giovedì 21 maggio 2015

I Bronzi di Riace


Viaggio in Calabria alla scoperta dei suoi tesori


di Rita Frattolillo


 Poco meno di seicento chilometri, di cui quattrocentotrenta percorsi sulla famigerata autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, tanto ci vuole per arrivare alla punta dello Stivale, dai Bronzi. Il viaggio è lunghissimo, non si arriva mai, e Reggio Calabria  sembra un miraggio. Tuttavia, a dispetto delle lungaggini e del malaffare che gravano su questa autostrada, va detto che essa è un capolavoro di ingegneria in “progress”,  poiché si sta “raddrizzando” via via  il tracciato, che ora trafora tutta la dorsale appenninica: quindi si percorre una successione innumerevole di tunnel  congiunti tra loro per lo più da viadotti, di cui alcuni spettacolari, come quello tra Muro e Brancato. 
Lo sguardo, poi, è catturato da una natura bellissima,  selvaggia ed esuberante. Le scarpate sono coperte da macchie di ginestre, pseudoacacie,  biancospini, e sorprendenti note di colore sono offerte dagli iris violetti, che qui nascono spontanei.  Il paesaggio è ampio, superbo, per lo più montuoso, alti picchi brulli sono preannunciati da alture ammantate di verde lussureggiante. L’auto corre affiancando il parco del Cilento (dopo Salerno), la cordigliera del Pollino innevato; più dolce la piana di Sibari, coperta da uliveti e serre, raro qualche insediamento urbano.

Dopo la Sila, ecco il parco dell’Aspromonte, che invariabilmente mi fa pensare a Garibaldi; all’improvviso appare il mare, azzurrissimo, ritagliato come una cartolina  tra due alture: è il golfo di Santa Eufemia.

 A trecentotrentaquattro chilometri da Campobasso, stiamo percorrendo la litoranea, non possiamo fare a meno di fermarci a Pizzo Calabro, l’antica Napitia fondata, secondo la tradizione, da Nepeto. Sosta obbligata per il panorama spettacolare: sull’altra sponda si staglia nitido lo Stromboli con il suo pennacchio che disegna una scia nel cielo di velluto. Ma ci attira pure il misto di storia e leggenda che aleggia tra la spiaggia e il castello. Imperdibile, anzitutto, la chiesa di Piedigrotta - a due chilometri dal paese - un unicum nel suo genere.




Sulla spiaggia che una volta era un covo di pirati, la roccia calcarea è stata scavata nel Seicento da alcuni marinai napoletani, che, scampati a un naufragio, ne ricavarono una grotta-chiesetta per ringraziare la Madonna di Piedigrotta a cui si erano rivolti mentre pregavano sull’imbarcazione nel momento del pericolo. Nella piccola cappella collocarono il quadro che avevano con sé, e che, malgrado altre tempeste e la furia delle onde che penetravano nella grotta, rimase al suo posto.Verso il 1880, un fotografo di Pizzo, Angelo Barone, decide di dedicarsi a quel luogo sacro, abbandona la macchina fotografica e continua l’opera dei marinai a colpi di piccone, ingrandisce la grotta lasciando dei blocchi calcarei che poi modellerà creando ambienti e scene rappresentanti miracoli, figure di santi, della Madonna e di Gesù.
                                                                                          



