lunedì 30 marzo 2015

La Grande Guerra delle donne

di Angela* e Rita Frattolillo


copertina libro
Il primo conflitto mondiale, di cui ricorre quest’anno il primo centenario dal suo inizio, è stato ultimamente definito, e  a ragione, la guerra dei nostri nonni.
Tra gli oltre 5 milioni di mobilitati per combattere al fronte c’è stato anche nostro (mio e di mia sorella Angela) nonno Raffaele, che partì per il Carso lasciando a casa la moglie con quattro bimbi e una grande impresa agricola da portare avanti; e certe volte capita di pensare che magari si è trovato fianco a fianco con Giuseppe Ungaretti, Guglielmo Marconi, se non con il nostro poeta  di Riccia Michele Cima.

 Fino a che punto gli uomini del Mezzogiorno, come nostro nonno, avranno avuto coscienza della necessità della guerra? Non lo potremo mai sapere, ma sicuramente, quando l’Italia dichiarò l’entrata in guerra, nel 1915, mentre la piccola borghesia molisana, gli studenti, accolsero generalmente la guerra come una sacrosanta crociata per riconquistare i territori irredenti, i nostri   contadini, i pastori calabresi e siciliani, piuttosto la subirono come un male inevitabile.

 Sempre alle prese con i problemi quotidiani, chiusi nei loro interessi, essi avevano combattuto con tutte le loro forze i “giacobbe” e la loro “nefasta” ideologia  proclamata durante la rivoluzione partenopea; furono contrari, nel periodo preunitario, alla venuta dei piemontesi per quello che rappresentavano; solo l’impresa libica (1911-12), per la ventilata possibilità di ottenere delle terre, era stata accolta in maniera non negativa e avevano così preso la via dell’Africa. Ma questa volta partirono per il fronte con rassegnazione, pur se compirono il loro dovere fino in fondo, dando un  contributo di sangue altissimo, il 56% del totale. E magari, in trincea, patendo il freddo, il gelo, la fame, con altri fanti che parlavano  dialetti diversi, che avevano altre abitudini anche alimentari, condividendo con loro pane e nostalgia di casa, maturarono la coscienza della propria italianità e compresero le ragioni della guerra.

E le donne?

 A differenza della storiografia internazionale, nel nostro Paese il tema del rapporto tra le donne e la guerra è stato affrontato tardi, ed è emerso solo negli anni ’90, quando una nuova generazione di studiosi, svegliandosi, ha dato il via a serie indagini a largo spettro.
 In tale prospettiva, vanno viste anche le ultime pubblicazioni di scrittrici, che, a quanto è emerso finora, hanno trovato molto materiale, testimonianze, memorie private che documentano  l’intraprendenza, la temerarietà, il patriottismo delle donne abitanti per lo più vicino ai teatri di guerra, alle zone di confine – trentina, veneta e friulana – ossia quelle zone che hanno sperimentato la guerra totale.

Se è vero che dopo secoli di distrazione generalizzata da parte di studiosi di qualunque disciplina e ideologia, che hanno consegnato all’oblio l’operato femminile in tutti i campi del sapere,  è stata proprio la massiccia mobilitazione delle donne congiunta alle capacità dimostrate durante lo snodo tragico del primo conflitto mondiale a farle finalmente irrompere  nella storia con la esse maiuscola, è anche vero che basta sfogliare gli ultimi volumi sull’argomento – tra cui  la densa e intensa ricerca di Angela, dal titolo I ruoli delle donne nella Grande guerra - per cogliere il vistoso divario tra l’approccio all’evento bellico da parte delle donne del Nord Italia e le altre.

Le prime, infatti, come emerge dall’indagine di Angela, si sentono in trincea: sono interventiste, attive e piene di iniziative, e spesso vedono il conflitto come il momento giusto per emanciparsi, attraverso la mobilitazione politica, sociale, civile e morale. Non parliamo solo delle crocerossine o delle “portatrici” che sfidano la morte e spesso ci lasciano la pelle, al fronte, come Maria Plozner, madre di quattro figli (di cui racconteremo più avanti),  né parliamo solo  dei personaggi fuori dalle righe come le  impavide inviate di guerra, o le spie,  ma ci riferiamo per esempio alle “comuni” donne milanesi che creano una rete di solidarietà per confezionare il corredo del soldato o lo scapolare antipidocchi da inviare al fronte. E’ un dato di fatto che, allo scoppio della guerra, femministe e non, se prima erano mobilitate per il riconoscimento dei diritti civili, ora cambiano rotta rapidamente, pronte ad affrontare le nuove emergenze, come Paola Baronchelli.

