di
Rita Frattolillo
Era
già da un po’ che volevo tornare a Trieste. L’unica volta che c’ero stata, una
ventina di anni addietro, e solo per poche ore, vi ero scesa dalla Carnia dove mi
trovavo per gli esami di Stato. Quell’atmosfera di naturale, elegante
accoglienza, l’aria di città mitteleuropea avvezza alla diversità etnica e culturale
mi avevano conquistata immediatamente. Ambiente che indubbiamente ha favorito fin
dall’Ottocento l’arrivo di importanti scrittori e artisti stranieri che nella
città vissero a lungo. Tra gli altri, Stendhal
fu console qui nel 1831, e Paul Morand, Rainer Maria Rilke, Vladimir
Bartol amarono questi luoghi, contribuendo ad allargare gli orizzonti
culturali e sociali dei triestini.
Causa
ed effetto, certamente, avevo pensato,
dell’attrazione esercitata da una posizione geografica doppiamente strategica
sia come terra di “frontiera” che come sbocco sul mare. Crocevia di culture e
religioni diverse, Trieste è stata infatti da sempre un punto d’incontro
di popoli, e sul suo territorio fin
dall’antichità sono convissute differenti etnie. La sua storia travagliata e intricata
è legata proprio all’insieme di tutte queste componenti, che di per sé
sarebbero positive: non hanno bisogno di
spiegazioni i problemi insiti in ogni terra di confine, e
su quelle alture ogni passo è impregnato
del sangue di coloro che l’anno difesa, con il proprio corpo e con le armi, da
attacchi, sconfinamenti e rappresaglie; per quanto poi riguarda la sua
invidiabile posizione sul mare, è risaputo che nel corso dei secoli l’impero
austro-ungarico prima e la Germania poi, per le loro ambizioni
espansionistiche, hanno cercato di ottenere il controllo sull’Adriatico
conquistandone, appunto, i litorale; la presenza di etnie diverse, infine, ha
comportato, da parte dei governi che si
sono succeduti, la messa in atto di politiche discriminatorie ora
prevalentemente antiitaliane, ora antislave - in ogni caso antidemocratiche -
con conseguenze disastrose facilmente
immaginabili. Il fascismo, ad esempio, esasperò l’italianizzazione forzata
degli slavi raggiungendo l’apice con la partecipazione all’invasione e allo
smembramento dello Stato jugoslavo: i confini italiani furono allora portati
oltre Lubiana.
I MONUMENTI E L’IRREDENTISMO
Oggi, girando per strade e piazze, si può
ammirare il monumento a Sissi, amata dal popolo benché moglie dell’
“Impiccatore” Francesco Giuseppe, e
quello allo sfortunato Massimiliano
d’Austria, e ti sorprendi di incontrare, a passeggio come cittadini
qualunque, le statue bronzee di Umberto
Saba,
James Joyce e Italo Svevo, personalità che hanno
permeato di sé la cultura del Novecento. A Joyce, che aveva eletto Trieste a
sua città, tanto lo aveva stregato, e a Svevo, che qui era nato e vissuto, sono
stati anche dedicati due musei, che sono frequentati centri di documentazione e
studio. Tuttavia, attraverso la
toponomastica e i monumenti che la raccontano, solo in parte è possibile
leggere quanto è costato a Trieste poter issare il tricolore italiano.
