venerdì 2 luglio 2010

Quella copertina con Saviano morto...

Non voglio nominare il giornale per non fargli pubblicità, ma quell'orrenda copertina dello scorso giugno con Saviano morto ammazzato mi ha suscitato prima choc e poi indignazione.
L'hanno già ucciso tante volte con parole oltraggiose dettate dall'invidia per il suo successo internazionale e dall'odio dei servi del potere che non gli perdoneranno mai il suo spirito libero. Ma non bastava, avevavo bisogno di vedere concretamente l'immagine di lui finito, steso sul tavolo dell'obitorio, con il cartellino identificativo bene in vista.
Roberto Saviano è terribilmente scomodo per quel che dice e scrive, e soprattutto perché è un simbolo. In quanto colpevole di credere alla forza della parola e alla libertà di poterla esprimere, è necessario rimuoverlo, e qualunque modo è buono. In quest'Italia narcotizzata, con i valori rovesciati, sentirsi uomo libero, capace di combattere denunciando apertamente le mafie e la criminalità, a costo di rinunciare ad una vita normale, è una colpa che non si perdona. E invece ci vorrebbero cento, mille Saviano, in questo Paese diventato vile e corrotto. Oltretutto, mi chiedo se quelli che lo attaccano con tanta veemenza e livore sarebbero capaci, per le loro idee, di sacrificarsi come è costretto a fare lui. Sotto scorta già prima dei suoi 30 anni, ha dovuto rinunciare alla sua vita di giovane, e perdere, in definitiva, il contatto diretto con la realtà. Ridotto a qualche spiraglio di quotidianità e ad accontentarsi di una parvenza di vita, e sempre con l'incubo di essere, lui e i suoi cari, un bersaglio.

mercoledì 23 giugno 2010

Donne: possibile che si debba gridare al miracolo per ogni vittoria!

Per l’8 marzo, sia pure in notevole ritardo, vorrei dire che di anno in anno mi suonano sempre più false le frasi di circostanza sciorinate per le celebrazioni rituali riguardanti noi donne. Perché? Basta una sola segnalazione per capire il mio stato d’animo, ed è questa: per la prima volta nella storia del cinema, un regista donna ha vinto l’ambìto Oscar. Si tratta di Kathryn Bigelow, autrice del film The Hurt Locker. Fin qua, tutto bene, e ci complimentiamo vivamente con la signora Kathryn; ma dovevate leggere i commenti planetari usciti per l’occasione sui media!! Tutti accomunati dallo stesso tono meravigliato di chi non si aspetta neanche lontanamente una vittoria del genere, come davanti alla prima (e forse unica) volta di un evento assolutamente impensabile, della serie “toh! guarda, pure le donne adesso sanno fare film!!”. Penso che finché l’atteggiamento generale verso l’operato e la creatività femminile sarà mosso da tale incredulità di fondo, ci sarà ben poco da celebrare e molto ancora da fare per cambiare certa mentalità, che, a quanto pare, è assai dura a morire…

mercoledì 3 marzo 2010

Mont Saint-Michel

Un filo rosso lega San Michele sul Gargano al Mont Saint-Michel, non solo perché entrambi sono dedicati all’arcangelo sterminatore dei demoni, il cui culto si estendeva già nell’antichità dall’Oriente alla Gallia, ma perché nel lontano 708 il vescovo Aubert, dopo i ripetuti sogni in cui Michele gli ordinava di consacrare l’isolotto roccioso al suo culto, inviò dei messaggeri sul monte Gargano, e questi ritornarono con le reliquie del mantello vermiglio indossato lì dall’arcangelo durante una delle sue apparizioni, e un frammento dell’altare su cui aveva poggiato il piede. Nasce così l’edificazione del santuario e dell’abbazia sul Monte, che all’origine si chiamava monte Tomba (a simboleggiare contemporaneamente il sepolcro e l’elevazione) e intorno ad essa sono fiorite numerose leggende sui miracoli che hanno costellato la lunga e laboriosa costruzione. Alla storia della vita dei monaci benedettini su quel Monte si intreccia indissolubilmente la Storia della Francia, e anche quella dell’Inghilterra, dopo che il normanno Guglielmo il Conquistatore s’impadronì dell’isola, e dopo la disfatta di Azincourt (1415), quando a sua volta la Normandia cadde nelle mani degli inglesi. Il picco granitico è appartenuto al ducato di Normandia fino al 1214, quando la vittoria di Bouvines trasformò la Normandia in una provincia del regno di Francia. Meta di pellegrinaggi, ma anche teatro di guerre sanguinose, come la guerra dei Cento anni, Mont Saint-Michel deve ad un suo valoroso soldato, il connestabile Bertrand Duguesclin, se la Francia sembrò rialzarsi dopo le dure sconfitte di Poitiers e Crécy, e il re Carlo V, per riconoscenza, volle che il suo capitano venisse sepolto nella necropoli dei re, l’abbazia Saint-Denis, alle porte di Parigi.