Paola Baronchelli Grosson (1866–1954) era – scrive Angela - una “giornalista, conferenziera, scrittrice per l’infanzia, intellettuale non femminista, osservatrice disincantata dei cambiamenti in atto nella condizione femminile. Per lei la guerra rappresentava un passaggio epocale dal vecchio al nuovo secolo; gli eventi determinanti un così rapido mutamento erano la crisi europea e la crisi del femminismo. Con questo convincimento partono le inviate come corrispondenti di guerra; lavoro pericoloso e riservato solo ai maschi. La cronista di guerra irrompe sullo scenario con il suo linguaggio per raccontare la guerra alle donne che solo dal 1905, anno di fondazione de “La Donna”, supplemento dei quotidiani “La Stampa” e “Tribuna”, direttore Alfredo Frassati, hanno cominciato a dibattere temi culturali e di attualità, legati alla subalternità nella vita familiare e civile.
Annie Vivanti

Partirono così per il fronte: Annie Vivanti per il periodico “La Donna”; Barbara Allason; Stefania Turr per il mensile “La Madre italiana”; Ester Danesi Traversari per “Il Messaggero”; Flavia Steno per il “Secolo XIX”.

E’ esemplare la vicenda della giornalista  Stefania Turr –  racchiusa, come le altre storie,  nel volume I ruoli delle donne nella Grande Guerra - perché la sua storia chiarisce bene la commistione che si era creata tra  emancipazionismo e interventismo femminile.
 “Stefania, rifacendosi all’esperienza risorgimentale del padre, si assume il compito di veicolare nel suo periodico la viscerale passione per la causa italiana insieme alla strenua lotta contro l’oppressore austriaco e quindi la personale adesione all’Irredentismo. Stefania Turr confeziona la sua rivista con notazioni militariste   veicolando  idee e convinzioni che spronino all’azione, un’azione fatta da una donna per le donne che stanno acquisendo una nuova consapevolezza del proprio ruolo nella società e che vogliono condividere le loro ansie e paure con qualcuna che sappia e ascolti.
 Sono tutte quelle donne i cui mariti, padri, figli, fidanzati, fratelli, sono al fronte; hanno l’intimo bisogno di conoscerne le condizioni di vita e le difficoltà che affrontano.
Soprattutto hanno bisogno di essere rassicurate e nel contempo stimolate a pretendere, finita la guerra, ciò che spetterà loro di diritto per aver reso alla patria un grande servizio.
Stefania intraprende così la via della partecipazione diretta e consapevole: sarà nelle trincee cronista di guerra, a fianco dei soldati, non per consolare o confortare, ma per condividerne la vita, le sofferenze, la nobiltà delle gesta e vedere in faccia il nemico di mio padre e della mia famiglia
Le uniche donne a sperimentare finora la vita al Fronte erano le crocerossine, il cui contributo di sangue sul campo di battaglia è finora passato in sordina, se si pensa che delle tante crocerossine uccise, solo una è sepolta  a Redipuglia.
 Stefania non ha nulla della crocerossina, quindi la sua richiesta conosce la complicata burocrazia fino alla sospirata autorizzazione.

“Alle Trincee d’Italia” è il suo reportage a 360 gradi in qualità di inviata di guerra:
Io vado al fronte, e vorrei gridarlo alto specialmente a quella damina che mi sta incontro tutta agghindata come una pupattola e tutta intenta a tenere in buon ordine le pieghe del suo abito…e anche a quel giovanotto che mi pare così brutto nel suo abito borghese: che diamine, un giovanotto vestito da borghese in un treno che va verso Udine, ma perché vi è montato? Che viene a fare questo disutilaccio? Ora non è il tempo di agghindarsi o di distrarsi.“

Una forte empatia la spinge a visitare i luoghi di guerra, a immedesimarsi nelle vicende dei tanti giovani che hanno sacrificato la vita per la Patria.
Narrazione vivida e attenta della geografia dei luoghi incontrati, ma filtrati dal pensiero costante di ciò che hanno provato i soldati nel calpestare luoghi tanto impervi[…].
Il pathos ci accosta al dolore dei soldati; il freddo, la neve, la desolazione dei luoghi ci entra dentro perché Stefania s’immedesima nelle loro vicende.