Tricolore che la romana, antica Tergestum ha voluto con tutte le sue forze, e
che ha ottenuto, a prezzo di enormi sacrifici di sangue. E dicevo della
toponomastica. Quella relativa ai letterati si ferma per lo più ai toscani (Dante, Machiavelli, Vasari, ecc.),
come se non esistesse nulla, nella Penisola, più giù della Toscana,
constatazione che – devo ammettere - non mi ha fatto piacere; e proprio al “toscanaccio” Giosuè Carducci è intitolato uno dei viali più lunghi della città; ma pour cause, in quanto l’autore delle Odi Barbare aveva alzato la sua voce
contro Francesco Giuseppe chiamandolo senza mezzi termini “l’imperatore degli impiccati”
per aver rifiutato la grazia a Guglielmo
Oberdan, l’irredentista triestino che aveva organizzato un attentato contro
l’imperatore, e che per questo, arrestato a Ronchi - città divenuta simbolo dell’irredentismo - fu giustiziato il
20.12.1882. Ma Carducci non si era limitato a questo; infatti aveva fondato nel
1889 con altri intellettuali la Società Dante Alighieri per tenere alta la
bandiera degli irredentisti. In effetti qui gli eroi immortali sono
essenzialmente tre, Cesare Battisti
(giustiziato il 12.07.1916), Guglielmo
Oberdan e Nazario Sauro
(giustiziato il10.08.1916), tre campioni dell’irredentismo che per la Patria
hanno sacrificato la vita. Nazario Sauro, di Capodistria, era tenente di
vascello di complemento, e da pilota compì una sessantina di missioni su unità
siluranti; oltre che nelle operazioni belliche, la sua figura emerge anche
perché nella sua breve vita si distinse per la generosità d’animo, portando il
suo aiuto in tutta la Penisola. Infatti
si impegnò nei soccorsi durante il terremoto della Marsica del 1915, come
testimonia la lapide voluta dal Comune
di Avezzano; finanziò la bonifica del
litorale barese, e per questo gli è stato intitolato un tratto del lungomare di
Bari. Per le sue imprese una galleria del monte Pasubio porta il suo nome, come
pure il sottomarino S518. Superfluo aggiungere che un suo bel monumento si può
ammirare sulle rive di Trieste. Davanti a quel mare, di cui un secolo e mezzo fa
circa, il 18.06.1861, la romantica Carlotta,
ignara dell’atroce destino che l’attendeva, scriveva estasiata al suo Max: “ si
ode il mormorio, e si vedono passare le barche dei pescatori che solcano le
onde azzurre…”.
Come è nato l’irredentismo? Per
spiegarlo, occorre tornare al clima rovente che si respirava dopo l’Unità
“mutilata”della Nazione. All’indomani della vittoria di Bezzecca – in cui ottenne
la medaglia al VM per le ferite riportate
il valoroso isernino Ferdinando
Formichelli, figlio di Enrichetta, paragonata
per il suo coraggio ad Adelaide Cairoli
- che apriva a Garibaldi la strada per Trento, l’armistizio intervenuto tra
Austria e Prussia portò al ritiro dei
garibaldini dal Trentino (9.08. 1866) e alla
cessione (23.08.1866) del Veneto e del Friuli all’Italia. Seguì un lungo
periodo di pace, fino al 1914. Purtroppo Trento e Trieste, il Goriziano e
Aquileia, pur rivendicate dal Regno d’Italia, erano ancora sotto il dominio
austriaco. Si sviluppa così ulteriormente
il movimento irredentista, che era nato negli ultimi decenni del XIX secolo. Il
termine “terre irredente” fu usato per la prima volta nel 1877 dall’esponente radicale Matteo Renato Imbriani (Napoli, 1843- S.Martino Valle Caudina 1901)
quando, di fronte alla tomba del padre, il letterato apostolo della libertà Paolo Emilio, giurò fedeltà e impegno
per la liberazione delle terre dal dominio dell’Austria. Imbriani fondò quindi
l’Associazione dell’Italia irredenta ottenendo l’appoggio di Garibaldi, del romagnolo Aurelio Saffi, di Carducci e
di Felice Cavallotti, politico e
scrittore che aveva combattuto al fianco dell’eroe dei due mondi. Nel 1913 si
registrò un fatto che ridiede fiato al movimento: la condanna a cinque anni di
reclusione dello studente triestino Mario
Sterle per aver difeso la memoria di G. Oberdan e i decreti del governatore
di Trieste, principe Hohenlohe
suscitò reazioni in tutto il Paese, rendendo più combattivo l’intero movimento
nazionalistico. Era la vigilia del conflitto mondiale e in questo scenario le
posizioni irredentiste giocarono un ruolo importante nello scontro tra
interventisti e neutralisti.
