domenica 19 ottobre 2014

Natura e simbolo nell'arte di Giovanni Segantini



di Rita Frattolillo

Uno dei più grandi artisti europei di fine Ottocento, metafora di una condizione esistenziale al confine tra eredità della tradizione pittorica e stimoli di matrice internazionale, è in mostra al Palazzo Reale di Milano (18-09-2014/18-01-2015).
 Si tratta di Giovanni Battista Segantini ( 1858-1899), al cui genio artistico, che è stato riconosciuto e apprezzato dagli ambienti istituzionali, dai circoli intellettuali e dai ceti borghesi italiani e internazionali del suo tempo, è toccata una sorte a dir poco singolare, essere cioè “semplicemente” dimenticato, cancellato dalla memoria nazionale. Chiederci perché questa “dimenticanza” sia potuta accadere esula dall’intento di questo scritto, ma il pensiero che balza immediatamente alla mente è che sicuramente l’oblio è durato troppo a lungo, se è vero  che oggi, per colmare un debito imperdonabile nei confronti di questo talento incredibile, è stata allestita una mostra straordinaria  ̶  è la prima volta a Milano  ̶  che si deve anche all’interessamento della nipote dell’artista, Diana Segantini.

 L’imponente mostra, che è corredata dal catalogo (Skira Masters, 2014) curato dalla massima esperta dell’opera segantiniana, Annie Quinsac, raccoglie oltre 120 opere provenienti da musei e collezioni europee e statunitensi.

La grande retrospettiva ripercorre le fasi dell’evoluzione umana ed artistica di Segantini, facendo scoprire, assieme al cammino pittorico, una eccezionale figura di homo faber, di un uomo che si è costruito da sé, affrontando e superando difficoltà di ogni genere, grazie ad una straordinaria forza di volontà, una capacità di assimilazione e un grado di focalizzazione sui propri obiettivi davvero rari, sorretti da una reale passione per l’arte e da un’assoluta padronanza del mezzo, maturata e affinata nel tempo. Infatti la prima metà della sua breve (e intensissima) vita è stata contrassegnata, fin dall’infanzia, da privazioni affettive ed economiche che lo hanno portato sempre più in basso, fino al riformatorio “Marchiondi” di Milano, città in cui, dopo la morte prematura della madre, era giunto dalla nativa Arco, piccolo paese del Trentino, all’epoca territorio ancora sotto il dominio austriaco. In realtà  il padre Agostino, non avendo i mezzi per occuparsi del piccolo Giovanni, lo aveva affidato alla figliastra Irene, che lo trascurò al punto che il ragazzo si segnalò per una condotta riprovevole. Uscito dal riformatorio dopo tre anni, nel 1873, eccolo impegnato come garzone di laboratorio fotografico presso un altro fratellastro, Napoleone, a Borgo Valsugana, e qui il giovane chiuso e solitario comincia ad avvicinarsi all’arte, tanto da sviluppare una propria idea che realizza tornando a Milano, dove frequenta per tre anni i corsi serali dell’Accademia di belle Arti di Brera. Sostenendosi con le sue forze come artigiano decoratore, e  ̶  prima rivincita sul destino avverso  ̶  come insegnante nello stesso riformatorio dove anni prima era stato rinchiuso, riesce a frequentare (1878-’79) i corsi regolari dell’Accademia, affinando il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. Forse è in questo periodo che modifica leggermente il proprio cognome, inserendo una n  alla parola Segatini, che diventa così Segantini, nome con cui l’artista è universalmente conosciuto.

 Il periodo milanese è molto fecondo: ai suoi esordi, per il giovane la città è una vera patria dello spirito e fulcro della sua parabola artistica. A Milano stringe amicizia negli ambienti artistici, si lega ad Emilio Longoni, comincia a ottenere le prime committenze dai ceti borghesi;  i suoi lavori  evidenziano il chiaro influsso del verismo lombardo, ma se ne allontana in fretta, se ancora in qualità di allievo dell’Accademia, appena ventunenne, il suo quadro Il coro di Sant’Antonio Abate (1879) indica la voglia di reinterpretare la tradizione pittorica degli interni di chiesa,  imponendosi sulla scena milanese. Non più la prospettiva della navata centrale con l’abside in fondo, ma una inquadratura “fotografica” di forte contrasto chiaroscurale, con un taglio d’angolo, e la luce che, entrando dalla vetrata del finestrone, illumina i sedili lignei del coro, il chierichetto in piedi di spalle davanti al leggìo, il quadro a parete, e il pavimento a tessere invaso dalle ombre lunghe.