“Lei dedicherà molti articoli all’impossibilità di escludere la componente femminile dalla vita attiva politica. Da qui il pensiero costante della partecipazione consapevole: oggi il bilancio morale e materiale degli anni di guerra è tutto a favore di noi donne e possiamo presentarci a fronte alta dinanzi agli uomini e domandar loro: e ora? Nei giorni di lavoro febbrili, nei giorni della trepidazione e del dolore voi ci avete chiamate, noi siamo accorse e vi abbiamo dato l’aiuto necessario e proficuo. Noi non possiamo più essere assenti dalla vita politica delle nazioni e voi dovete provvedere.

Esige quindi parità tra i sessi,  l’inserimento delle donne nella vita sociale e politica, come un dovere e non una concessione. Le rivendicazioni gridate in uno stile asciutto e rabbioso, sono di chi non si accontenta più di stare dall’altra parte della Storia. […] Il ruolo materno si stravolge- osserva Angela -, piegato ai propri ideali, quello della madre spartana fiera di mandare i propri figli a combattere. Non tutte, naturalmente, la pensano come Stefania, anzi, la maggioranza delle donne, al Nord come al Sud, si ribellano al destino assurdo che le stava privando dei figli”.

L’Autrice continua: “Un coinvolgimento impossibile per le donne meridionali, se non altro per motivi geografici, è quello delle crocerossine di guerra e delle “portatrici”, le donne che salivano al fronte con delle ceste per la biancheria in cui erano nascoste le armi per i soldati, materiale edile, o  anche  cibo e indumenti. Tra esse, c’era Maria Plozner Mentil, nata a Timau il 17 novembre 1884.
“Timau, al confine con l’Austria,  è una frazione di Paluzza in provincia di Udine, vicino al passo di Monte Croce Carnico, nodo strategico.
Maria Plozner Mentil

A Timau si parlava un antico dialetto di origine carinziana, assimilabile al tedesco, per cui suscitava sospetti negli italici. Cominciata la guerra, il Comando italiano ordinò lo sgombero immediato di Timau, Cleulis, Forni Avoltri e Val Aupa.
“La retromarcia arrivò subito, allorché il Comando si rese conto che gli uomini validi erano tutti al fronte e che si aveva bisogno dei civili, ovvero dei ragazzi e delle donne.
Rimane quindi il dubbio sulla libertà di scelta delle portatrici stando alla dichiarazione del sindaco di Paluzza, Alberino Delli Zotti: ….il ritorno nelle proprie case è concesso a condizione che gli uomini validi e le donne dai 12 anni in su si pongano a disposizione del comando militare per qualsiasi lavoro necessario al sostegno delle truppe in trincea….

Maria sin da piccola dovette lottare con l’indigenza.  In tenera età perse il padre boscaiolo, Tobia, che si era recato in Romania per trovare occupazione. Sposò il 29 gennaio 1906 il compaesano Giuseppe Mentil da cui ebbe 4 figli. Il più piccolo, Gildo, aveva pochi mesi quando Maria venne colpita a morte mentre trasportava il suo carico, il 15 febbraio 1916.
“Aveva 32 anni. E’ l’unica donna in Italia a cui sia stata intitolata una caserma nel 1955, peraltro ora dismessa. Nel 1997 le è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria come simbolo di tutte le portatrici, e ad esse  a Timau è stato innalzato un monumento”.

Sul fronte dell’impegno femminile per ottenere i diritti  civili dovuti alla progressiva partecipazione alla vita sociale, la delusione per il mancato riconoscimento dopo il Risorgimento  aveva ceduto a una nuova speranza allo scoppio della Grande Guerra, dal momento che questa fu vista  anche come un’opportunità da sfruttare in ogni direzione.

