di Rita Frattolillo
(nella foto con il pittore)
In effetti le sue parole, oltre a riflettere perfettamente il coinvolgimento empatico dell’artista, descrivono anche la ridda di sensazioni che prova chiunque si ponga davanti a quei segni taglienti che portano alla superficie immagini emergenti dal profondo, perché le voci di dentro di Pettinicchi sono così intense e forti da annullare il diaframma tra creazione e spettatore, per gridare una partecipazione emotiva a cui è impossibile sottrarsi. Scorrere con lo sguardo le incisioni esposte evidenzia, oltre all’evoluzione della tecnica e dello stile, la diversa scelta dei soggetti rappresentati. Infatti si nota come nei primi anni le realizzazioni abbiano attinto a piene mani nel mondo contadino, nei volti abbrutiti dalla miseria e dalla “fatìa” degli uomini e delle donne del Codacchio, una contrada segnata da un disagio sociale entrato come topos inesauribile d’ispirazione nel mito personale del pittore. Dal 1957 in poi, la produzione incisoria in esposizione si è come allontanata dai soggetti umani, che erano resi con duri contrasti chiaroscurali, per concentrarsi sugli ondulati paesaggi molisani, che via via sembrano perdere l’iniziale, dominante componente geometrica per acquisire la suggestiva, indefinibile silhouette di qualcosa che si intravede tra la nebbia o sotto i fili di una sottile pioggia. La sezione pittorica della mostra, che apre uno spiraglio sul Gruppo ’70 (costituito, oltre che da Pettinicchi, da Walter Genua, Lino Mastropaolo e Augusto Massa), raccoglie una selezione dei lavori dell’ultimo dodicennio, e vanta degli inediti (del 2008 e 2009). Pur se offre una testimonianza alquanto parziale della costellazione figurale maggiormente cara all’Artista, avvolge per il magnetismo del racconto pittorico, che, attraverso il flusso fantasmagorico e allucinato dei colori accesi, esprime con forza “i silenzi ossessivi dei controluce del mattino inoltrato o le notti piene di incubi e di cose remote lungo i burroni e le crepe di questa terra” che il Maestro tanto ama, anche perché nelle cose che gli stanno davanti “c’è il reale, il surreale, e l’essenziale”. Di fatto qualunque oggetto privilegiato dalla sua tavolozza, anche se il più delle volte è anonimo, umile, come La sella (2002), sembra non possedere una forma propria, ma assume quella che la luce impietosa, a cui nulla si può sottrarre, trapassandolo, gli attribuisce. Di quadro in quadro ci si immerge nel Pantheon dell’Artista, proiezione possente di una tensione estrema straordinariamente vitale che, emergendo da profondità abissali, cattura le coscienze con il suo inconfondibile linguaggio dalla texture smagliante o livida, impasto di immagini cupe o solari, timbri di colore tempestosi. Immersa in questa luce tutta particolare, che rende l’aria sospesa, e dilata gli spazi, ogni particolare si carica di un profondo significato affettivo. Ma dove la capacità dell’A. di sondare, scarnificare, radiografare raggiunge il massimo, è nella introspezione psicologica (celebri gli Autoritratti), che è magistralmente assecondata dalla pennellata ansiosa, aspra o placata, a rendere lo sguardo azzurrino del pittore che dalla parete impietoso ci scruta, e, mentre fruga dentro ognuno di noi, ci comunica l’angoscia dell’esistere e le risonanze tragiche del sopravvivere, sconfiggendo sia pure per poco le nostre vanità.
Il significativo titolo della mostra Lui è
il Molise è tratto da un pensiero di Armando De Stefano, maestro e compagno
di studi d’Accademia, il quale del Nostro ebbe a dire che “la sua terra ce l’ha nel sangue, nel pennello”. Parole che si
attagliano alla perfezione a Pettinicchi, ma proprio per questo noi ammiratori ci
saremmo tutti aspettati un coinvolgimento diretto e concreto da parte delle
istituzioni regionali e provinciali, che
avrebbe reso più tangibile ed effettivo il dovuto omaggio a un uomo che per
tutta la vita, con la sua arte
straordinaria, ha fatto conoscere la propria terra al resto d’Italia e al mondo.
Infatti basta scorrere la biografia del Maestro per rendersi conto di quanto
possa pesare - ai nostri occhi - l’incomprensibile quanto colpevole indifferenza
di chi gestisce la cosa pubblica, e in particolare dovrebbe curare il settore
cultura. Proprio nell’intento di rinfrescare la memoria a qualcuno, ripropongo
le note apparse, nel 1998, in Molisani, Milleuno profili e biografie (ed
Enne), a firma di chi scrive e di Barbara Bertolini.