Quello che vedo e provo mentre mi avvicino al Mont Saint-Michel è qualcosa che supera l’immaginazione più accesa.

martedì 16 febbraio 2010

Saint-Denis, luogo-simbolo della mistica reale francese

La bambina di colore che pattina energica sul sagrato dell’antica cattedrale gotica, probabilmente ignora che lì, a pochi passi dal suo volteggiare, riposano i re che per secoli hanno determinato i destini della Francia e impresso il corso della sua Storia. Sgomento e incredulità sono le mie sensazioni appena metto piede all’interno, sia per la vastità, sia per l’altezza esasperata delle colonne che trasmette un senso di verticalità da far girare la testa. Non mi ero mai trovata in un cimitero regio di tale ricchezza scultorea e tali dimensioni : vi sono rappresentati 10 secoli di re, regine e principini, da Dagobert, VII sec., fino ai ghigliottinati Luigi XVI e consorte.

sabato 9 gennaio 2010

Quale senso per i dialetti?

L’estate 2009 un articolo del prof. Onorato Bucci, “Dialetti con senso” uscito su Il Tempo (3 agosto), e il dibattito in corso sulla proposta leghista riguardante l’uso obbligatorio del dialetto locale nella didattica, mi hanno sollecitato a qualche considerazione.

Studio i dialetti da circa trent’anni, e ho trovato interessante, oltre che di ampio respiro, l’excursus di Bucci, mio illustre corregionale, pur se lo sforzo di sintesi ha comportato, come spesso capita, qualche approssimazione. Ve ne propongo gli stralci principali.

“Federico Fellini considerava il dialetto come la testimonianza più viva della nostra storia, e infatti ogni parlata è un condensato della storia politica, culturale, sociale del territorio, in definitiva il prodotto della storia e della memoria di una collettività. Lo avevano compreso tanto bene gli intellettuali del periodo unitario, quando, anche sull’onda della filologia demologica, si diedero a raccogliere testimonianze (che fossero fiabe, canti, poesie, proverbi,usi) nei vari vernacoli, come i molisani Emilio Pittarelli ed Enrico Melillo, Nunzia Fruscella, l’abruzzese Gennaro Finamore, il siciliano Giuseppe Pitré, per menzionarne solo alcuni. Si ricorse anche a traduzioni, come fecero Giovanni Papanti e Luigi Luciano Bonaparte. E, negli ultimi decenni dell’Ottocento, in pieno dibattito sulla questione della lingua, uno dei padri fondatori della dialettologia scientifica, il prof. campobassano Francesco D’Ovidio, affermava che il dialetto va “analizzato coma una lingua, con la stessa strumentazione e rigore”, e pertanto realizzò (1906), con il Meyer-Lubke, la Grammatica Storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Intanto, “fatta”l’Unità politica, ci si poneva il problema di quella linguistica, e se G.I.Ascoli, contrariamente al Manzoni, era convinto che i dialetti non erano da escludere dalla scuola, ma da valorizzare e studiare, perché “il bilinguismo è fattore di sviluppo dell’intelligenza”, più tardi, i programmi Gentiliani per la scuola elementare, in gran parte ispirati dal pedagogista siciliano Giuseppe Lombardo Radice, individuarono nei dialetti uno strumento valido per insegnare l’italiano ai bimbi. Bucci lamenta, in quel momento storico, il fallimento del progetto di raccogliere le consuetudini giuridiche locali, e ne ha ben donde, tuttavia diversi direttori didattici dell’epoca promossero ricerche, come Eugenio Cirese, realizzando pubblicazioni di spessore nel campo etno-folklorico. Insomma le Piccole Patrie, come le chiama Bucci, non sono state, sia pure tra alti e bassi, abbandonate e dimenticate, e, se poi ci si prende la briga di scorrere, oggi, la bibliografia regionale – di qualunque regione italiana – si scoprono molti titoli riguardanti lavori sul e in dialetto, come –restando nel Molise - i vecchi ma non datati lavori di Michele Minadeo per Ripalimosani (1955), i volumi di Michele Colabella su Bonefro(1979-1993), lo studio di Nino Bagnoli su Fossalto (1990).