 Sorprendente nella sua unicità, ad esempio, è la strada presa con grande determinazione e spirito innovativo da una maestra salernitana, Maria Elvira Giuseppa Coda Notari (10 febbraio 1875 - 17 dicembre  1946), che, divenuta nel 1902 modista a Napoli, incontra  Nicola Notari, ex pittore divenuto fotografo che si andava specializzando nella coloritura delle pellicole fotografiche con anilina. Dopo le nozze, la coppia fonda nel 1905 la casa di produzione cinematografica “La Film Dora” (dal nome della figlia) di cui lei sarà attrice, sceneggiatrice, e regista. Ispirandosi alle vicende belliche, ai cupi romanzi di Mastriani e della Serao, ai fatti di cronaca napoletana, diventerà famosa persino in America.
Elvira Coda Notari con il marito
 Ma a partire per le zone di guerra sono anche le spie, di cui si sente un bisogno disperato.
“L’Italia infatti - chiarisce Angela - non disponeva di una intelligence e non era riuscita ad organizzare in maniera razionale il Servizio Informazioni, che risaliva solo al 1911. Al soffiare dei venti bellici sui Balcani, nel 1914, la nostra intelligence cercava di organizzarsi ai confini con la I Armata, di stanza tra Lombardia e Trentino, capeggiata dal colonnello Tullio Marchetti.
“Il  problema che s’impose drammaticamente fu la mancanza di rilievi topografici vietati dal patto con l’Austria del 1910. Tullio Marchetti dal 1912 riprese clandestinamente i rilievi con la sua rete di fiduciari per ricostruire le guide militari della zona, coadiuvato dal farmacista Ugo Rella e da Cesare Battisti.

Dunque, mentre l’Italia muoveva i primi passi nel 1914, l’Austria contava una radicata serie di informatori, fra cui spiccano le mogli austriache degli ufficiali italiani. Era famosa Elisabetta Margherita Konismark, moglie dell’ammiraglio Piero Orsini, che incontrava gli informatori all’Hotel Bristol di Piazza Barberini a Roma. Molto attiva anche Eleonora Gormasz, cognata del generale Pollio, ma non mancavano  né le  prostitute di alto bordo (niente in comune con l’esercito di prostitute - spesso minorenni - caldeggiate da Cadorna, bordelli con ritmi di fabbrica di cui scrive in un reportage tremendo Maria Serena Palieri nel volume collettaneo di cui nell’incipit, n.d.r.),  né i prelati austro-ungarici frequentatori dei “casini” del centro di Roma.
Al nutrito numero di spie austriache in Italia, i nostri vertici militari risposero con una rete spionistica arruolata nel serbatoio degli irredentisti.
Luisa Zeni

“Ad offrirsi volontaria come spia, è una donna, Luisa Zeni, che non ha niente da spartire con  le   fascinose  maliarde alla Mata Hari tramandate da certa cinematografia: Luisa era  una ragazza modesta e normale senza nessuna aureola di bellezza e mistero.
La sua scarna biografia annota la morte della madre a tre anni, l’influenza del nonno garibaldino amareggiato per la patria italiana  mutilata del suo Trentino. Ad undici anni  incontra l’ispettore scolastico Prospero Marchetti, al quale era stata segnalata  perché la bambina aveva risposto alla maestra che Roma era più bella di Vienna.

I Marchetti diventano il filo rosso della sua vita: Prospero, sindaco di Arco, irredentista, sarà il suo tutore e colui che la segnalerà al cugino colonnello Tullio.
“Il percorso di Luisa come spia è inusuale. A diciannove anni, nel 1914, si associa con il gruppo dei Trentini guidati da Cesare Battisti che, per non combattere nelle file austriache, costituendo il Comitato per irredenti adriatici e Trentini, emigrarono a Milano insediandosi  al 14 di via Silvio Pellico, Luisa Zeni impara così il loro linguaggio cifrato usato nelle circolari, opuscoli e lettere per incitare all’intervento e liberare Trento. Alla vigilia della guerra, al gruppo giunge una richiesta dall’Ufficio Informazioni della I Armata.

