sabato 12 febbraio 2011

SORELLE D'ITALIA, IL RISORGIMENTO AL FEMMINILE NEL MOLISE

Una certa idea del Risorgimento si è alimentata, oltre che con il mito dei padri fondatori, con il vissuto dei vari eroi di penna e di spada. Tutti conosciamo, per fare qualche esempio, le opere “risorgimentali” di A. Dumas e Stendhal che, affascinati dalla penisola e dai suoi fermenti fin quasi ad adottarla, l’hanno attraversata in lungo e in largo, filtrando negli scritti, assieme alle loro dirette esperienze, le chiavi storico-letterarie di quel tempo; allo stesso modo tutti sappiamo degli eroi senza frontiere, come lord Byron, che è andato a morire in Grecia per difenderla, come il napoletano Alessandro Poerio, caduto in difesa di Venezia insorta contro gli austriaci, o come i veneziani fratelli Bandiera, che hanno trovato la morte in Calabria.

Ma delle madri fondatrici − e delle eroine −, che notizie?
Eppure, sono esistite, e non solo nella finzione letteraria, non solo l’appassionata Vanina Vanini creata dalla feconda penna di Stendhal e riproposta da Rossellini nell’omonimo film del 1956.

Donne vere, in carne ed ossa, a cominciare dalla “madre fondatrice” Cristina Trivulzio di Belgioioso. E continuando con mogli e compagne coraggiose, come Teresa Casati, che si piegò fino a chiedere la grazia per il marito Federico Gonfalonieri, seguendolo di carcere in carcere fino alla fine, o come Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane nella lotta, nelle traversie e nella miseria.

Oppure come la giornalista inglese Jessie White, che, inviata del Daily News, si innamorò dell’Italia fino a dedicarsi attivamente alla causa dell’Unità. Sposa del garibaldino Alberto Mario, che aveva conosciuto in carcere, fu la biografa di Mazzini e Garibaldi.

La più fortunata perché più conosciuta, non solo per la sua personalità di outsider, ma soprattutto grazie al cognome acquisito, è stata Anita Ribeiro Garibaldi, l’unica – mi risulta − ad essere ricordata con monumenti a lei dedicati. Nessuna meraviglia, dal momento che le poche donne passate alla storia scritta devono quasi sempre la loro notorietà allo stretto grado di parentela con i grandi uomini. Un nome per tutti, Maria Drago, madre di Mazzini.

Ma essere patriota, per una donna, era davvero troppo, addirittura inconcepibile, tant’è vero che pure chi ha tratto vantaggio dall’aiuto e dalla collaborazione femminile spesso ha mancato di sensibilità e comprensione. E come se non bastasse, di solito, sulle protagoniste è scivolato un persistente silenzio. I libri tacciono, le celebrazioni pure, salvo qualche eccezione. Un tale destino è toccato, per esempio, alla milanese Cristina Trivulzio (1808-1871), che Carlo Cattaneo chiamava a ragione “la prima dama d’Italia”. Scrittrice, raffinata intellettuale, patriota, filantropa, fondatrice di un gran numero di giornali politico-culturali, arrivò a rallentare l’avanzata austriaca nei giorni della rivoluzione milanese facendo arrivare da Napoli 200 volontari, e, durante la repubblica romana (1849), su incarico di Mazzini, riuscì a far funzionare ben dodici lazzaretti pieni di militari feriti. Lungimirante e innovativa, fondò sulle sue terre i primi asili d’infanzia, scuole elementari e istituti professionali per i figli dei contadini.

Anche se profondamente convinta dalla sua esperienza personale che coraggio ed istruzione non fossero perdonati alle donne, Cristina orientò verso i più alti ideali un temperamento non mortificato dall’educazione ricevuta, e fece parte di quel gruppo di scrittrici che nell’Ottocento parteciparono attivamente alla vita culturale e politica, pagando di persona con l’esilio, nella lontana Turchia, dove visse di giornalismo e agricoltura.