TRIESTE E IL NAZISMO
Proprio
la forte e diffusa esigenza d’indipendenza e l’indomita aspirazione alla
libertà nazionale e sociale che da sempre costituiscono il modo di essere di
queste popolazioni (è lunghissimo l’elenco dei martiri per la libertà, di
qualunque fede religiosa o politica, di qualunque estrazione sociale) hanno purtroppo accentuato la ferocia repressiva
da parte dei nazisti.
Malgrado
se stessa Trieste detiene un sinistro primato nazionale: è l’unica città con
un campo di “smistamento” provvisto di
forno crematorio. Niente a che vedere, dunque, con i campi organizzati nel
resto della Penisola, come, ad esempio, i numerosi campi di detenzione messi su
dai nazifascisti nel Molise, che sembrano degli alberghi al confronto con la Risiera di San Sabba, divenuto monumento nazionale nel XX anniversario della
Liberazione (25.04.1965).
L’8
.09. 1943, con l’annuncio dell’armistizio, iniziava la guerra civile italiana.
Il Paese era spezzato in due, a Sud gli anglo-americani già sbarcati
controllavano il territorio, al Nord la presenza di ingenti truppe tedesche
favorì il sorgere della repubblica sociale di Salò guidata da Mussolini;
contemporaneamente si formavano i movimenti di liberazione nazionale. Dal
Piemonte al Friuli, dall’Emilia alla Lombardia, nacque il movimento partigiano.
I CLN ebbero il compito di promuovere e dirigere la lotta contro fascisti e
tedeschi. Questi ultimi, nell’area friulana, realizzarono con le province di
Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume la “Zona d’operazioni Litorale Adriatico”
con a capo un commissario (Gauleiter)
nelle cui mani erano concentrati tutti i poteri civili, militari, giudiziari e
amministrativi. Di fatto, tutte le autorità italiane furono poste sotto il
comando tedesco. In questo quadro si inserisce la trasformazione, da parte
degli occupanti tedeschi, degli stabilimenti per la raffinazione del riso
costruiti nel 1913 nel rione periferico
di San Sabba a campo di concentramento e sterminio provvisto di forno crematorio. Si accede alla
Risiera, battezzata dai nazisti Stalag 339, dal civico 5 di via Giovanni
Palatucci, che - come indica la targa -
fu “Questore di Fiume – Giusto tra le nazioni. Dachau 10 febbraio 1945”.
Mancanza di luce e di spazio, questa era la prima, pesante punizione, inflitta
a chi veniva ammassato qui, nel tetro Polizeihaftlager. Nelle minuscole, squallide
celle, ho visto fino a tre tavolacci per lato, dove i detenuti riuscivano ad
allungarsi a stento. E il forno che come essiccatoio era servito a pelare il
riso, fu trasformato per bruciare migliaia di oppositori al regime nazista. Ma
prima vollero provarlo (4.04.1944)
con i 70 cadaveri fucilati poco prima al poligono di Opicina. Quando i tedeschi scapparono, lo fecero esplodere per non
lasciare prove dei crimini, nella notte tra il 28 e il 29.04. 1945. Innumerevoli
le targhe “alla memoria” apposte di anno in anno sui muri del campo. La
poetessa Ketty Daneo in memoria del
fratello che lì venne recluso ha scritto: “Fiamme dai figli morti/ s’alzano
come ali /d’angeli superstiti”. Le donne di Trieste ricordano: “Quale monito
agli immemori per la nostra libertà qui caddero madri spose sorelle”.