«C’è qualcuno disposto a rischiare tutto risalendo la valle dell’Adige da Ala al Brennero per raccogliere notizie e dati sui movimenti, sulle dislocazioni e intenzioni del nemico?» E’ così che le viene affidato l’incarico, insieme ad un passaporto intestato a Josephine Muller, tedesca residente a Trento, una pistola, un manuale cifrato, l’inchiostro simpatico e indirizzi di agenti in Svizzera nascosti nei bottoni della giacca. “La sua avventura comincia il 22 maggio partendo da Brescia alla volta di Innsbruck.

Nell’albergo Union nasconde pistola e manuale dietro l’armadio e si comporta come una turista inesperta ed un po’ sciocca per raggiungere i luoghi fuori città e osservare i movimenti delle truppe, gli accampamenti, i treni dei soldati con la destinazione scritta sui vagoni. Avvicinandosi poi alla frontiera, portava regali (cioccolata, tabacco, cartoline) ai soldati per conoscere magazzini, depositi di armi e munizioni. A volte, fingendo di essersi persa, si spingeva fino ai posti di controllo per carpire notizie ed individuare spostamenti.

Dall’albergo  spediva le informazioni all’agente Silvio, corrispondente di Zurigo, che avrebbe fatto pervenire le notizie in Italia.
Come cittadina austriaca aveva anche occasione di chiacchierare amabilmente, la sera, con gli ufficiali ospiti dell’albergo.

“Ma l’Austria cominciò ad avere qualche sospetto su quella donna che non lavorava e finiva sempre per trovarsi nei paraggi dei movimenti delle truppe.
“Accortasi della occhiuta vigilanza, Luisa lascia l’albergo e si trasferisce in una casa privata. […]. Dovrà comunque sparire e lo farà, vestita da uomo con abiti tirolesi, fra molte insidie e con molta audacia, fino a Zurigo, da dove rientrerà a Milano il 16 agosto 1915. A questo punto ci si attenderebbe riconoscimenti, benefici e soprattutto tranquillità. 
Invece Luisa, ricordandosi del diploma di infermiera, si arruola come crocerossina, sperando così di ritornare al fronte.[…] Ma la delusione per la spartizione delle terre di confine che esclude Fiume (il trattato di Saint Germain, 1919, definiva sì i confini, ma non quelli orientali) la fa volare, travestita da ferroviere, a Fiume occupata dai Legionari di Ronchi con Gabriele D’Annunzio.
I funerali di Tullia Franzi
Condivide gli affanni della popolazione occupata, soffre con loro la fame, combatte nell’assedio del Natale 1920, cura i feriti con le instancabili donne fiumane Bina Abate e Tullia Franzi fino alla resa del 31 dicembre 1920, dopo le cannonate dell’Andrea Doria sulla città. Il governo fascista le assegnò una medaglia d’oro al valore militare, e una piccola pensione che la sostenne fino alla morte avvenuta a Roma.
Anche Luisa Zeni si dilegua dalla Storia per finire nel dimenticatoio della memoria degli uomini”.

***
E nel Mezzogiorno come parteciparono le donne?

 Sulla natura, sul tipo di coinvolgimento e di partecipazione femminile al primo conflitto mondiale  molto avrà pesato – oltre al differente retaggio storico-politico del Mezzogiorno - la maggiore  distanza dal teatro delle operazioni. La guerra c’era, ma si faceva sentire  in forme differenti, dal razionamento del cibo allo spegnimento dei lampioni  alle frequentissime richieste di sottoscrizione per finanziare le attività belliche del Regno; ma sentire il fragore dei combattimenti ha un impatto ben diverso rispetto ai disagi degli approvvigionamenti o alla vista dei feriti tornati dal fronte….Ma, si può attribuire solo a questi fattori il netto divario di “sensibilità” femminile espressa al Nord e nel resto della Penisola? Perché,  se appare “comprensibile” che dal Mezzogiorno non partissero donne per svolgere la missione di “portatrici”, esse avrebbero comunque potuto servire la Patria con il loro contributo – sia attraverso l’interventismo delle intellettuali veicolato dai giornali  che attraverso l’azione diretta - in termini di consapevole adesione alle “ragioni” dell’interventismo.