“ Vorrei concludere questi pensieri con qualche riflessione sulla proposta leghista, pur se non ne conosco i dettagli. Facendo una doppia premessa, e cioè:
- se agli alunni è già assicurata una buona conoscenza della lingua nazionale (precondizione indispensabile);
- a quale dialetto ci si riferisce, se a quello annacquatissimo di oggi, oppure a quello letterario.

Ciò detto, c’è da chiedersi cosa tende ad accertare un test sul dialetto.
Perché se serve a monitorare il grado di dialettofonia del docente, cioè la sua capacità di esprimersi, sarebbe una vera sciocchezza. Infatti non credo proprio che si possano fare progressi sulla strada della conoscenza del territorio scambiando qualche battuta dialettale con gli studenti. Se così fosse, si ridurrebbe la già malconcia scuola italiana a livelli da strapaese. Inoltre, ogni parlata ha le sue peculiarità fonetiche, lessicali e morfosintattiche, e quindi la dialettofonia di quel docente (e anche quella dei suoi scolari) potrebbe essere spesa solo in un dato paese.
Nel Molise, ad esempio, Toro dista solo qualche km. da S. Giovanni in Galdo, ma i due vernacoli differiscono parecchio, sicché un nativo del primo non potrebbe “emigrare”nell’altro paese (o altrove). Aggiungo che, se a monte del progetto leghista si cela la volontà di respingere dalla scuola i docenti meridionali – dal momento che la maggioranza viene dal Sud – la meschinità e la ristrettezza di orizzonti che l’avrebbero ispirato lo commentano da sé.
Ma, come si accennava prima, il patrimonio dialettale si presta a ben altri approcci, e far gustare una poesia o un passo di un autore vernacolare richiede una competenza che non si può improvvisare: non solo sensibilità letteraria, capacità di collocare l’opera e il suo autore nel periodo, ma analizzare il testo in ambito semantico, etimologico e filologico….

Un fardello non indifferente. Oltretutto, se, come ha scritto Luca Serianni, negli ultimi vent’anni i giovani hanno affidato al dialetto la propria carica trasgressiva, non sarà facile. Ma neanche impossibile, dal momento che essi – lo so da vecchia docente - sono sempre pronti ad abbracciare le “novità”. E qui mi permetterei qualche suggerimento.
Un’operazione didattica potrebbe passare attraverso opportuni input –adeguati alla fascia d’età degli scolari - tesi a stimolarli verso un “nuovo” terreno da esplorare.
Coinvolgendo i ragazzi nella ricerca degli attrezzi e degli utensili domestici in disuso e ancora reperibili in scantinati e soffitte; intervistare chi più di loro ne conosce l’utilizzo, il nome e la pronunzia corretta; risalire al loro etimo, e così via.
Un approccio del genere consentirebbe un duplice vantaggio, quello di ‘rinforzo’, e di prendere consapevolezza del territorio.

Si potrebbero organizzare manifestazioni teatrali incentrate su recite in dialetto, senza trascurare la musica, portando ad esempio gruppi come gli Almamegretta e i Pitura Freska, che sbandierano nelle loro canzoni, a ritmo di rap e rock, il vernacolo come simbolo di diversità.

Poi, riscoprire il dialetto in campo poetico, avviando i giovani alla conoscenza diretta dei testi letterari, facendone apprezzare la forza di suggestione e la capacità espressiva. Eleggerlo a lingua speciale, come una sorta di provenzale da contrapporre, nella sua preziosa specificità, al generalismo dell’italiano d’uso o agli inglesisimi. Promuovere concorsi di poesia, parlare del dialetto come di un’Arcadia che può trovare una nuova stagione grazie a “parole che scaldano le cose”. Insomma, vedremo l’autunno cosa ci porterà….

[pubblicato integralmente sul mensile “Il bene comune”, N°11 , nov.2009]