Che
fossero appartenenti alla resistenza
italiana, sloveni, croati o ebrei, studenti, sacerdoti o madri di famiglia, non
faceva nessuna differenza. E i treni che fino al 1943 avevano scaricato nella
vicina stazione ferroviaria i sacchi di riso da raffinare, ora scaricavano intere
famiglie di detenuti rastrellati per ragioni razziali in tutto il territorio, da
Lubiana a Treviso a Venezia e Padova: gay, zingari, ebrei, dirigenti dissidenti,
oppositori politici, semplici sospettati di attività sovversiva. Da lì venivano
deportati nei campi di concentramento e sterminio, quando non se ne perdevano
le tracce. Scomparivano soprattutto i disgraziati destinatari del “Programma
Eutanasia” (in sigla T4), cioè tutte le persone considerate dai medici nazisti minorate
fisiche o mentali. Il cardinale Clemens
August Von Galen inutilmente condannò con durezza la pratica dell’eutanasia
che lo Stato germanico organizzava, eppure ci fu chi, tra i 174 testimoni al
processo iniziato il 16.02.1976 alla Corte d’Assise di Trieste, come l’
interprete della Risiera, Augusta Reiss,
ebbe il cuore di affermare che “non c’era un forno crematorio, ma una semplice
caldaia da riscaldamento (istruttoria del 3.04.1970). Alla fine del processo,
che condannò i responsabili degli eccidi,
Simon Wiesenthal - che ha speso la vita a dare la caccia ai responsabili
della follia nazista - dichiarò: “Sarà sempre la giustizia a vincere. Anche se
i mulini della giustizia macinano lentamente”.
TRIESTE E LA PRIMA GUERRA
MONDIALE
I palazzi più decorati, che ricordano quelli
di Vienna e anche di Lubiana – perché gli Asburgo si affidavano agli stessi
architetti – affacciano sul salotto “buono” di Trieste, la bellissima piazza
aperta sul mare, piazza Grande, che oggi si chiama piazza Unità d’Italia. E’ stata
questa la cornice dei momenti
d’importanza capitale che hanno scandito la storia di Trieste, del suo
territorio, e di tutta la nazione, come lo sbarco italiano che avvenne il
3.11.1918, segnando ufficialmente il
termine della prima guerra mondiale. Guerra che per noi si era svolta soprattutto
all’interno dei confini friulani, in Trentino e sulla linea che va dal Garda a
Pieve di Cadore.
Chiamato
a combattere gli austriaci sul fronte friulano c’era il soldato Giuseppe Ungaretti, che nei suoi versi
denuncia l’assurdità del conflitto, trasmette l’orrore della guerra, la pietà
per i commilitoni morti, e, sopra a tutto,
la prepotente voglia di vivere:
Veglia (Cima Quattro, 23.12. 1915)
Un’intera nottata /buttato vicino/
a un compagno/massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio/
con la congestione / delle sue mani / penetrata/ nel mio silenzio / ho scritto
/ lettere piene d’amore./ Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita.
Dopo che, tra il monte Grappa e il
Piave, avevano sfondato e sbaragliato definitivamente l’esercito imperiale
austriaco, i nostri soldati entrano a Vittorio Veneto, segnando così la fine di
sette secoli di storia austro-ungarica. Il sogno di G. Oberdan si era
finalmente realizzato. Alla Conferenza di Pace di Parigi (19.01. 1919-
10.08.1920), l’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige, Trieste, l’Istria e
Zara. Ma rimase in sospeso la questione della città di Fiume, e purtroppo “i
risultati del conflitto prefigurarono con trattati di pace assolutamente
improvvidi gli sconvolgimenti successivi, letali per il ruolo politico della
vecchia Europa” (Il Friuli Venezia Giulia, vol.II, TCI, 2006, p.262). Con il
trattato di Rapallo (12.11.1920) Fiume fu finalmente proclamata città libera. In totale, sui campi di battaglia erano rimasti
quasi 10milioni di soldati morti, 21 milioni di feriti e mutilati, mentre il totale delle spese
belliche ammontava a 600miliardi di dollari (12 volte il reddito degli Usa nel
1916). L’Italia aveva perso 650mila vite e registrò 470mila processi per
renitenza alla leva, 70mila furono i processi contro civili per reati militari.
Questo il prezzo pagato dall‘Italia per ampliare il suo territorio da 287mila a
310mila chilometri quadrati e per incrementare la popolazione da 36,1 a 38,8
milioni di abitanti.
