una volta- per ragioni diverse- sia a Proust che  al critico Sante-Beuve, il quale era convinto che   
        dietro a un libro c’è la vita reale e quotidiana del suo autore, ci sono le sue opinioni. 
 E Proust  scriveva che la profondità di un’opera è direttamente proporzionale alla  profondità del”getto artesiano” da cui è zampillata…Certamente “Cent anni si solitudine” è venuto da una bella profondità!
La trama
Non è facile districarsi nell’intreccio delle vicende e nella folla di comprimari e figure secondarie, tutti dotati di una spiccata indole, descritta dall’A. con pochi tratti significativi.
La moglie del capostipite José Arcadio, che è anche sua cugina,  Ursula Iguarán, rappresenta a mio avviso l’ossatura portante del romanzo, e non solo perché vivrà per tutto il tempo, arrivando a 115/ 122 anni, così da poter conoscere  i membri di tutte le generazioni della famiglia. Anche per questo motivo, durante la vecchiaia, ha la sensazione che il tempo non passi mai, e confonde i bisnipoti coi suoi figli ormai morti; tra le sue frasi: “Il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto  con la solitudine” . Caratterizzata  da buon senso,  notevole forza d'animo e  grande capacità lavorativa (“finché Dio mi dà vita, non mancheranno mai i soldi in questa casa di pazzi”), all’inizio aveva resistito alle legittime avances del marito-cugino, terrorizzata dall’idea di generare – a causa della consanguineità - un figlio con la coda di maiale, come aveva sentito dire in famiglia. Perciò era arrivata ad indossare durante la notte una cintura di castità fabbricatale dalla madre, ma poi  aveva ceduto, e di figli la coppia ne avrà tre, José Arcadio, Aureliano e  Amaranta. Un’altra bambina, Rebeca, sarà adottata, ma porterà con sé  diversi problemi: anzitutto  l'abitudine di nutrirsi di terra e di succhiarsi il pollice. Poi, soffrendo della peste dell'insonnia,  finirà per contagiare l'intera Macondo. E qui ci sono riflessioni straordinarie di Màrquez sul valore della memoria e del ricordo.
Intanto, José Arcadio senior s'impone come autorità saggia e imparziale del villaggio finché non arriva una tribù di zingari, guidata da Melquíades, vero deus ex machina del romanzo, il quale di anno in anno porta le novità e le invenzioni più  disparate, come la calamita ed il cannocchiale. Così, seguendo i ragionamenti e i marchingegni dello zingaro,  José Arcadio Buendía si abbandona a una sorta di follia, si  assorbe in esperimenti scientifici deliranti,  gettando al vento i risparmi familiari e perdendo di vista la crescita dei figli. Per fortuna Ursula riesce a farlo ragionare, facendogli ritrovare responsabilità, autorevolezza,  e  l’amore per i figli.
 Ma un giorno, ossessionato dal tempo che non scorre, ha un eccesso di pazzia che costringe la famiglia a legarlo ad un castagno, dove rimarrà fino alla morte, al cospetto dei parenti, intento a chiacchierare  con il fantasma di Prudencio Aguilar, un uomo che aveva ucciso anni prima.
Il suo fantasma rimane sotto il castagno, visibile a tutti i componenti della famiglia, tranne che al colonnello Aureliano, suo secondo figlio, che era stato il primo bambino nato a Macondo, e che dopo la venuta degli zingari si era specializzato nella produzione di pesciolini d’oro.
Passano gli anni, la famiglia aumenta, il villaggio cresce e si evolve emancipandosi,  ma i nomi e i caratteri di figli e poi nipoti Buendìa si ripetono, perpetuando certe caratteristiche, come la forza fisica, la virilità esuberante, l’impulsività, una certa inclinazione alla follia, la tendenza all’incesto, ma anche e soprattutto il fatale senso della solitudine.
Aureliano, molto prima di cambiar vita e di prendere le armi diventando colonnello,  si innamora di Remedios Moscote, una bambina di nove anni. Nonostante la differenza di età viene combinato il matrimonio.
La bambina si integra senza sforzo nella famiglia, prendendosi cura del suocero José Arcadio sotto il castagno,  allevando il piccolo Aureliano José, mettendo pace tra  le cognate Amaranta e Rebeca, che si odiano perché innamorate dello stesso uomo, Pietro Crespi, un bell’italiano biondo  giunto in casa Buendía per montare un pianoforte. Quando Pietro Crespi si fidanza con Rebeca (che però, sedotta dalla forte mascolinità di José Arcadio, lo sposerà), Amaranta giura alla sorella adottiva che impedirà con qualunque mezzo le sue nozze con l'italiano.
Remedios muore fra le sue bambole, a soli 14 anni, per l'aborto naturale dei due gemelli che ha in grembo. Questa tragedia lascerà il segno perché  Amaranta proverà un forte senso di colpa, ma avendo “viscere di selce”, non acconsentirà  mai a sposare Crespi, inducendolo al suicidio. Passerà gli anni tormentata dai rimorsi, a tessere come Penelope il suo sudario fino al giorno della sua morte. Giorno di cui aveva ricevuto un preciso presagio.
Dopo la morte di Remedios, Aureliano si rinchiude in un profondo silenzio finché, esasperato dal malgoverno e delle violenze dei militari, decide di unirsi alla rivoluzione liberale contro il regime che sfocia nella guerra dei mille giorni (la quale nel romanzo non dura tre anni ma venti). Durante la sua esperienza militare, promuove trentadue insurrezioni senza successo, e concepisce diciassette figli maschi (che finiranno tutti uccisi in età adulta) da altrettante donne diverse;  erano 

