mercoledì 30 dicembre 2009

Sulle orme di Chateaubriand


L’estate scorsa (2009) sono andata sulle tracce di Chateaubriand, nell’antica Bretagna, terra di castelli ed abbazie; dapprima alla volta di Saint- Malo, la città interamente cinta da bastioni, dove il padre del romanticismo francese è nato nel 1768. Da questa città, covo di pirati e sede della loro flotta, che ha elevato una statua al corsaro Duguay-Tronin, partì il navigatore Jacques Cartier nel lontano 1534. Cercando un passaggio per la Cina attorno a Terranova, scoprì nientemeno che il Canada. Leggo questa notizia sulla lastra musiva ben visibile nella Cattedrale gotica di San Vincenzo. Mi aggiro per le strade lastricate del centro storico, tra ali di bistrot e ristorantini invitanti, vetrine che confermano la sua fama di regina della pesca, nel trionfo di ostriche, astici e gamberoni e negozietti debordanti di statue, sciabole e tutto l’armamentario piratesco. L’ardesia scura dei tetti è rischiarata qua e là da bagliori imprevisti: guardo meglio, sono i licheni gialli che li accendono di un bronzo corrusco. Seguo il cammino di ronda, lungo le mura che sono dello stesso granito di Mont –Saint- Michel. Mi rapisce la visione della distesa marina grigio-cenere e mi esalto al pensiero che “lui” ha respirato quell’aria di mare, vissuto in quel vento, sentito il grido dei gabbiani. Da qui, da questi bastioni, il piccolo François-René, visconte di Chateaubriand, assorto dietro all’eterno andirivieni delle onde (le”vagues”) - che lui chiamava “refrain”- , avrà sognato chissà quali mondi e sentito lo slancio verso l’infinito. E forse quella immagine gli avrà ispirato l’espressione-chiave del romanticismo:”vague des passions”. I grossi gabbiani che, stridendo, volteggiano tra i contrafforti e il mare o si posano sulle teste delle statue, sono parte inscindibile del paesaggio. Ma quel che calamita il mio sguardo è il Grand Bé, l’isolotto dove, dal 1848, riposa René, incarnando fin oltre la morte l’ideale di eroe romantico: altera, sdegnosa solitudine; i suoi resti in muto dialogo tra cielo e mare, silenzio assoluto interrotto solo dal quieto frangersi delle onde sulla rupe e dal grido acuto dei gabbiani che svolacchiano bassi.                           (foto:Le Grand-Bé)

Il genio nel castello  
E’ nei boschi di Combourg che sono diventato quel che sono (Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe)
La strada per Combourg, culla del romanticismo francese e tappa essenziale del mio viaggio, è costeggiata ancora oggi da fitti boschi dove spicca ogni tanto qualche tronco bianco di betulla; lussureggiante il sottobosco di felci. La cittadina, dominata dall’imponente castello feudale dove René ha vissuto per qualche tempo nell’infanzia e poi da adolescente, immortalandolo, è inseparabile dal ricordo del grande scrittore. Caffè, piazzette, hotel, vie, tutto è intitolato a Chateaubriand, che tra i boschi del parco e il lago condusse nella proprietà del castello un’esistenza “étrange”: terrori, fantasticherie solitarie, corse sulla landa in compagnia della sorella Lucile, indole tenera e fragile che poi andrà incontro ad un doloroso destino; esaltazione, tristezza indefinita, turbamenti di una sensibilità ardente. E’ qui, dove mi trovo io adesso, che si è svegliata la vocazione poetica di Chateaubriand; la sua anima d’artista resterà marcata per sempre da quegli anni di delirio che lui ha descritto da Maestro. Superato il cancello, il mio sguardo si perde nella vastità del parco boschivo: ben 25 ettari esaltati già dalla marchesa di Sévigné. Su un lato, incombe la mole massiccia del castello. Percorro la breve scalea esterna che, sostituendo il ponte levatoio, scavalca il fossato ora asciutto, e mi accingo ad accedere in un luogo che considero quasi sacro, sulla lunga onda emotiva impressa in me dalle ripetute letture dei capolavori che Chateaubriand ci ha lasciato; per me esso è un luogo addirittura sacro, per l’influenza innegabile che ha avuto sulla formazione del suo genio. Il castello, turrito, conserva l’aspetto di fortezza, e la sua vista mi fa venire alla mente la sensazione di “calma cupa” che trasmetteva al giovanissimo René. Subito dopo il vestibolo, ecco la cappella, dove la malinconica madre dello scrittore passava gran parte della sua giornata pregando e meditando. Il padre, invece, era una persona fredda e severa, la cui presenza bastava per trasformare in statue madre e figli, uno che, anziché stringersi intorno familiari e servitù, li aveva dispersi ai quattro angoli dell’enorme edificio. L’atmosfera tetra del castello - narra nelle Mémoires - era accentuata dall’umore taciturno e solitario del padre, che parlava solo se trascinato dall’ira, misurava a grandi passi sale e corridoi per ore interminabili, oppure andava fuori, a caccia; unico rumore, la sera, quei passi sempre uguali, i sospiri della madre e il mormorio del vento. Attraverso sale e salotti, tutti bene arredati, dopo che, saccheggiato e devastato come tanti altri edifici appartenenti alla nobiltà durante la rivoluzione, è stato restaurato e reso abitabile verso la fine dell’Ottocento. E’ il “salotto degli archivi” ad ammutolirmi, tanto è forte l’emozione che provo: vi sono raccolti i ricordi dello scrittore provenienti dall’appartamento parigino in cui è morto. Il suo letto di morte, il suo scrittoio, il suo calamaio, le decorazioni ricevute (la Croce di San Luigi, la Legion d’onore). Disegni, incisioni e ritratti, come quello della cognata Aline ghigliottinata ad appena ventitré anni, oppure quello della leggiadra Juliette Récamier, la fedele amica di tutta la vita; il diploma conferitogli dall’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1828, quando vi era ambasciatore. Vorrei trattenermi ancora, indugiare ancora su quelle testimonianze di una vita spesa per la letteratura, nella politica e nella diplomazia… In fondo a tutto il lungo percorso programmato per noi turisti, ci aspetta – finalmente - la cameretta dove era confinato il piccolo René. Anche se ricordavo bene i passaggi in cui la descrive, vederla materialmente mi sgomenta, non la immaginavo così squallida, piccola e disadorna; persino le finestre sono minuscole come feritoie, sembra più una cella da eremita che la stanza di un ragazzino… E’ situata nella torre del gatto, così chiamata perché durante i lavori vi fu rinvenuta la mummia di un gatto, probabilmente murato vivo all’epoca della costruzione del castello. Infatti un’antica usanza richiedeva che per scongiurare la malasorte occorreva murare un gatto, considerato in passato animale diabolico.
“La sera mi ritiravo sull’alto della torretta, vedevo solo una piccola parte del cielo e qualche stella. Le civette che volavano da una torre all’altra disegnavano tra la luna e le tende della mia cameretta l’ombra mobile delle loro ali. A volte, il vento sembrava correre a passi leggeri, altre volte la mia porta era mossa violentemente e il chiasso moriva, poi tornava ancora..”
Arte e memoria abitano qui, indubbiamente, e certi luoghi, la loro atmosfera, la ravvivano