Quello
storico giorno del 3.11.’18, alle quattro del pomeriggio, gruppi di cittadini
in vedetta sui tetti inclinati delle case annunciano a una folla immensa
accalcata sotto la pioggia in piazza Grande e lungo le rive l’arrivo del cacciatorpediniere “Audace”, che
decreta ufficialmente la fine del conflitto. Dopo l’attracco al molo San Carlo,
il generale Carlo Petitti, pizzo e
barbetta, con un colpo secco di tallone pronuncia le parole fatidiche: “In nome di S.M. il re d’Italia prendo
possesso della città di Trieste”; un marinaio grida “Trieste all’Italia!”, e dona
il nastro del suo berretto a una donna del popolo. E’ Maria Bergamas, che rappresenterà a Roma tutte le madri dei Caduti
ignoti all’Altare della Patria.
La
toponomastica è molto avara in fatto di nomi femminili, ne ho contati in tutto
quattro, fra cui il nome di Cecilia de
Rittmeyer. Questa baronessa ha meritato tale privilegio perché, nello
spirito del mecenatismo protestante, lasciò una munifica donazione alla città
allo scopo di erigere un istituto per ciechi, istituto effettivamente eretto
nel 1913, giustamente intitolato alla
mecenate, e tuttora funzionante. Sul molo, nel bacino di San Giusto, vedo le
statue di due sartine sedute, che agucchiano in attesa dei loro uomini dal
mare.
E’ bella e apprezzabile questa immagine di donne pensose, che aspettano
senza trascurare il loro lavoro. Ma le donne, in particolare quelle friulane,
hanno dato prova di ben altro, e all’occorrenza si sono sacrificate con grande
coraggio, mostrando sensibilità e spirito di iniziativa. Senza temere le
conseguenze hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo. Durante i primi anni della
Grande Guerra molte di loro, chiamate “portatrici”, hanno fatto la spola per
portare da mangiare ai soldati intrappolati nelle trincee scavate nelle montagne dagli uomini
reclutati tra le fasce più povere della popolazione. In Carnia, zona strategica
vitale per impedire il transito agli austriaci attraverso il passo Monte Croce Carnico e il Fella, erano stati dislocati ben 31
battaglioni italiani con il compito di impedire eventuali cedimenti della linea
difensiva. Ma era difficile, per l’orografia del territorio, provvedere
quotidianamente al rifornimento delle truppe che, all’inizio, contavano tra i
10mila e i 12mila uomini. Non si poteva fare affidamento su carri o veicoli
motorizzati, e c’era bisogno di uomini che, sacco in spalla, dovevano
raggiungerli. Ma la guerra si dilungava e gli uomini si dovevano impegnare al
fronte, non potevano fare da portantini. Il comando militare chiese allora
aiuto alle popolazioni locali, dove però erano rimasti solo vecchi e bambini.
E’ allora che le donne di Paluzza,
rendendosi conto della gravità della situazione, per prime, si mettono a
disposizione del comando militare: il loro esempio è presto seguito da molte
altre nell’intera regione. Dal 1915 al 1917 furono circa 1500 le donne che
prestarono aiuto per il Servizio trasporti e tappe dell’esercito. Dotate di un
bracciale rosso di riconoscimento su cui era stampato il numero del reparto dal
quale dipendevano, con la gerla sulle spalle, portarono pesi che arrivavano
fino a quaranta chili, su dislivelli che andavano dai 600 ai 1200 metri di
altitudine. Il loro aiuto fu preziosissimo: nel solo 1916 fu necessario far
arrivare al fronte 70mila quintali di derrate alimentari e 150mila litri di
acqua, 1000 quintali di munizioni. Di età compresa tra i quindici e i
sessant’anni, partivano la mattina con la gerla carica, affrontando sentieri
dove neanche i muli potevano arrivare, e, giunte a destinazione, consegnavano
tutto, ritiravano gli indumenti da lavare, e poi via per tornare a casa, dove
li aspettavano nonni e bimbi da accudire, mucche da mungere, campi da falciare.
