sabato 21 gennaio 2017

Tra la "Lettera a una professoressa" di don Milani e "A colloquio con Belzebù" di Elvira Tirone


di Rita Frattolillo


                     Nel maggio1967, un mese prima che si spegnesse ad appena 44 anni, don Lorenzo Milani pubblicava un volume scritto insieme ai suoi alunni, i ragazzi della sperduta frazione di Barbiana, nel Mugello.
 “Lettera a una professoressa”, questo il titolo, ebbe l’effetto di un sasso nello stagno.
 Perché essa dava voce a ragazzi  poveri, considerati i paria della socità, e poi perché  denunciava forte e chiaro il sistema scolastico  e un metodo didattico che, favorendo l’istruzione delle classi agiate, i cosidetti “Pierini”, abbandonava all’ignoranza la maggior parte del Paese. 
Ma chi era  Don Milani?  Un sacerdote, insegnante, scrittore ed educatore, che, con quei ragazzi, aveva tentato una sperimentazione di scuola a tempo pieno, realizzando un collettivo dove si lavorara tutti insieme, e chi sapeva di più  aiutava gli altri.

  Dopo la sua morte,  don Milani è diventato un punto di riferimento per il cattolicesimo socialmente attivo e per il suo impegno civile nell’istruzione dei poveri. 
Tra le tante battaglie portate avanti – che hanno fatto di lui una figura scomoda e controversa, spesso in conflitto con le gerarchie ecclesiatiche – quella per difendere l’obiezione di coscienza. 
Nato (27.05.1923) a Firenze da un agiata famiglia ebrea, era cresciuto in un ambiente agnostico e anticlericale,  molto vivace dal punto di vista intellettuale.
 A Milano, dove si era trasferita, la famiglia si trovò isolata a causa dell’ascesa del nazifascismo, sicché corse ai ripari adottando misure sociali più ortodosse, e battezzando, negli anni ’30, i figli. Ma la vera conversione in Lorenzo avvenne dopo la lettura di un vecchio  messale  rinvenuto casualmente e dopo l’incontro con don Raffele Bensi, in seguito divenuto suo direttore spirituale.
La  morte di don Milani , sopraggiunta il 26.06.1967dopo una devastante malattia,  accrebbe l’interesse per la “Lettera a una professoressa”,  che  - naturalmente - ebbe un impatto fortissimo nel mondo della scuola,  divenendo tra l’ altro uno dei moniti del movimento studentesco iniziato a Parigi nel maggio ’68.
Nel Molise, è la docente e scrittrice Elvira Santilli Tirone  ad affrontare  il magma creato nella bistrattata classe insegnante  dalla presa d’atto della “Lettera” con il romanzo A colloquio con Belzebù, uscito nel 1991, e vincitore del Premio nazionale“Scopri l’Autore”.
 L’A. presta al protagonista del suo romanzo, Arturo Rivolta -  rivoltoso solo nel nome - la propria esperienza di docente, inoltrandosi in sentieri a lei noti e quotidianamente praticati.
 Arturo Rivolta è il 47enne padre di quattro figli, ed ha una moglie, Clara, maestra in una scuola di campagna, attenta al risparmio e serena con se stessa, a differenza di lui, perché “anziché porsi sui trampoli si rifugiava sulle alture con la sua anima dove udire l’eco sprofondata degli spazi che poteva  dare un senso alla vita”.
Arturo, invece, si macera nel perenne dubbio della propria inadeguatezza come professore, malgrado una buona preparazione, pure se riesce a tenere la barra dritta nelle classi e ama sinceramente il suo lavoro e i ragazzi.  Privo di un temperamento forte e deciso, incapace di far valere i propri principi, è schivo e riservato, e non è certo aiutato dal suo diavoletto, Belzebù, che è dispettoso, malevolo, e pure cattivo  consigliere. Questo il quadro.
Unica certezza - o quasi -  è quella di dover rinunciare a combattere  per  sbarcare il lunario, arrivare a San Paganino.
 Ma arrivare al 27 del mese è sempre più faticoso, da quando i ministri Misasi, Sullo e Ruberti, uno dopo l’altro,  hanno fatto “piovere” dall’alto sulla Scuola italiana una serie di riforme, in primis l’obbligo della frequenza per tutti fino alla terza media.
Qui tocchiamo il cuore del romanzo, perché  la Tirone descrive dall’interno  il momento incandescente delle riforme - scaturite  anche  dall’esperimento di don Lorenzo Milani - che divise la classe docente di tutt’Italia, tra  fautori e  contrari.
L’A. dipinge con maestria e  onestà intellettuale quella svolta epocale, perché anche lei in quella fase insegnava alla Media, e  percepiva il malessere di chi - dovendo “maneggiare” una “materia” viva  - era chiamato a rivedere metodo e sistema perché in alto qualcuno così aveva deciso, ma senza curarsi di formare e preparare adeguatamente al nuovo corso i docenti, che dovevano improvvisare facendo leva  esclusivamente sulla propria abilità di insegnanti, sull’intuito, e sulla loro  capacità di adattamento.
 Bisognava insomma affrontare  - ognuno da solo - una realtà in ebollizione, improvvisando.
Una grossa, continua  responsabilità, dai risultati difficilmente valutabili.
Quando giunge nella scuola di Rivolta il libro degli otto ragazzi di Barbiana, l’A. inscena  l’infuocato confronto tra  l’energica e  autoritaria prof. Mencarelli (l’esatto contrario di Arturo) e la preside Spinelli, nome  prestato ad Angela Freda, la preside che realmente aveva retto, e con autorevole prestigio, il Liceo classico di Larino.
               E’ l’occasione per difendere la dignità e l’importanza formativa del latino, che don Milani aveva definito “lucignolo spento” perché nessuno dei suoi ragazzi lo aveva scelto. E come avrebbero potuto, visto  il loro bagaglio di  sopravvivenza e gli obiettivi che si erano posti? 