  Alla morte di Angelo, nel 1917, subentra il figlio Alfonso, che dedica quarant’anni della sua vita alla chiesa, scolpendo altri gruppi, capitelli, angeli, dipingendo la volta. Dopo la sua morte, la chiesa conosce un lungo momento di abbandono e subisce diversi atti vandalici che la riducono a un cumulo di macerie. Finché verso il 1965 un nipote dei Barone, Giorgio, scultore affermato in Canada, torna a Pizzo per una breve vacanza, e invece, dopo la visita alla grotta, decide di provare a restaurarla. Lavora ininterrottamente per diversi mesi pur di far risorgere il capolavoro creato dagli zii. Nel ’68 il restauro era concluso, e noi possiamo  conoscere la suggestione di questo luogo magico. Ci muoviamo esterrefatti nella penombra tra una selva di figure, sistemate nella navata centrale e  ai lati. Tra le prime statue, quella di San Francesco di Paola, patrono della Calabria e delle genti di mare di tutta l’Italia, qui raffigurato mentre attraversa sul proprio mantello lo stretto
di Messina. Qua e là luccica l’acqua marina che affiora dalle pietre. Verso il fondo, la rappresentazione della natività è straordinaria: oltre le figure dei protagonisti, colpisce l’effetto prospettico ricreato dal Barone con grande perizia: i ponti, le case, le varie architetture, gli animali, gli alberi, sono tutti  in scala e ritmati  sfruttando i dislivelli della grotta.
                                                       

Il vivace centro storico di Pizzo è dominato dal castello aragonese, costruito verso il 1300 come difesa dalle incursioni saracene e piratesche e fortificato verso la fine del 1480. A lavori ultimati, il castello ebbe funzione di prigione e un presidio militare. Nei suoi seminterrati sono  passati carcerati illustri, come il filosofo Tommaso Campanella, il conte di Cagliostro e Ricciotti Garibaldi, figlio di Anita e dell’eroe dei Due Mondi.




 Passato di mano in mano, dopo l’eversione della feudalità (1806) entra nel demanio, e poi è ceduto al Comune di Pizzo. Dal 1982 è dichiarato monumento nazionale e con il nuovo millennio prende il nome di castello Murat, perché qui, infatti fu fucilato il 13 ottobre 1815, dopo pochi giorni di prigionia e un processo-farsa imbastito dai borbonici, Gioacchino Murat, re di Napoli dal 1808. L’associazione che cura  sia il castello che la grotta ha ricostruito minuziosamente - con l’aiuto di manichini in costume  e pannelli murali esplicativi -  tutte le tappe degli ultimi giorni di vita di Murat, dalla cattura per mano dei pizzitani aizzati dai borbonici  alla fucilazione, passando per la breve prigionia nelle celle del castello,  per il processo, la confessione con il canonico Masdea, la lettera di addio alla moglie Carolina Bonaparte e ai suoi quattro figli.



Tutto l’ambiente provoca un forte impatto sui visitatori, che sono tanti e si aggirano nei freddi corridoi quasi con timore. Sul ballatoio, il punto in cui Murat venne fucilato dopo aver chiesto di comandare  lui stesso il plotone di esecuzione. Ordinò di mirare al petto e di salvare il viso, ma i soldati, intimiditi, tirarono al di sopra della sua testa. Dovette quindi ordinare di nuovo la carica pregandoli di mirare diritto. E così fu. Cadde stringendo l’orologio con il ritratto di Carolina. Aveva 47 anni, e le  sue spoglie  riposano da quel giorno nel Duomo di San Giorgio. La lettera scritta alla moglie  le venne recapitata nientemeno  nel 1835, quando lo scrittore Alessandro Dumas, visitando il castello (come ricorda la lapide sul portale), ebbe modo di ricopiarla dall’originale, e poté quindi consegnarla alla vedova.
 Nel 1950 la principessa Nicole Murat ha donato il busto in marmo di Gioacchino al Comune di Pizzo. L’autore, lo scultore francese Jean Jacques Castex, amico personale di Murat, lo realizzò nel 1812  raffigurandolo in maniera classica ma senza alcuna idealizzazione dei tratti, che risultano marcati come erano nella realtà.




Nella sala del processo è ospitata una collezione di monete di notevole interesse. Osservare le monete, da quelle bizantine  alle normanne, a quelle angioino-aragonesi, infine a quelle borboniche dei vari periodi e a quelle murattiane, è come sfogliare le pagine storiche fondamentali vissute dall’Italia meridionale.