All’alba successiva, stesso copione, fino a quando non erano colpite dai
cecchini austriaci. Come Maria Plozner
Mentil, uccisa il 15.02.1916 mentre riposava con l’amica Rosalia di Cleulis. Aveva 32 anni. Ebbe
un funerale con gli onori militari, e, dapprima sepolta a Paluzza, fu traslata
nel ’34 solennemente nel cimitero di Timau, dove nel 1992 le è stato eretto un
monumento che ricorda la sua eccezionale impresa. Il Presidente O.L. Scalfaro
le ha concesso nel 1997 la medaglia d’oro al VM, un riconoscimento esteso
simbolicamente a tutte le eroiche “portatrici” della Carnia.
Dopo
due anni e mezzo di conflitto di posizione, in cui gli eserciti si erano
massacrati in una serie di battaglie - passate poi alla storia come “le
battaglie dell’Isonzo” - per conquistare
un monte o una valle, i soldati erano stremati. La tregua concessa da Cadorna si rivelò disastrosa, perché nel frattempo gli
austriaci, aiutati dai tedeschi, tra i quali il giovane tenente Erwin Rommel, la futura “Volpe del
deserto”, iniziarono la tragica offensiva contro le nostre guarnigioni
attestate a Caporetto (24 ottobre-9 novembre 1917). Spezzato in due il fronte
difensivo italiano, i soldati, allo sbando, furono costretti alla ritirata
prima sul Tagliamento e poi sul Piave. Qui riuscirono ad avere ragione
dell’espansione austriaca. Il primo passo verso la rivincita sull’Austria
risale proprio a quel novembre, con la
nomina del generale Armando Diaz in
sostituzione di Luigi Cadorna, che organizza la resistenza, aumenta il vitto e
rinnova l’equipaggiamento. Si giunge all’anno decisivo, e l’esercito italiano,
guidato da Diaz, conquista Trento e Trieste. La conclusione della guerra fu
dunque vista come il compimento dell’epopea risorgimentale, avendo raggiunto
finalmente l’obiettivo di una vera unificazione nazionale. Di sicuro, le
atrocità della guerra, lo sconforto e la malinconia per la casa e la famiglia
lontane ebbero un ruolo insostituibile nell’unire tutti gli italiani, quelli
del Nord, del Centro e del Sud, che, malgrado la torre di Babele dei dialetti
diversi, e le differenti tradizioni, sul fronte, davanti allo spettro della
morte, con la paura nel cuore, riuscirono ad amalgamarsi e a fraternizzare. E
se Diaz poteva proclamare : “I resti di quello che fu uno dei più potenti
eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano
disceso con orgogliosa sicurezza”, la “Leggenda
del Piave” sgorgata nel 1918 dalla vena poetica dell’autore di “Santa Lucia
luntana”, e di “Pampuglie”, E.A. Mario (pseudonimo del musicista napoletano Gioviano Gaeta, 1884-1961), esprimeva
così bene il comune sentire da diventare
ben presto inno patriottico molto popolare. Eccone i versi:
E IL PIAVE MORMORO’
Il Piave mormorava /calmo e placido
al passaggio/ dei primi fanti il 24 maggio./ L’esercito marciava/ per
raggiunger la frontiera/ e far contro il nemico una barriera…/ Muti passaron
quella notte i fanti/ tacere bisognava e andare avanti!/ S’udiva intanto dalle
amate sponde,/ sommesso e lieve il tripudiar dell’onde./ Era un presagio dolce
e lusinghiero,/ il Piave mormorò:/ “Non passa lo straniero!” / Ma in una notte
trista/ si parlò di un fosco evento/ e il Piave udiva l’ira e lo sgomento…/
Ahi, quanta gente ha vista/ venir giù, lasciare il tetto/ poi che il nemico
irruppe a Caporetto!/ Profughi ovunque! Dai lontani monti/ venivano a gremir
tutti i suoi ponti!/ S’udiva allor dalle violate sponde/ sommesso e triste il
mormorio de l’onde:/ come un singhiozzo in quell’autunno nero,/il Piave
mormorò:/ “Ritorna lo straniero!” E ritornò il nemico/ per l’orgoglio e per la
fame,/volea sfogare tutte le sue brame…/Vedeva il piano aprico/ di lassù voleva
ancora/ sfamarsi e tripudiare come allora…/ “No”disse il Piave, “No” dissero i
fanti,/ “Mai più il nemico faccia un passo avanti!”/Si vide il Piave rigonfiar
le sponde,/ e come i fanti combattevan l’onde./ Rosso del sangue del nemico
altero,/il Piave comandò:/”Indietro va straniero!” Indietreggiò il nemico/ fino
a Trieste, fino a Trento/ e la Vittoria sciolse le ali al vento!/ Fu sacro il
patto antico,/tra le schiere furon visti/ risorgere Oberdan, Sauro,
Battisti…/Infranse, alfin, l’italico valore /le forche e l’armi
dell’Impiccatore!/Sicure l’Alpi, libere le sponde…/ E tacque il Piave: si
placaron l’onde…/ Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,/ la Pace non trovò/
né oppressi, né stranieri.