Ma è anche l’occasione per prendersela con quegli uomini di cultura che non avevano difeso dagli insulti  di certi sapientoni  il  lodevole decoro con cui i proff si erano sobbarcati il peso delle riforme, si erano accontentati di magri stipendi, vedendo - per tutta risposta - ignorata e  distrutta la loro umanità. E uno strale viene lanciato in direzione del problema della famiglia in cui la madre lavora.
La scuola a pieno tempo era praticata allora solo da don Milani, che viveva con i suoi ragazzi, mentre in quella pubblica era ancora  un’ipotesi; ma l’interrogativo si poneva, ed era forte: a chi lasciare la cura di figli, marito e vecchi, se le proff devono lavorare anche il pomeriggio?
Elvira Tirone in questo bello, vero, profondo romanzo, si dimostra donna di scuola nel senso più pieno dell’espressione, capace com’è di far rivivere ai lettori  la vita tra i banchi durante l’anno scolastico; riferisce episodi e vicende da gustare particolarmente per la vivacità della scrittura, come quando parla degli esami di stato cosidetti “sperimentali”, ma durati anni e anni; o come quando Rivolta, da rappresentante interno, battaglia per far rispettare la scala dei valori  della classe.
Rappresenta senza fare sconti l’unicità della classe docente, una categoria sempre pronta a intavolare discussioni, anche speciose e inutili, e purtroppo disunita e confusionaria specialmente nei momenti decisivi.
Forte della sua esperienza personale e della sua profonda capacità introspettiva, Elvira descrive  gli umori dei vari docenti, tutti tipi scalpellati di fino.
 Passato alle superiori come desiderava da tempo, Rivolta nella nuova scuola non si integra e rimpiange i vecchi colleghi, soprattutto l’autoritaria e decisa sig.na Gilda Mencarelli, l’unica con cui  egli si apriva.  Contestato con violenza e lancio di uova da una scolaresca particolarmente ribelle, intrisa di idee pseudoproletarie, decide di prepensionarsi.
 Un affronto subito e  una sofferta decisione che tacerà persino alla moglie. E’ allora che Arturo affida alla lettera per la sig.na Mencarelli l’analisi della propria crisi e delle sue cause.
Una lettera che è una sorta di testamento spirituale della Tirone.
 La quale indaga nelle pieghe più nascoste di Arturo, ma anche della moglie  Clara, due monadi che non comunicano tra loro: in fondo ognuna vive per conto proprio la sua interiorità e risolve da sola - quando ci riesce - i propri problemi. Se lei rimane sconcertata dal mutismo del marito quando apprende della sua grave decisione, anche lui rimane annichilito quando scopre in casa dei foglietti a cui lei, Clara, andava affidando le proprie riflessioni.
Ognuno, sembra dire Elvira, è solo con se stesso e non esiste vero dialogo, vera condivisione con gli altri.
 Alla fine del romanzo  il prof,  spinto dalla necessità dello stipendio pieno, e  terrorizzato dalla prospettiva di giornate vuote da trascorrere in casa - i figli all’Università, la moglie al lavoro - torna sui propri passi, a scuola, perché sa di ritrovare fiducia solo nel contatto restauratore con i suoi alunni.
 Rientrato a scuola, quindi, viene bene accolto proprio da quegli alunni che lo avevano contestato: ma ormai lui  è come avvizzito, ancora più ripiegato su se stesso, e anche il clima politico è mutato:
“I bollori del ‘68 si andavano concentrando nella bocca dei mitra del terrorismo che sgomentò i giovani, quella massa di giovani che aveva creduto nella rivoluzione delle cose, la quale si era risolta solo in una festante e tragica primavera della vita.
I giovani sono arditi e generosi e quell’osservare che, mentre loro si picchiavano fino a uccidere il compagno di scuola, altri pensavano a gonfiarsi le tasche di denaro e ad acquisire potere, ridimensionava i loro entusiasmi….Anche le assemblee scolastiche, svuotate dei contenuti politici, erano scadute da ogni funzione culturale….Anzi, i più svegli e attivi del ‘68 si inserivano nel sistema affermandosi non solo per  via politica, e mi viene a mente Mario Capanna, ma spesso proprio in base alla solidità di una cultura umanistica acquisita per sé e rigettata per la massa quale strumento di potere borghese”.
 E siccome era il momento dello strutturalismo imperante, ed esteso a tutti i settori della conoscenza,  Rivolta riflette amaramente che
“Negli anni dei bollori  era  pur riuscito a portare qualche classe all’ascolto di passi di Foscolo o Leopardi, ora invece tutto era diventato struttura e analisi.
Di che parlare a questi giovani? C’erano, sì, gli emarginati e il terzo mondo, la droga e la mafia che potevano ancora agitare la generosità giovanile, ma più che un ordinato dibattito, cosa potevano fare i figli del benessere?”
 La conclusione amara, la sfiducia nel futuro, evidente nelle ultime pagine, a mio avviso non offusca il monumento eretto da Elvira  alla unicità di  una professione  -  di cui lei è stata esponente di spicco - votata a forgiare le nuove generazioni.
E in questi giorni, tra una “buona scuola” ferocemente criticata e contestata, e i cambiamenti in vista – ultimo il nuovo esame di maturità appena annunciato –  il romanzo A colloquio con Belzebù, oltre a ritrovare una sua attualità, aiuta a riflettere sulle questioni vitali che coinvolgono tutta la società, genitori, giovani e docenti.
 

Rita Frattolillo © tutti i diritti riservati 2017











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