 Uscendo da questa sala, si passa  sulla terrazza che si apre sul golfo di Sant’Eufemia, che rapisce per la sua immensità, mentre volgendo lo sguardo, si può ammirare la piazza di Pizzo, un  salotto brulicante di gente che passeggia spensierata o sta comodamente seduta ai tavolini  dei bar mentre gusta il celebre “tartufo” di Pizzo, la specialità gelatiera che rende questo paese famoso anche all’estero.
Riprendiamo il cammino: le montagne degradano rapide verso il mare, sicché i paesi sorgono su più livelli, a terrazze, come  Pizzo e Scilla.
 Scilla è  un faraglione aspro su cui è arroccato il castello-fortezza dei Ruffo, oggi adibito  a location di lusso per party e matrimoni. Giù, il borgo di viuzze e piccole barche colorate messe a riposare.
Girare nella Magna Graecia ci fa rivivere i miti di cui ci siamo nutriti negli anni grazie ai nomi evocatori che qui si intrecciano. Come non pensare ad Odisseo, che, dovendo passare tra i due mostri, preferì avvicinarsi a Scilla?



La bella ninfa, dopo essere stata trasformata in mostro dalla gelosa maga Circe, divorava i naviganti con le sue tante bocche, mentre Cariddi  succhiava l’acqua del mare per  risputarla  tre volte al giorno con tanta violenza da far naufragare le navi di passaggio. Comunque Odisseo finì nel gorgo di Cariddi, salvandosi fortunosamente, e se più tardi Enea riuscì a passare indenne attraverso lo stretto di Messina, è solo perché Scilla  fu trasformata nella roccia che vediamo oggi.

Anche Reggio è costruita su più livelli, al punto che hanno realizzato un tapis roulant stradale per agevolare la popolazione, che si muove tra il primo baluardo costruito nel Regno delle due Sicilie, il castello aragonese (dove Garibaldi e i patrioti reggini innalzarono il tricolore il 21.08.1860), e il lungomare odoroso di gelsomini e di acqua salmastra, passando per il piano intermedio, che accoglie tra l’altro il più vasto edificio sacro dell’intera regione, il monumentale Duomo, riedificato in stile neo-romanico dopo il disastroso terremoto del 1908.


Tre nomi rappresentano in sintesi la storia antica di Reggio, città fondata dai Greci nel 730 a.C. , e pesantemente  devastata dai turchi nel 1594: il Leone di Nemea (lo stemma della città), San Paolo, e i Bronzi. Il famoso leone sconfitto da Ercole durante una delle sue dodici fatiche sta a significare non solo che il semidio sarebbe stato qui, nell’antica colonia greca di  Rhegion, ma soprattutto che la popolazione gli  era molto devota, come del resto lo erano – assieme al culto del toro (basti pensare agli etimi di Taurianova e Gioia Tauro) - i Sanniti e  diversi altri popoli  antichi.
  La risposta al mito è venuta dalla predicazione del Vangelo da parte di San Paolo, il quale, durante il viaggio da Cesarea a Roma nella primavera del 61 d.C. (Atti degli Apostoli, 28,13), provenendo da Siracusa approdò a Reggio. Sempre secondo la tradizione, l’approdo (ricordato da un cippo posto sulla spiaggia) avvenne durante i festeggiamenti in onore di Diana Fascelide. Si racconta che Paolo ottenne di parlare alla folla pagana festante fino a che fosse durata la fiamma di una lucerna posta su una colonna; ma avvenne che, consumatasi la fiamma, iniziò ad ardere la colonna di pietra, che con la sua luce consentì a Paolo di parlare alla folla fino al mattino.