Chiaramente entrano in gioco altre motivazioni: i condizionamenti ambientali, l’emarginazione sociale, la mentalità in cui sono cresciute le donne del Mezzogiorno, l’ignoranza pressoché generale in cui continuano ad essere tenute (malgrado la Legge Coppino del 1877 e qualche miglioramento dovuto più all’iniziativa privata indirizzata specificamente all’istruzione femminile, come quella avviata e proseguita da Aline Aubin Battistelli a Campobasso nel secondo Ottocento). Alle esponenti dei ceti alti, le più “favorite”, era consentito solo esercitare il matronage, oppure occuparsi di beneficenza. Per tutte le altre donne, popolane o contadine, la vita si consumava tra l’allevamento della prole, la gestione della casa e il duro lavoro dei campi. Al massimo qualche sfilacciata notizia trapelata dall’esterno.

 Per le prime come per le altre, un’esistenza comunque controllata dagli uomini, nella sequenza padre-marito-figlio, sempre molto limitata quanto a partecipazione alla vita  sociale, a  possibilità di coltivarsi, di esprimere la propria personalità, allungare lo sguardo fuori, uscire fuori dal “seminato”, ovvero fuori dal perbenismo dominante.
Una situazione che sarà sfruttata dall’ideologia fascista, la quale avrà gioco facile nell’esaltare un modello di femminilità che sarà ben propagandato e attivamente perseguito, perché farà sentire le donne gratificate,  al centro dell’attenzione, e quindi – per la loro sempre compressa voglia di protagonismo - pronte a mobilitarsi  per la gloria del duce e della stirpe. (Salvo poi accorgersi che leggi ad hoc impedivano loro di emergere).

Nel piccolo Molise, allo scoppio della guerra, la maggioranza delle donne collabora con il resto della famiglia all’andamento domestico per sbarcare il lunario. Nell’economia del territorio  il primo posto spetta al settore primario, e non a caso Mussolini si servirà della forte tradizione agricola della regione per esaltare, nell’ambito del  suo piano di autarchia, il “Molise ruralissimo”.

 Partiti gli uomini per il fronte, tocca alle donne sostituirli. Era già successo, quando nell’Ottocento era cominciata l’emigrazione. Infatti la  plurisecolare questione dell’assegnazione delle terre, sempre rinviata, non aveva trovato una risposta adeguata neanche dopo l’Unità, quando si assisté al flusso di gente in cerca di fortuna alla volta del Belgio o de “Lamèreca”(copyright di Norberto Lombardi).
 Purtroppo già qualche mese prima della proclamazione dell’Italia unita, nell’agosto 1860, la strage dei contadini che si erano sollevati a Bronte (Catania) mentre rivendicavano i loro diritti sui Cappeddi (i galantuomini latifondisti) quando i due battaglioni di bersaglieri di Nino Bixio li avevano massacrati senza pietà,  non aveva fatto presagire nulla di buono sulle prossime mosse del nuovo governo.

Così si era intensificato l’esodo, diventato – sia pure con andamento ondivago - inarrestabile per decenni, svuotando i paesi, come Agnone, che se contava ben 11.600 abitanti nel 1875,  già nel primo dopoguerra aveva tanti figli in Argentina, da poter costruire il Teatro Italo-argentino grazie ai finanziamenti ricevuti proprio dagli emigrati.

 Una volta rimaste sole, le donne avevano quindi dovuto toccare con mano  già ben prima dello scoppio della guerra i problemi della sopravvivenza, senza la collaborazione e la guida del proprio uomo, supplendolo in tutto e per tutto.
In Molise le “vedove bianche” sostituiscono  i mariti, in attesa del  loro ritorno, nella speranza delle “rimesse”, e di qualche lettera.

Anche adesso, dal proprio uomo al fronte, la donna aspetta una lettera, e lavora, ma con il cuore a lutto e il pensiero rivolto al suo incerto destino -̶ sarà prigioniero? oppure morto? – e si accolla la gestione della famiglia,  si adatta a mille mestieri,  bada ai bambini e agli anziani rimasti in casa, lavora la terra, bada agli animali.
 Se, sfogliando i giornali dell’epoca come “Il Giovane Sannio”, è evidente lo sforzo di  magnificare la coscienza nazionale, d’altra parte gli interventisti non mancano di attivarsi perché ogni molisano si senta in trincea, e partecipe dell’evento bellico.