Formatosi al liceo artistico e all'Accademia di belle arti di
Napoli, Antonio Pettinicchi (Lucito, 1925) rientra nel Molise e si dedica
all'insegnamento di materie artistiche, stabilendosi definitivamente a Campobasso.
All'attività di docente ha affiancato quella di incisore (è socio da molti anni
dell'Associazione degli incisori veneti), producendo numerosissime opere, di
cui alcune ispirate a famosi romanzi meridionalisti, come Le terre del
Sacramento di F. Jovine. Intensissima l'attività di pittore, che svolge
disdegnando qualunque forma di sperimentalismo. Ha sempre rifuggito, infatti,
da quelli che egli definisce «artifizi, cioè cartoni, legno o altro, appiccicati
su un supporto, ché nulla hanno da spartire con la pittura vera». Nel 1952
partecipa a quattro edizioni della Quadriennale nazionale di Roma (dalla VI
alla IX, tra il 1952 2e il 1965). E’ presente
alla XXVIII Biennale internazionale di Venezia (1957) e a sette edizioni della
Biennale Nazionale della Grafica Contemporanea di Venezia (dal 1955 al 1967). Si
moltiplicano le sue partecipazioni a mostre collettive e personali in Italia e
all'estero: Lubiana nel '57; Varsavia nel '59; Bruxelles nel '60; Leiden nel
'65; Berlino nel '65 e nel '70; Città del Messico nel '70; Rabat, Casablanca,
Tangeri, nel '71; Parigi nel '72; Mosca nel '74; Firenze nel '76; Lussemburgo
nel '78. Nel 1970 fa parte del Gruppo ’70, con Walter Genua, Lino
Mastropaolo e Augusto Massa. Ha vinto molti primi premi di grande rilievo, sia
come incisore che come pittore e sue opere sono custodite ai civici Musei di
Lucca, Vicenza, Ascoli Piceno, Modena, alla raccolta A. Bertarelli di Milano, alla
Galleria d’Arte Moderna di Roma, al Museo Pusckin di Mosca, nella raccolta
disegni e stampe degli Uffizi di Firenze. Nel 1987 ultima il grandioso ciclo
pittorico de La Divina Commedia. P. è stato capace «di un impegno
totale, duro, proteso alla salvaguardia della propria irrinunciabile identità,
non piegata al sistema. Tale ricerca sofferta, maturata e sorretta nel rigore e
nella severità di una estrema coerenza morale pagata spesso con l'oblio e
l'isolamento – ha scritto Giorgio Trentin - si è tradotta nella identità
perfetta dell'artista con l'uomo, e dell'uomo di cultura con il cittadino impegnato
nella difesa e nella battaglia per le proprie scelte. La profondità della sua
visione trae il proprio alimento quotidiano, oltre che da vicende personali
drammatiche, dalla consapevolezza della realtà storica della sua terra, intrisa
di secolari miserie, dolori, ingiustizie e umiliazioni, a cui l'artista è
visceralmente attaccato. Tale visione si concreta, da una parte, nella tensione
emotiva di una denuncia e di una condanna accorate, nella solidarietà totale
alle vicende degli umili e dei diseredati, dall'altra, nell'incrollabile
fiducia nei valori perenni di libertà, dignità e giustizia, e quindi fiducia
nelle possibilità che ha l'individuo di fuoriuscire dal tunnel della schiavitù.
La sua arte testimonia così, con un linguaggio straordinariamente intenso,
dinamico e trasfigurativo, le vicende umane delle terre martoriate del Sud,
l'antica e tragica storia del Molise e delle sue montagne duramente scolpita
nel volto emaciato, corroso dalle fatiche dei contadini e dei derelitti» . La
visione di P., che non è mai illustrativa, ha una grande energia organica:
irradia colore come se ubbidisse a pulsioni determinate da un peculiare ritmo
interno, quasi circolatorio, dove i personaggi appaiono come lievitati,
stemperati nello spazio, colti nei loro momenti più drammatici e vitali. Il flusso cromatico, ha osservato Dario Micacchi, «va a coagularsi in
situazioni, figure, oggetti e in uno spazio magmatico costruito a seconda dello
stato d'animo. Nella struttura dell'immagine, pur nella sua incandescenza e violenza,
v'è sempre un fortissimo elemento ordinatore, ed è la luce, da quella dolce e
sognante a quella riverberante e incendiaria».
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