Si deve dunque all’apostolo - considerato fondatore della Chiesa reggina e patrono dell’Arcidiocesi (dal 1980) - l’impianto sul suolo calabro della prima comunità cristiana, con a capo Santo Stefano di Nicea, che fu lasciato come primo vescovo della città dallo stesso Paolo, prima di ripartire alla volta di Pozzuoli.
I resti della colonna si conservano nel presbiterio del Duomo, e la raffigurazione del prodigio si ripete in diverse opere,  dalla formella del Portale destro fino al dipinto nella ricchissima cappella del Sacramento.
 Forse è proprio la simbologia della luce, insita nell’immagine antichissima della svastica, a spiegare l’apposizione di piccole croci uncinate dorate all’incrocio di tutte le travi del soffitto del tempio. In effetti il simbolo della svastica, risalente al 4000 a.C., si trova in iscrizioni e pitture dall’India all’America dei pellerossa, passando per la Cina, l’Asia Mesopotamica e la Grecia. Sempre dotata di un significato beneaugurante, collegato alla prosperità e al culto del sole, nelle Sacre Scritture ha preannunciato la venuta del Messia. Dal primo Novecento la croce uncinata, falsamente ritenuta tipica delle “razze” ariane, è stata assunta come emblema di movimenti antisemiti e dal 1933 come stemma del partito nazionalsocialista hitleriano.



Oltre al Duomo dedicato all’Assunta, vi è una testimonianza ancora più antica del culto per la Vergine: si tratta della chiesa degli Ottimati, situata accanto al castello. Prende il nome dalla congregazione dei nobili della S.S. Annunziata e fu eretta nel XII sec. per opera dei Normanni, i quali tenevano ad evidenziare la loro “nuova” fede. Ha subito nel tempo molte traversie, passando da un culto all’altro, e, di conseguenza, mutando alcuni tratti. Finché nel 1927 l’architetto Pompilio Seno adottò l’impianto bizantino preesistente che era stato demolito nel 1916, ed è sotto questa veste che la chiesa degli Ottimati si può ammirare oggi.
 Per giungere al museo percorriamo un buon tratto dello splendido lungomare, dove due targhe ricordano Ciccio Franco (l’esponente missino del “Boia chi molla!”) e Italo Falcomatà, il sindaco (dal 1993 al 2001, anno della morte prematura)  che si è battuto contro la ‘ndrangheta e che è riuscito a sbloccare i fondi del Decreto Reggio lungamente attesi per  risanare e  sviluppare il capoluogo.


 Si intravedono bei palazzetti storici molto decorati- come villa Zerbi – allineati dietro alla doppia infilata di palme slanciate e magnolie giganti che ombreggiano giardinetti e panchine. I passanti che interpelliamo si mostrano “preparati” sulle vestigia antiche  e meno antiche tra cui si muovono, sono rilassati e indugiano volentieri inoltrandosi senza risparmio nelle varie delucidazioni. Ci colpisce l’ospitalità e il calore dei reggini, ben lieti di prodigarsi in spiegazioni e informazioni. Sarà l’aria di festa, ma qui l’Expo, la crisi, gli sbarchi, sembrano un’eco lontana, non si vedono vù cumprà in giro con le loro cianfrusaglie stese, e  le famiglie fanno  lo “struscio” a frotte, gustando  distrattamente chilate di gelato.



La città  ne è piena, di gelaterie, poche invece le rivendite di alimentari, almeno qui al centro,  in compenso sono molti i negozi di abbigliamento, specie sul Corso Garibaldi; qui esiste ancora il Banco di Napoli e  resiste pure qualche insegna in francese, traccia del tempo che fu.  Sulla destra, oltre la striscia di mare color del vino - come dice Omero - è di scena la fantastica visione dell’Etna innevato e il profilo cinerino dei monti Peloritani alle cui pendici è adagiata Messina…Se allunghi un braccio, sembra di poter toccare il vulcano! 

Il museo nazionale  è allestito nell’imponente palazzo della Soprintendenza di Reggio Calabria che dà sulla piazza dedicata al deputato riformista Giuseppe De Nava. Nell’edificio, progettato dall’architetto Piacentini, che tanto lavorò durante il ventennio fascista,  attualmente i reperti esposti  sono davvero pochi, ma sono di grande interesse per quel che rappresentano: il piccolo Kouros di terracotta dai capelli rossi e ricci, del VI sec. A.C., si ritiene fosse una creazione locale, in quanto  Rhegion era sede di laboratori.