E’ grazie alle associazioni, attraverso i comitati, che prende corpo l’assistenza pubblica, da una parte per sostenere il reddito delle famiglie bisognose offrendo loro occasioni di lavoro legato alla necessità bellica (come il confezionamento dei capi da inviare ai soldati), dall’altra provvedendo ai figli dei militari morti in guerra o ai disabili di ritorno dal fronte.

 A questo tipo di assistenza si aggiunge quella ospedaliera di retrovia: a Campobasso ne erano state approntate tre:  nel Convitto “Mario Pagano”, nella palazzina “Speranza” e nella caserma “G. Pepe”; a Isernia erano stati riattati i locali dell’ex Convitto.

Siccome sono le donne a generare la vita, ne conoscono bene il valore, e quindi per loro è naturale dedicarsi anzitutto alla carità e al sacrificio; è perciò che a curare con slancio i feriti e quanti erano tornati malconci dai teatri di guerra, troviamo donne di tutti i ceti sociali, dalle più blasonate, come la regina Elena di Savoia, sempre schierata dalla parte dei più deboli, che trasforma il Quirinale in ospedale da campo; o come Hélène d’Orléans, sposa del duca Emanuele Filiberto d’Aosta, che in questo contesto merita almeno un cameo. Ispettrice generale delle infermiere volontarie CRI, si guadagnò molti riconoscimenti, tra cui tre  medaglie d’argento al valor militare, e la sua personalità, il suo patriottismo, ispirarono a Gabriele d’Annunzio La canzone di Elena di Francia (nella silloge Canzoni d’Oltremare). Innamorata di Napoli, la principessa scelse come residenza la reggia di Capodimonte, che abbellì, e, quando  i Savoia presero la fuga dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, rifiutò di seguirne l’esempio poco edificante, restando nella “sua” città. Raro esempio di dignità e consapevolezza del proprio ruolo.
Hélène d'Orléans

Tra le “semplici” borghesi campobassane (di adozione) troviamo Maria Rossi Sabelli (Napoli, 1899 - Campobasso, 2000). Figlia del medico Francesco Rossi, amico di Antonio Cardarelli, Maria poté mettere a frutto le sue conoscenze mediche acquisite accanto al padre prestandosi come  zelante infermiera –crocerossina non solo nella prima, ma anche nella seconda guerra mondiale, dal momento che ha attraversato per intero il Novecento. La sua disponibilità la porterà ad attivarsi in numerose istituzioni benefiche, e il suo amore per la medicina la indurrà a trasformare il bel palazzo stile liberty di via Principe di Piemonte a Campobasso nella Casa di Cura che porta ancora oggi il suo nome: “Villa Maria” è la  prima Casa di Cura privata del Molise.

 “La Provincia di Campobasso” del 20 febbraio 1917 metteva in risalto l’eroismo femminile  perché “le donne sono state chiamate a sostituire i combattenti nelle attività produttive, oltre che partecipare attivamente a forme molteplici di attività di volontariato a sostegno della nazione in guerra: dall’assistenza sanitaria ai soldati, alle innumerevoli attività a favore dei loro figli, degli orfani […] alla confezione di indumenti militari […]. E invero la donna ha dato e dà alla guerra il più generoso e valido contributo di energie, non solo nel campo che le era stato assegnato dalla natura ma prendendo bravamente il posto degli uomini chiamati ad adempiere sulle linee di battaglia il loro dovere di cittadini e di soldati”.

 Ma, nonostante “l’eroismo” delle donne, si segnalava un abbassamento della produttività: le piccole aziende familiari erano prive di mezzi meccanici, il raccolto doveva essere fatto in pochi giorni, e la donna da sola non ce la poteva fare; fatto sta che nel 1917 il raccolto del grano si fermò ad appena 440mila quintali. Si dovette chiedere al governo un aumento dell’approvvigionamento e soprattutto fu necessario far rivedere il sistema delle licenze agricole, che consentiva ai fanti-contadini di tornare a casa per un mese circa, a rotazione, e riprendere il lavoro dei campi.
Lo scontento del fronte interno, insomma, si faceva sentire, non solo per la scarsità del raccolto, la difficoltà degli approvvigionamenti e il caroviveri, ma anche per l’atteggiamento discriminatorio del governo che sembrava aver dimenticato i sacrifici fatti dai molisani.
Infatti i giornali sottolineavano che il verdeggiante Matese aveva perso i suoi alberi per rifornire di legname l’esercito al fronte, ma il governo, ingrato, non aveva provveduto a far sorgere fabbriche di munizioni e laboratori militari dove far lavorare le donne.