TRIESTE E LA FINE DELLA
SECONDA GUERRA MONDIALE
E’ ancora il mare lo scenario della “seconda redenzione” di Trieste, celebrata,
il 4.11.1954, con l’ “Amerigo Vespucci” accanto ad altre unità della Marina
militare italiana; lungo la Riva i mezzi blindati dell’esercito applauditi
dalla folla, come documentano le foto d’epoca, sono in parata al cospetto del
Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Dopo le tre occupazioni straniere
susseguitesi nell’arco di 11 anni, è stato nuovamente issato il tricolore, che
sventola su uno dei pili più alti di piazza Unità. Tra queste due date, 1918 e
1954, c’è la rivendicazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio,
l’ideologia nazionalista fascista di confine, la snazionalizzazione degli slavi
residenti nella Venezia Giulia (che
aveva ricevuto questo nome dall’eminente glottologo goriziano G. I. Ascoli nel
1863), con la soppressione delle scuole, degli organi di stampa slavi,
l’italianizzazione dei cognomi, il potenziamento delle strutture economiche
italiane a svantaggio di quelle orientali. Una sciagurata politica
nazionalistica che avrà come inevitabile conseguenza, tra le minoranze slave, la
crescita di un odio profondo nei confronti del regime e rafforzerà la tendenza
a creare divisioni etniche sul piano sociale. Tensioni e odi che esploderanno
con il crollo del regime fascista e la fine della seconda guerra mondiale. Sta di fatto che dopo quegli orrori e quegli
sfregi indescrivibili, un’altra pagina
di crimini orrendi, quello delle foibe, viene scritta, questa volta dalle
truppe titine contro migliaia di soldati e civili colpevoli solo di essere
cittadini italiani. Il luogo simbolo di queste stragi, è la foiba di Basovizza,
un campo aperto e desolato dove aleggia ancora la morte e il vento sembra
echeggiare le grida degli innocenti infoibati con indicibile crudeltà in quei
profondissimi anfratti naturali scavati nel terreno carsico che fino ad allora
erano stati utilizzati dagli abitanti solo come discarica naturale.
Intanto,
si profilavano anche altre questioni, come il desiderio di autonomia del Friuli:
il 19 gennaio 1947 il docente di Storia delle tradizioni popolari Gianfranco
D’Aronco fondava il Movimento Popolare friulano, sostenuto, tra gli altri, da
Pier Paolo Pasolini, allo scopo di sostenere la causa autonomistica del Friuli
contro la soggezione alla regione del
Veneto. Le manifestazioni del Movimento ebbero grande eco giungendo fino a
Roma, dove finalmente i membri della Costituente accettarono, dopo accesi
dibattiti, l’idea di una nuova regione a statuto speciale che comunque sarebbe
arrivata ben quindici anni più tardi.