Il ritratto della signora Torelli (moglie del direttore del Corriere della sera,1885) chiude il periodo degli esordi di Segantini: pur mantenendo l’approccio colorista, la messa a fuoco fotografica, l’eleganza del disegno, la finezza materica, egli ha sganciato il  ritratto dagli abbellimenti mondani o socialmente validanti il committente. Infatti la signora non guarda lo spettatore, e, in abito scuro che contrasta con il parasole talmente abbagliante  da confondersi con il cielo se non fosse per il bordo  scuro, è totalmente immersa in voluta simbiosi con l’ambiente del naviglio presso ponte San Marco.

 Il quadro, ora per la prima volta in Italia, mostra come il pittore abbia fatto tesoro della lezione scapigliata riguardante il ritratto: la signora occupa la metà sinistra della tela, la sua figura viene tagliata dal bordo inferiore, e il  volto in ombra, lo sguardo obliquo, chiariscono il distacco con cui l’artista si rapporta al personaggio. Ciò che gli preme è l’effetto pittorico, la restituzione di una certa atmosfera, perché, come egli stesso ha scritto,  “Voglio che il quadro sia il pensiero fuso nel colore, i fiori sono fatti così, e questa è l’arte visiva”.
Già, i fiori….In realtà, quello delle nature morte, vero banco di prova per i giovani artisti, è un lato meno noto dell’attività di Segantini, che era un indebitato cronico, e si dedicò a questo genere finché non ne trasse un introito significativo.

Le nature morte prodotte in questo periodo soprattutto per sbarcare il lunario convenivano al pittore perché se la cavava con poche ore di lavoro, essendo di formato piccolo, e convenivano al committente anche meno agiato, che per una cifra molto accessibile poteva vantare una sala da pranzo decorata con fagiani, anatre o frutta dipinti da maestri del genere, primo tra tutti Filippo Carcano. Segantini dovette avere un ripensamento dopo che l’editore Treves ricusò quattro  nature morte (1886) destinate alla sua sala da pranzo.

In ogni caso il periodo brianzolo è fondamentale non solo perché lavora, soprattutto grazie al sostegno del mercante d’arte svizzero Vittore Grubicy,  talent scout ante litteram e suo mentore, ma anche perché conosce Luigia Bugatti, detta Bice, la compagna di tutta la vita, che gli darà dei figli, creandogli l’ambiente familiare di cui era stato privato nella sua infanzia e che lo farà sentire amato e  venerato.

 A Pusiano, nei quattro anni brianzoli, Segantini recupera l’universo perduto dell’infanzia e l’amore per la vita dei campi, intanto lavora con accanimento per ricercare una forma espressiva personale, proseguendo nel distacco dalle impostazioni accademiche giovanili. Nell’86 si trasferisce nei Grigioni, a Savognino, dove Vittore Grubicy lo avvia al divisionismo. L’attenzione vòlta al rapporto uomo-animale-natura appare sempre più evidente. Egli mira alla massima congruenza tra realtà e proiezione emotiva, commisurando la perfezione dell’immagine alla sua capacità espressiva Un esempio  di questa esigenza ossessiva è rappresentato dall’opera Dopo il temporale (1883-’85), che, pur essendo già stata presentata al pubblico, fu ritirata e ritoccata dal pittore, persuaso che “Sotto il pennello la gamma deve scorrere maliante e far nascere gli oggetti le persone le linie[…] La passione febbricitante dell’Arte deve involgere tutto d’un interno tremito. La nervosa commozione che prova l’artista la deve comunicare. Davanti all’osservatore tutto si deve fondere in un solo pezzo, in una commozione profonda di vita vera vita palpitante”.

 Quadri come La raccolta delle patate (1885-’86), Alla stanga (1886-88)  sono seguiti da una serie di disegni a carboncino e gessetto bianco su carta che rispecchiano la funzione catalizzatrice dell’immagine successivamente rielaborata, al punto che il superamento di ogni letteralismo descrittivo spesso ne modifica il senso, caricandolo di valenze simboliste. La sua riconosciuta sensibilità nell’interpretazione del paesaggio, nella descrizione della maestosità innevata delle Alpi svizzere che dominano vallate sconfinate in cui si intravede un villaggio sperduto, gli fa meritare il soprannome di “Pittore della montagna”. Sensibilità quanto mai manifesta nella “traduzione” allucinata che egli stesso fa dell’olio Soffia il vento: “Soffia il vento di levante che geme come lontana bestia che muore, la neve si stende pesante e malinconica come lenzuolo che copre la morte, i corvi stanno vicino alle case, tutto è fango, la neve sgela”.



