sabato 9 gennaio 2010

Quale senso per i dialetti?

L’estate 2009 un articolo del prof. Onorato Bucci, “Dialetti con senso” uscito su Il Tempo (3 agosto), e il dibattito in corso sulla proposta leghista riguardante l’uso obbligatorio del dialetto locale nella didattica, mi hanno sollecitato a qualche considerazione.

Studio i dialetti da circa trent’anni, e ho trovato interessante, oltre che di ampio respiro, l’excursus di Bucci, mio illustre corregionale, pur se lo sforzo di sintesi ha comportato, come spesso capita, qualche approssimazione. Ve ne propongo gli stralci principali.

“Federico Fellini considerava il dialetto come la testimonianza più viva della nostra storia, e infatti ogni parlata è un condensato della storia politica, culturale, sociale del territorio, in definitiva il prodotto della storia e della memoria di una collettività. Lo avevano compreso tanto bene gli intellettuali del periodo unitario, quando, anche sull’onda della filologia demologica, si diedero a raccogliere testimonianze (che fossero fiabe, canti, poesie, proverbi,usi) nei vari vernacoli, come i molisani Emilio Pittarelli ed Enrico Melillo, Nunzia Fruscella, l’abruzzese Gennaro Finamore, il siciliano Giuseppe Pitré, per menzionarne solo alcuni. Si ricorse anche a traduzioni, come fecero Giovanni Papanti e Luigi Luciano Bonaparte. E, negli ultimi decenni dell’Ottocento, in pieno dibattito sulla questione della lingua, uno dei padri fondatori della dialettologia scientifica, il prof. campobassano Francesco D’Ovidio, affermava che il dialetto va “analizzato coma una lingua, con la stessa strumentazione e rigore”, e pertanto realizzò (1906), con il Meyer-Lubke, la Grammatica Storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Intanto, “fatta”l’Unità politica, ci si poneva il problema di quella linguistica, e se G.I.Ascoli, contrariamente al Manzoni, era convinto che i dialetti non erano da escludere dalla scuola, ma da valorizzare e studiare, perché “il bilinguismo è fattore di sviluppo dell’intelligenza”, più tardi, i programmi Gentiliani per la scuola elementare, in gran parte ispirati dal pedagogista siciliano Giuseppe Lombardo Radice, individuarono nei dialetti uno strumento valido per insegnare l’italiano ai bimbi. Bucci lamenta, in quel momento storico, il fallimento del progetto di raccogliere le consuetudini giuridiche locali, e ne ha ben donde, tuttavia diversi direttori didattici dell’epoca promossero ricerche, come Eugenio Cirese, realizzando pubblicazioni di spessore nel campo etno-folklorico. Insomma le Piccole Patrie, come le chiama Bucci, non sono state, sia pure tra alti e bassi, abbandonate e dimenticate, e, se poi ci si prende la briga di scorrere, oggi, la bibliografia regionale – di qualunque regione italiana – si scoprono molti titoli riguardanti lavori sul e in dialetto, come –restando nel Molise - i vecchi ma non datati lavori di Michele Minadeo per Ripalimosani (1955), i volumi di Michele Colabella su Bonefro(1979-1993), lo studio di Nino Bagnoli su Fossalto (1990).

“ Vorrei concludere questi pensieri con qualche riflessione sulla proposta leghista, pur se non ne conosco i dettagli. Facendo una doppia premessa, e cioè:
- se agli alunni è già assicurata una buona conoscenza della lingua nazionale (precondizione indispensabile);
- a quale dialetto ci si riferisce, se a quello annacquatissimo di oggi, oppure a quello letterario.

Ciò detto, c’è da chiedersi cosa tende ad accertare un test sul dialetto.
Perché se serve a monitorare il grado di dialettofonia del docente, cioè la sua capacità di esprimersi, sarebbe una vera sciocchezza. Infatti non credo proprio che si possano fare progressi sulla strada della conoscenza del territorio scambiando qualche battuta dialettale con gli studenti. Se così fosse, si ridurrebbe la già malconcia scuola italiana a livelli da strapaese. Inoltre, ogni parlata ha le sue peculiarità fonetiche, lessicali e morfosintattiche, e quindi la dialettofonia di quel docente (e anche quella dei suoi scolari) potrebbe essere spesa solo in un dato paese.
Nel Molise, ad esempio, Toro dista solo qualche km. da S. Giovanni in Galdo, ma i due vernacoli differiscono parecchio, sicché un nativo del primo non potrebbe “emigrare”nell’altro paese (o altrove). Aggiungo che, se a monte del progetto leghista si cela la volontà di respingere dalla scuola i docenti meridionali – dal momento che la maggioranza viene dal Sud – la meschinità e la ristrettezza di orizzonti che l’avrebbero ispirato lo commentano da sé.
Ma, come si accennava prima, il patrimonio dialettale si presta a ben altri approcci, e far gustare una poesia o un passo di un autore vernacolare richiede una competenza che non si può improvvisare: non solo sensibilità letteraria, capacità di collocare l’opera e il suo autore nel periodo, ma analizzare il testo in ambito semantico, etimologico e filologico….

Un fardello non indifferente. Oltretutto, se, come ha scritto Luca Serianni, negli ultimi vent’anni i giovani hanno affidato al dialetto la propria carica trasgressiva, non sarà facile. Ma neanche impossibile, dal momento che essi – lo so da vecchia docente - sono sempre pronti ad abbracciare le “novità”. E qui mi permetterei qualche suggerimento.
Un’operazione didattica potrebbe passare attraverso opportuni input –adeguati alla fascia d’età degli scolari - tesi a stimolarli verso un “nuovo” terreno da esplorare.
Coinvolgendo i ragazzi nella ricerca degli attrezzi e degli utensili domestici in disuso e ancora reperibili in scantinati e soffitte; intervistare chi più di loro ne conosce l’utilizzo, il nome e la pronunzia corretta; risalire al loro etimo, e così via.
Un approccio del genere consentirebbe un duplice vantaggio, quello di ‘rinforzo’, e di prendere consapevolezza del territorio.

Si potrebbero organizzare manifestazioni teatrali incentrate su recite in dialetto, senza trascurare la musica, portando ad esempio gruppi come gli Almamegretta e i Pitura Freska, che sbandierano nelle loro canzoni, a ritmo di rap e rock, il vernacolo come simbolo di diversità.

Poi, riscoprire il dialetto in campo poetico, avviando i giovani alla conoscenza diretta dei testi letterari, facendone apprezzare la forza di suggestione e la capacità espressiva. Eleggerlo a lingua speciale, come una sorta di provenzale da contrapporre, nella sua preziosa specificità, al generalismo dell’italiano d’uso o agli inglesisimi. Promuovere concorsi di poesia, parlare del dialetto come di un’Arcadia che può trovare una nuova stagione grazie a “parole che scaldano le cose”. Insomma, vedremo l’autunno cosa ci porterà….

[pubblicato integralmente sul mensile “Il bene comune”, N°11 , nov.2009]