Sono scolpite nel marmo le
parole che sintetizzano gli eventi sanguinosi e l’indomita fierezza della
gente triestina:
Città medaglia d’oro al VM per
essere stata “fieramente partecipe coi figli migliori alla lotta per
l’indipendenza e per l’unità della Patria;(…) questa volontà suggellava col
sangue e con l’eroismo dei volontari della guerra 1915-18. In condizioni
particolarmente difficili, sotto l’artiglio nazista, dimostrava nella lotta
partigiana quale fosse il suo anelito alla giustizia e alla libertà che
conquistava cacciando a viva forza
l’oppressore. Sottoposta a durissima occupazione straniera, subiva con fierezza
il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare
attivamente il suo attaccamento alla Patria. Contro i trattati che la volevano
staccata dalla Madrepatria, nelle drammatiche vicende di un lungo periodo di
incertezze e di coercizioni, con tenacia, con passione, e con nuovi sacrifici
di sangue ribadiva dinanzi al mondo il suo incrollabile diritto d’essere
italiana. Esempio inestinguibile di fede patriottica, di costanza contro ogni
avversità e di eroismo”. 1915-18, 1943-47, 1948-54.
LA TRIESTE MODERNA
Capoluogo
giuliano dal 1962, e città più
densamente abitata del Triveneto, Trieste - che oggi vanta anche un settore
avanzato di ricerca scientifica e uno di
Fisica Teorica - è classificata da “Il
sole 24 Ore” tra le prime per la qualità della vita, ma è anche in testa alle
classifiche per anzianità della popolazione. Popolazione che oggi, oltre agli
autoctoni italiani e slavi, conta numerosi gruppi etnici minoritari storici (croati,
sebi, greci, tedeschi) e altri di recente insediamento (arabi, albanesi,
romeni, cinesi, africani, sudamericani). Durante il ventennio fascista gli slavi abitanti nel
comune furono costretti ad abbandonare la città, mentre la florida comunità
ebraica che esisteva prima della seconda guerra mondiale si ridusse a causa
delle persecuzioni naziste, cambiando la fisionomia etnodemografica della cittadinanza.
Altro mutamento dopo il 1954, quando, con la fine del TLT (Territorio libero di
Trieste, considerata città stato indipendente sotto la protezione
anglo-americana, chiamata zona A, distinta dalla zona B, che invece era la
costa istriana, sotto l’esercito jugoslavo) che era stato decretato a Parigi
nel 1947, oltre 20mila abitanti, spinti da motivazioni economiche e politiche,
emigrarono in Australia, Canada, Sudamerica. La chiusura di aziende importanti come
la Stock, le birrerie Dreher, e poi dei cantieri navali San Marco contribuirono
al trasferimento di ampi strati di popolazione altrove alla ricerca di lavoro.
Ma il fenomeno migratorio, all’inizio a carattere pendolare, che aveva
interessato in particolare la Carnia, è di vecchia data, e risalirebbe
addirittura alla prima metà del Quattrocento, quando in autunno e in
inverno i carnici abbandonavano i loro
paesi per trasformarsi in ambulanti, commerciando spezie, erbe medicinali,
tessuti, ai veneziani, ai triestini e agli austriaci. Erano chiamati cramars, termine di origine tedesca che vuol dire droghiere, merciaio. In
seguito le decine di migliaia di emigranti giuliani e veneti che dalla seconda
metà dell’Ottocento lasciavano i propri paesi d’origine per cercare lavoro
furono chiamati “Terroni del Nord”. Esemplari le storie raccontate da Carlo
Sgorlon sulle avventure dei muratori friulani chiamati in Russia per la
costruzione della colossale Transiberiana sul finire dell’Ottocento. Ma non
solo. Gli operai carnici e friulani si distinsero nella costruzione del Canale
di Panama, della Moschea Blu di Istanbul, del Municipio di Vienna. Forse
proprio immedesimandosi nella nostalgia di casa che quegli operai emigrati avranno sofferto, Umberto
Saba ha scritto:
“Avevo una città bella
tra i monti rocciosi e
il mare luminoso”.
©Rita Frattolillo
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