Eppure, il suo spirito patriottico era unito alla difesa della morale e all’amore per la famiglia, come dimostra la linea del suo giornale Il Nazionale, fondato nel ’48 a Napoli, che appoggiava il liberalismo, ma invitava anche le donne a coltivare le proprie qualità senza abbandonare il ruolo tradizionale.

E’ su questo giornale che scrisse la moglie dell’astronomo campobassano Antonio Nobile, Giuseppina Guacci, la cui penna fonde cronaca e idee politiche.

Ebbene, malgrado tali doti eccezionali, V. Gioberti parlava della marchesina Cristina come di una donna che aveva dimenticato “il riserbo e la verecondia”.

Manzoni, oltre a rifiutarsi di scrivere sul giornale della Trivulzio in quanto retto da una donna, non vedeva di buon occhio la sua “mania di diffondere l’istruzione tra i suoi contadini”. Qualcun altro, infine, la considerava una esibizionista desiderosa di notorietà, a cui piacevano le “sceneggiate”.

Ma se l’emancipato ambiente lombardo tratta con tanta ipocrita albagia Cristina, quale scompiglio avrebbe creato nel chiuso mondo molisano una donna che avrebbe rotto gli schemi?

Anzitutto, c’è da tener presenti le difficili condizioni storiche e ambientali delle nostre piccole realtà locali, che hanno indubbiamente tardato a far acquisire, maturare ed esprimere la condivisione e l’adesione ai nuovi ideali di libertà e indipendenza.

Infatti c’è da chiedersi se - e in che misura – erano permeati questi nuovi ideali, e solo dopo chiedersi quante donne avrebbero trovato il coraggio di mettere in gioco la propria reputazione per l’adesione alla causa. Questo punto è particolarmente importante, perché bisognava essere più che motivate per sfidare il giudizio della comunità, un giudizio il cui peso era inversamente proporzionale all’angustia del centro abitato.

E non erano al riparo dalle malelingue neanche i ceti più elevati, come dimostrano le “chiacchiere” che hanno continuato a gettare ombre per la sua condotta di “ape regina” – anche dopo che era morta − sulla baronessa Olimpia Frangipani, promotrice e animatrice del club giacobino politico − culturale di Castelbottaccio, il cui esempio rimane purtroppo isolato.

Pur tuttavia, forse malgrado i silenzi della Storia sarà possibile individuare delle portatrici d’acqua della causa risorgimentale, seguire un fil rouge che leghi donne coraggiose come Olimpia e madri eroiche come Maria Concetta Quici, vissute nel periodo glorioso e sfortunato della repubblica partenopea, con altre, sconosciute protagoniste di quello che viene chiamato il Risorgimento invisibile.

Consultare i documenti del 50ennio preunitario custoditi presso l’Archivio di Stato di Campobasso potrà forse essere utile nel far emergere nomi di donne in odore di Carboneria, quelle che in gergo erano chiamate “giardiniere”; perché no, in fondo a fondare la prima sezione della Carboneria nel 1821, a Milano, era stata proprio una donna, Bianca Milesi.

O forse, scavando negli archivi privati messi a disposizione dalle famiglie liberali molisane, si avranno delle sorprese. Sembra poco credibile che figlie, mogli o sorelle dei vari Magliano, Bucci, Musacchio, Baccari, de Gennaro, de Luca, Ricciardi, si siano sempre accontentate di stare dietro alla porta chiusa dalle convenienze, malgrado i fermenti in atto nei momenti di svolta.

Non possono essere state tutte contagiate dal quieto vivere, dalla pace domestica e comunale, non possono essere rimaste sorde davanti al miscuglio esplosivo che comunque si era innescato. E siccome “à la guerre comme à la guerre”, è assai verosimile che alcune di esse abbiano affiancato gli uomini di casa incoraggiandoli, sostenendoli, o dando alloggio e preparando vie di fuga ai latitanti, ai “riscaldati” sospettati dalla polizia borbonica. Vedremo….
Rita Frattolillo


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