Poteva esse destinato come segnacolo per una tomba oppure come ex-voto donato ad un santuario. Ai due Dioscuri sorretti da Tritoni (V sec. a.C., provenienti dal tempio di Marazà di Locri) erano  devoti i locresi, i quali, secondo la tradizione,  erano stati guidati dai due gemelli figli di Zeus (venuti appositamente dal mare con l’aiuto dei tritoni)  per sconfiggere i crotonesi nella battaglia del fiume Sagra. Poi c’è un giovane cavaliere marmoreo sostenuto da una sfinge, anch’esso del V sec. a.C., scoperto a Locri.





 Ma eccoli, finalmente, belli e impossibili nella loro perfezione assoluta: i due fieri personaggi di bronzo, a cui possiamo accedere solo dopo l’obbligatoria sosta per la decontaminazione  nella sala-filtro, sono ben sistemati sulle basi antisismiche. L’emozione è profonda al pari dello stupore perché i due giganteschi guerrieri (alti circa due metri), denominati A e B, sulla cui “identità” gli studiosi si sono accapigliati offrendo le ipotesi più fantasiose, sembrano voler parlare, e pronti  per staccarsi dalla loro base. Rappresentavano delle divinità, oppure degli eroi come Achille e Aiace? Quest’ultimo era stato comandante dei Locresi di madrepatria durante la presa di Troia e oggetto di venerazione nella colonia magnogreca, quindi favorito rispetto al Pelìde . Gli artefici erano greci o artisti “locali”? Qualcuno ha fatto il nome di Fidia, o della sua scuola. Il più giovane, B, è “nato” una quarantina d’anni dopo, lo si capisce perché ha più rame rispetto ad A, e inoltre gli esperti, analizzando la forma del ginocchio, hanno decretato persino che l‘originale doveva soffrire di artrosi….



Sia come sia, questi due campioni lasciano tutti i visitatori attoniti, e mai paghi di contemplare la leggera torsione del dorso, i dettagli delle venature superficiali, delle unghie, la perfetta riproduzione dei volumi della muscolatura …. Si ipotizza che le statue siano state intenzionalmente nascoste per sottrarle alla distruzione imposta dalla cristianizzazione. Oppure sarebbero state sottratte durante il saccheggio di Locri Epizefiri compiuto nel 275 a.C. da Pirro re dell’Epiro (ricordato dalle fonti per aver spoliato dei suoi tesori il tempio  locrese di Persefone). Ma forse un naufragio della nave ha salvato questi capolavori dalla ingloriosa fine che probabilmente li attendeva a Roma, dove quasi sicuramente sarebbero stati sciolti nel fuoco - il bronzo è sempre stato un metallo molto richiesto. Queste, alcune delle ipotesi avanzate, ma  che il mare di Riace Jonica  li abbia ben custoditi fino al 1972, quando avvenne la scoperta, è una fortuna (per loro e per noi) su cui forse non ci si sofferma abbastanza: i Bronzi hanno attraversato i secoli nel silenzio degli abissi giungendo integri fino a noi.

 Foto del bronzo B



Dopo il terzo, incredibile restauro a colpi di endoscopie e gammagrafie che li ha “ sanati”, questi giovanotti che hanno i millenni sulle proprie spalle  sono offerti per l’eternità alla fama e alla meraviglia di noi uomini moderni, che, mentre siamo rapiti dalla loro altera, indifesa nudità, volgiamo - immancabilmente - il pensiero all’ideale greco di cui sono altissima espressione: la bellezza dell’uomo considerata quale proiezione dell’armonia dell’universo e componente essenziale della “virtù”, alla stregua delle capacità intellettive e morali.
Un pensiero purtroppo smarrito nel caos della nostra post-modernità dissipata e problematica.
Rita Frattolillo 2015© tutti i diritti riservati




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