L’allestimento di un museo della
guerra - progettato per esaltare la pace dopo la tragica morte di un eccentrico
raccoglitore di armi e documenti “scottanti” - getta lampi di luce su squarci
di esistenze sconosciute e impensabili che si intersecano sotto cieli e tempi
diversi. I cannoni arrugginiti, le carlinghe sfondate, le vecchie baionette, ma
anche armi esotiche come il macuahuitl (una mazza di legno ferrata usata come sciabola e arma da punta in uso
presso gli Aztechi e tutti i popoli della mesoAmerica), tutti attrezzi che la
curatrice del nascente museo, Luisa - madre ebrea incenerita a San Sabba e
padre sergente afroamericano morto a Trieste - deve allestire nelle diverse
sale, aprono scenari su storie piccole e grandi
che la coinvolgono in una strana misteriosa rete.
Se quelle armi riecheggiano vicende di soldati eroici
o vili, spioni e delatori, se rimandano a storie di schiavitù, di streghe, di conquistadores, di predatori, se
rievocano leggende con l’odore di terre lontane, sirene e tesori, raccontano anche fiabe e canti infantili. Che
risvegliano nella mente di Luisa con il bagliore dei flash ricordi di un
passato drammatico, a tratti misterioso, e riscrivono la lacunosa storia della
sua lontana omonima “nera di pelle, bianca di cultura, caraibica per destino,
madre di meticci”, divenuta preziosa informatrice di tesori nascosti all’epoca
di Ponce de Leon.
Il dolore inaridito della madre della curatrice, un
atroce dubbio irrisolto, fanno da contrappunto a momenti di un’infanzia felice
vissuta da Luisa all’ombra delle favole colorate di esotismo raccontate dal
padre, un uomo rievocato con profonda nostalgia.
Questo
labirintico romanzo, percorso da brandelli di vicende diverse e lontane tra
loro - in cui spiccano le guerre tribali dei Chamacoco e dei Caribi e la
catastrofe dell’ultimo, patetico conquistador
Massimiliano d’Asburgo - è l’occasione per Claudio Magris per esternare
amarissime riflessioni sulla follia della guerra - di tutte le guerre - , la quale non è altro
che una delle suppurazioni sprigionate dal sottosuolo millenario della Storia.
Storia che “è
una discarica di rifiuti”, “un tumore inoperabile”, perché le vicende tragiche
che si ripetono ciclicamente non hanno mai insegnato nulla al genere umano, il
quale continua a infiammare il mondo e ad alimentare la propria follia.
Città
civilissima di tradizione austriaca e italiana vicina al cuore di Magris,
dapprima come fondale, poi sempre più netta e presente nelle pagine, appare
Trieste, colpevole di detenere il
devastante record di unico campo
di sterminio di tutta l’Italia.
Infatti l’innocua Risiera di San Sabba, divenuta
orribile luogo di morte, mattatoio mefitico di cui si sente ancora l’acre
odore nell’aria, è stata “una prova
generale dell’inferno”.
Sono proprio i nomi dei delatori scritti sui muri
dalle vittime – e copiate dal collezionista - a infestare i sonni di certa
gente, che cerca affannosamente quei documenti, in quanto libri dell’accusa, del Dies Irae, per poter
seppellire definitivamente la verità della Risiera e le proprie colpe.
Quella verità che è “una mina”, perché “comincia col
distruggere gli altri e finisce per distruggere se stessa”.
D’altra parte dopo le morti e le distruzioni, la
“pace” ritrovata costringe a porre sullo stesso piano vinti e vincitori,
torturatori e torturati, delatori e vittime, partigiani e nazisti: la società
ricostituita sulle macerie vuole cancellare in fretta e una “medaglia non si
nega a nessuno”, neanche al più vile traditore.
Ma il collezionista muore nel rogo del capannone in
cui dormiva (omicidio?), tra le fiamme
spariscono i preziosi taccuini, e con essi vengono meno le prove di un
auspicabile processo collettivo.
Come se non bastasse, sui muri della Risiera una mano
di calce provvidenziale fa sparire tutte le scritte incriminanti, quindi
niente processo: Non luogo a procedere, niente è accaduto.
Il martirio della città sgretolata e polverizzata tra
tedeschi, fascisti e titini, dove gli uccelli sono così spaventati dagli spari
che stridono più forte degli spari, è raccontato mirabilmente, con un piglio
distaccato, radiografico, e allo stesso tempo drammatico.
Con limpidezza
voltairiana Magris osserva il fiume di sangue che chiamiamo Storia, dove nulla
si salva, eccetto il racconto del dolore che la cattiveria dell’uomo è capace
di infliggere da sempre ai suoi simili.
Non luogo a procedere è tanti libri: un libro contro la guerra, contro la
Storia, contro il tentativo - troppo spesso riuscito - di cancellare la
Memoria. Di spegnere persino il ricordo di chi se ne è andato con la violenza.
Il tentativo di togliere di mezzo persino la consapevolezza di ciò che si è
fatto.
Ma se la Storia deraglia e precipita quasi sempre - e
quello di Magris è un grido di dolore e di rabbia contro l’ottusità di tutte le
guerre, con il loro carico di irresistibile pulsione di morte - pure non
mancano uomini con la schiena dritta, eroi, come il vescovo Antonio Santin, che
ebbe il coraggio di apostrofare il Duce
quando venne a proclamare le infami leggi razziali proprio a Trieste, lo stesso
che difese il suo “gregge” in ogni modo, arrivando a trattare con titini e
tedeschi per non far saltare il porto.
La lettura di Magris ti riconcilia con la buona
scrittura, risveglia la voglia di giustizia, ed è come un tuffo in un mare
profondo da cui ogni tanto hai bisogno di emergere per galleggiare sospeso
nella vastità del suo pensiero.
Che va dritto al disvelamento della verità sulla
storia della Risiera di San Sabba e alla cognizione della corresponsabilità di
tutto il genere umano per ogni massacro che accade. Perché la “zona grigia”,
dice Magris, non esiste.
Rita Frattolillo © Tutti i diritti riservati 2016
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