 le madri a mandare le figlie nel letto dei guerrieri per migliorare la razza.
Rispettato e temuto anche dai rivali conservatori, sopravvive a quattro attentati, settantatré imboscate, a un tentativo di suicidio, e ad un plotone d'esecuzione, per finire i suoi giorni chiuso nel suo laboratorio a fabbricare pesciolini d'oro. Dopo alcune tentazioni di riprendere la guerra per cacciare la prepotente compagnia bananiera e l’assassinio dei suoi figli (tranne uno che si dà alla fuga e verrà ucciso più tardi, quando ritornerà a Macondo), muore di vecchiaia con la testa appoggiata al tronco del castagno del padre.
In “Cien aňos de soledad” non mancano donne bellissime, come Remedios la Bella.
Figlia primogenita di Arcadio e Santa Sofía de la Piedad, fin dall'infanzia si distingue per la bellezza fuori dal comune, e nonna Ursula non la lascia uscire di casa, se non per andare a messa e completamente velata. Remedios vive in un mondo tutto suo, rimane analfabeta, gira con una  palandrana senza niente sotto.
Ma la sua bellezza è mortale, e ossessiona gli uomini come   un fluido magico  che li conduce alla morte. Un pomeriggio ascende in cielo fra lo stupore delle altre donne della casa, portando con sé il lenzuolo che stendeva all'aperto.
Un’altra bellissima è Fernanda del Carpio, una nobile decaduta “intrecciatrice di palme funebri”. Moglie di Aureliano secondo, è meschina, bigotta e superba. Tutto il contrario del carattere del marito, che è gioviale,  compagnone e pieno di vita, al punto che va a convivere con Petra Cotes. Fernanda osteggia l'amore tra la figlia Meme (Renata Remedios) e l'umile meccanico Mauricio Babilonia, un giovane con “una tristezza da saraceno e un bagliore lugubre nel volto color autunno”(p.257). Quando Mauricio rimane colpito dal fuoco delle guardie rimanendo paralizzato, Fernanda costringe la figlia a divenire monaca. Tempo dopo, una suora  le porterà il figlio di Meme, Aureliano Babilionia, e Fernanda lo lascerà  recluso in casa, vergognandosi della sua nascita. Eppure sarà  il nipote Aureliano a conservare il cadavere della nonna Fernanda in attesa del ritorno del figlio José Arcadio da Roma.
José Arcadio  era stato cresciuto da Amaranta, e nutriva per la prozia una insopprimibile attrazione fisica, altro motivo di tormento per la donna. Lui morirà tragicamente, da prete mancato, assassinato nella vasca da bagno dai suoi ex compagni di bagordi spinti dal desiderio di impadronirsi delle sue ricchezze.
Con Amaranta Ursula siamo alle ultime battute del romanzo. Terzogenita di Aureliano Secondo e Fernanda del Carpio, viene mandata a studiare a Bruxelles dal padre,  e torna a Macondo insieme al marito belga Gastón,  piena di idee di rinnovamento.  Donna dalla mentalità aperta, amante della moda e del ballo, sessualmente esuberante, si innamora  del nipote Aureliano Babilionia (figlio di Meme e Mauricio Babilonia), che crede suo fratello adottivo mentre è suo nipote. Costui, dopo la morte della nonna Fernanda e dello zio José Arcadio,  andava spesso in libreria dove comprare libri allo scopo di decifrare le pergamene in sanscrito di Melquíades. Uomo incredibilmente colto,  non riesce a reprimere la sua passione per la zia, che lo ricambia dimentica di tutto e tutti. Lei muore di parto, dando alla luce l'ultimo Buendía.
