Rita Frattolillo
Delle numerose ondate migratorie che, spinte dalla
disperazione, dalla seconda metà dell’Ottocento hanno varcato l’oceano
spopolando il Molise e lasciando le donne ad affrontare da sole la difficile
condizione di vedove bianche, è rimasta testimonianza nelle lettere, scritte su
paginette di quaderno ingiallite dal tempo con mano malferma e in dialetto,
inviate dai nostri manovali e “artieri” ai familiari. Sono quelle povere frasi
sgrammaticate a gettare luce sugli aspetti crudi e duri della loro quotidianità
di emigrati.
Poi sono arrivati i Pietro Corsi (classe 1937) e i Giose
Rimanelli (classe 1926), emigranti di successo e prolifici autori, a creare,
direttamente in italiano o in inglese, l’epopea migratoria, scavando nelle
stigmate della propria identità lacerata.
Quindi c’è stato il passaggio ad autori di lingua inglese
come Nino Ricci (1958), che, pur appartenendo alla generazione nata
oltreoceano, hanno attinto, nelle loro creazioni letterarie, ai risvolti spesso
allucinanti dell’emigrazione, sull’eco tumultuosa di una tensione in bilico tra
il peso delle radici e l’esigenza di conoscere il proprio io.