 Tra le pochissime fabbriche, è attivo il Lanificio ditta Florindo Martino (databile al 1886) di Sepino sul torrente Tappone. Da Annamaria Albino (Almanacco del Molise 1991, vol.I, ed Enne, pp.170-190) sappiamo che ospitava un’intensa attività e che le varie fasi della lavorazione, dalla cardatura  alla gualcatura, erano eseguite da 18 addetti, di cui 11 maschi e 7 femmine. Questa manodopera, che sicuramente diventò tutta femminile nel periodo bellico, soddisfaceva a grosse forniture di coperte e capi di abbigliamento per l’esercito. Ricostruita in seguito ad un incendio negli anni ’50, fallì  intorno al’70.

La rotta di Caporetto, quel terribile 24.10.1917, segnò la rioccupazione delle terre da parte dell’esercito austro-ungarico: friulani e veneti dovettero abbandonare i loro paesi e sfollarono al di qua del Piave. 632mila i profughi italiani che dilagano ovunque.
Il Molise viene  a contatto diretto con la drammatica faccia della guerra.
L’arrivo dei profughi (circa 2322), oltre a mobilitare tutte le istituzioni, le associazioni, la stampa e i privati cittadini, incontrò una risposta straordinariamente generosa di tutto il popolo. I comuni molisani si offrirono per  dare ospitalità ai fuggitivi, e le donne furono in prima linea per alleviare in mille modi le condizioni dei profughi e nella raccolta di fondi in loro favore. Ad essi si aggiunse lo sforzo della Chiesa. Il vescovo di Bojano, Mons. Alberto Romita, invitò i prelati a raccogliere una colletta da inviare al Papa che ne avrebbe disposto secondo il suo illuminato criterio. Il 4 ottobre 1918 lo sfondamento della linea Hinderburg da parte francese e la capitolazione dei bulgari costrinse Germania e Austria-Ungheria  a fare appello a Wilson: è la fine della guerra.
Ogni vicenda bellica ha per lo meno una madre che è diventata un simbolo per l’intera nazione: Adele Cairoli nel Risorgimento; mamma Calvi nella Grande Guerra, mamma Cervi nell’ultima Guerra.

E in ambito molisano?

In ambito molisano possiamo vantare Maria Concetta Quici, madre dei due fratelli Brigida uccisi a Termoli nel periodo della Rivoluzione partenopea, Teresa Lembo, madre del garibaldino Giuseppe Suriani, trucidato durante la terribile reazione di Isernia dell’ottobre 1860.
 Nello scenario della seconda Guerra mondiale, quando, dopo l’armistizio firmato l’8 settembre 1943 da Vittorio Emanuele III e gli alleati, le truppe tedesche, ritirandosi,  trasformano l’Italia in un gigantesco focolaio di guerra, minando edifici, occupando paesi, e facendo saltare ponti per rallentare l’avanzata degli alleati, una donna si segnala come grande protagonista per la straordinaria temerarietà che le ha consentito di salvare il suo intero paese, Vastogirardi.

Medora Marracino, erede di una famiglia di spicco dell’Alto Molise, una laurea in chimica pura ottenuta a via Panisperna, poliglotta e musicista di talento, riesce, fidando nella sua capacità di mediazione con il comandante tedesco e sul suo sangue freddo, a scongiurare il plotone di esecuzione per alcuni concittadini, tra cui lo stesso podestà, accusati di aver disinnescato le mine poste dagli ex alleati.
Sicuramente anche la Grande Guerra ha espresso nel Molise la sua eroina-simbolo, ma occorrerà esplorare e scavare parecchio, e allora ne riparleremo.


*Angela Frattolillo, dirigente scolastica a riposo, ha al suo attivo diverse pubblicazioni (saggistica, romanzi, riflessioni di viaggio) e da anni conduce una intensa attività di animatrice e divulgatrice culturale.

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