 Ma se la presenza umana e quella animale risultano componenti necessarie del paesaggio, vera protagonista delle tele, spesso di formato gigante,  è la natura, eterna e inesorabile nella sua indifferenza al passaggio dell’uomo come a quello delle stagioni.
 In Engadina si sono conservati i segni più importanti della presenza e dell’arte di Segantini, che qui conduce una vita solitaria seguendo il desiderio di una più profonda meditazione personale e di riscoperta del proprio misticismo. Intimamente convinto che “Dio era in noi e che ciascuno di noi ne possedeva e ne poteva acquistare facendo delle opere belle, buone e generose, che ciascuno di noi è parte di Dio”, si avvicina al panteismo, e a poco a poco il simbolo prende il sopravvento sulla rappresentazione della vita dei campi o degli incontaminati paesaggi alpini.

 Gli anni di Savognino  sono quelli della doppia crescita dell’artista. Da una lato la sua poetica si irrobustisce, definita sempre meglio dalla nuova tecnica che restituisce appieno la luce e le atmosfere terse delle Alpi. Dall’altro, all’isolamento del pittore fa da contraltare una decisa affermazione internazionale.

Nel 1888 figura alla “Italian Exhibition” londinese, nello stesso periodo è premiato con medaglia d’oro a Parigi per il dipinto Vacche aggiogate, esposto nella sezione italiana dell’Esposizione universale di Parigi. Anche il Governo italiano acquista i suoi quadri, tra cui Alla stanga, esposto a Bologna (1888). Invitato ad esporre dal gruppo Les XX di Bruxelles (1890), è premiato con due medaglie d’oro a Torino e a Monaco di Baviera, dove diviene membro straniero della neonata Secessione (1892). Parallelamente comincia a scrivere articoli per una serie di riviste d’arte. L’attività teorica è una costante del pittore, che non perde occasione per guadagnare visibilità. Conscio dei limiti della propria formazione – ottenuta nell’istituto “Marchiondi” dove era entrato analfabeta – Segantini si fa aiutare da Bice e da Vittore nella redazione dei suoi scritti.

Si immerge nella lettura di Nietzsche, Schopenhauer, Ruskin, dei quali si trovano echi nei suoi articoli. La sua fama intanto si accresce in Europa, e verso la fine del secolo è scelto ad Amsterdam con altri 26 artisti tra i più noti del momento per partecipare ad una grande impresa editoriale, illustrare la Bibbia. Sempre aperto a nuove suggestioni, si cimenta con fonti letterarie e si avvicina ai movimenti artistici all’epoca definiti “moderni.”



 Il tema centrale all’interno della sua produzione simbolista è quello della figura femminile, dove il fil rouge è rappresentato dalla maternità, della madre con il figlio, soggetti ricorrenti nella sua poetica e particolarmente cari all’orfano Segantini, sia nei dipinti a carattere naturalista che in quelli simbolisti. Fortemente anticlericale, rompe completamente con l’immagine plurisecolare tramandata della Madonna aureolata con Bambino. Le sue madri sono mucche nella stalla con il loro vitellino, oppure la contadina con il figlioletto in braccio mentre procede sul sentiero. Su questo tema, c’è almeno da segnalare, per la bellezza assoluta, tre oli: Il primo è Ave Maria a trsbordo. Il chiarore sospeso dell’alba lambisce i tetti di un villaggio che fa da orizzonte dell’opera separando il cielo dall’acqua, che  ne riflette la luce abbagliante. Nel silenzio sovrumano trasmesso dallo scenario si inquadra una barca a remi che increspa appena la superficie del lago di Pusiano. Trasporta un gregge di pecore, il cui vello è impregnato di luce, il pastore e la sua compagna che abbraccia il figlio addormentato. Come nelle opere successive dedicate al tema della maternità, l’artista infonde nel dipinto una spiritualità immanente  estesa a tutti gli elementi del paesaggio, che acquista una serena solennità e conferisce un senso di preghiera panteista dando superba voce alla religiosità degli umili. Quest’opera, che nella prima versione meritò la medaglia d’oro all’Expo universale di Amsterdam del 1883, è nella seconda versione (1886) un dipinto cruciale per la storia della pittura italiana, essendo considerata la prima opera divisionista, cioè eseguita con la tecnica della separazione delle tinte.