Il quale nasce massiccio,  predisposto quindi a cominciare una nuova stirpe dal principio, e a “purificarla dalla sua vocazione solitaria”, perché era “l'unico, in un secolo, ad essere stato generato con amore”. Ma scatta la punizione  “divina” sotto forma di un biblico vento che spazzerà via ogni traccia del villaggio. Inoltre il neonato ha la temuta coda di maiale, in quanto figlio incestuoso (si avvera così il vecchio timore dell’ava Ursula). L'incesto - il freudiano mito di Edipo-, è visto quindi, in ultima analisi, come autodistruzione della stirpe.
Il giorno successivo alla nascita, il neonato viene divorato dalle formiche rosse, come previsto dalle pergamene di Melquíades: « Il primo della stirpe è legato a un albero, e l'ultimo se lo stanno mangiando le formiche. »
        Dopo la morte per dissanguamento dell'amata e del figlioletto, anche Aureliano perisce nell’uragano che distrugge Macondo, mentre decifra le pergamene di Melquíades che predicono in sanscrito l'intera storia della famiglia Buendía: « perché le stirpi condannate a cent'anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra. » 
Melquìades non fa parte della famiglia, ma è strettamente collegato con i Buendìa. Costui è una figura chiave del romanzo, dove compare e scompare di continuo. Tra l'altro, salva Macondo dalla malattia dell'insonnia, somministrando agli abitanti un antidoto contro l'oblio. Dopo anni di assenza, torna al paese e rimane a vivere a casa Buendía, rinchiudendosi in una stanza dove si dedica alla profezia sulla fine della stirpe. Dopo la sua morte il suo spirito resta nella stanza per sempre.
Pilar Ternera è amica di Ursula, di mestiere indovina (legge il futuro con le carte) e donna  tuttofare. Dotata di un erotismo attraente per i giovani Buendia,  darà dei figli a José Arcadio e Aureliano, (rispettivamente Arcadio e Aureliano José). Tenutaria di un “bordello zoologico” (cioè con annesso zoo)  in età avanzata, muore dopo aver raggiunto i 145 anni e viene seppellita seduta su una sedia, per sua  volontà. La sua morte, come quella di Ursula, segna la fine della stirpe dei Buendia e  di Macondo, insieme alla profezia di Melquíades. 


 Rita Frattolillo © tutti i diritti riservati 2017











1 commento:

Barbgara ha detto...

Quello di Gabriel Garcia Marquez è un capolavoro di debordante fantasia che lessi tanti anni fa. Ricordo che faticai a riallacciare tutti i fili della saga dei Buendìa come hai fatto tu. Per cui, onore al merito, brava come sempre