Il secondo quadro è Le due madri (1889): in una stalla rischiarata solo da una lanterna, una madre dai tratti botticelliani sonnecchia, seduta  tenendo in grembo il figlioletto addormentato. Il richiamo alla Madonna è immediato, ma il pittore vi affianca una seconda coppia, costituita da una mucca che sta mangiando con ai piedi il proprio vitello. La lanterna appesa tra le quattro figure rischiara la scena con un effetto chiaroscurale caravaggesco che conferisce  all’ambiente un’ atmosfera carica di intimità e di misticismo. Le due madri è anche la prima opera in cui viene chiarito dall’artista l’assoluto parallelismo tra uomini e animali, che condividono destini e ciclo vitale.




Il terzo dipinto, L’Angelo della Vita (1894), uno dei pochi quadri custoditi in Italia (Milano, Galleria d’arte moderna), è una visione unica nel panorama artistico europeo, e possiede una carica creativa tale da attrarre come una calamita, tanto che non sono riuscita a distogliere lo sguardo se non dopo molti minuti. L’immagine, tutta mentale, in quanto non ha radici letterarie, né risale a figure viste realmente dal pittore, è resa con tale realismo da creare una sorta di sfasamento non solo visivo. La scena, su tela di grande formato, è racchiusa in una cornice dorata dipinta di gusto preraffaellita (William Morris e le sue Arts and Crafts),  e si impone immediatamente ad una ammirazione incondizionata per l’originale rappresentazione della Madonna dai tratti botticelliani, bionda e diafana, che avvolge teneramente il Bambino. Entrambi sono ricoperti da un copioso  panneggio della stessa tonalità del cielo, e la Madonna è assisa con  eterea leggerezza  su una betulla (albero privilegiato dai Preraffaelliti) contorta, dai rami estremamente sviluppati, che fa da trono naturale alla madre. Il gruppo e il paesaggio, l’insieme di tutta la composizione,  sembrano attinti dalla pittura fiorentina del Rinascimento, a cui si sono mescolati vari elementi del Simbolismo europeo.  L’opera, di una bellezza sconvolgente da togliere il fiato, è un tributo del laico Segantini alla Madre generatrice realizzato cinque anni prima della sua morte improvvisa,  mentre sta lavorando anche alle due opere del ciclo  Le Cattive Madri, ispirato al poema decadente Nirvana, scritto dal librettista di Puccini e Giordano, Luigi Illica.

 Entrambi i dipinti,  Il castigo delle lussuriose (1891) e Le Cattive Madri (1894) trattano il tema della punizione delle donne che hanno rifiutato la maternità o che hanno maltrattato i figli. Sono dominati da una forte componente intellettuale e offrono una visione allucinata e allucinante della condizione atroce che aspetta queste cattive madri. In uno scenario di alta montagna, sopra un prato coperto di neve, le lussuriose sono sospese in un’aria strana che le sospinge, tenendole in posizione orizzontale. Hanno gli occhi chiusi, i capelli rossi contorti e sono avvolte in un bianco lenzuolo che lascia scoperto il seno. Il secondo dipinto, in un analogo contesto naturale di forte impatto, mostra una betulla contorta da cui fuoriesce una donna flessuosa dalla lunga chioma rossa, coperta da un leggero velo, che cerca invano di divincolarsi dai rami dell’albero, mentre al suo seno si avvinghia un bimbo per succhiarne il latte. La pronunciata sensualità delle protagoniste, il fisico longilineo, la massa dei capelli rossi, rimandano alle femmes fatales che popoleranno questa fin de siècle e l’inizio del successivo, dalle opere preraffaellite  a quelle della Secessione viennese, per la quale Segantini avrebbe rappresentato un modello.
Questo ciclo rappresenta il massimo esito del simbolismo segantiniano, che non trova equivalenti in quello europeo per la compenetrazione panteista tra visione onirica e natura.

A Pontresina, il 28 settembre 1899, mentre dipinge, è colto da un letale attacco di peritonite.
 Viene sepolto nel piccolo cimitero di Maloggia, paese dove abitava dal 1894. Stava lavorando al Trittico della Natura per l’Expo di Parigi del 1900. Grande fu il cordoglio di tutti gli ambienti intellettuali europei per la sua morte, e D’Annunzio  dedicò all’artista una lunga lirica dove lo celebra così:

“…Partita è sui vènti  ebra
di libertà l’anima
dolce e rude di colui che cercava
una patria nelle altezze più nude
sempre più solitaria”.

La città di St. Moritz, a dieci anni dalla morte, inaugurerà il Segantini Museum, a tutt’oggi la più grande raccolta  di dipinti e studi eseguiti dal pittore apolide che non aveva mai voluto cambiare nazionalità, sentendosi fino alla fine soltanto italiano.
©2014 Rita Frattolillo – Tutti i diritti riservati


 SEGANTINI MUSEUM  con tutti i quadri di Segantini (cliccare su Museum)

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