di Rita Frattolillo
Nel cuore di Milano, nella silenziosa
ed elegante via della Passione fiancheggiata da begli edifici in stile tardo
neoclassico si erge, severo e imponente, Palazzo Archinto.
Dal grande portale aperto si nota, al centro del cortile d’onore, la statua bronzea, eseguita
dall’allievo di Antonio Canova Angelo Pizzi, che ritrae Napoleone nella posa e nelle vesti di antico romano.
Non avrebbe mai potuto immaginare, il conte Giuseppe Archinto
che lo fece costruire, che il cortile
del suo sontuoso palazzo sarebbe stato
un giorno dominato dalla statua di Napoleone, l’uomo simbolo dei principi
libertari che egli osteggiava.
Un affronto, per lui, talmente filoasburgico da aver inserito nel
suo stemma l’aquila bicefala!
Ma non avrebbe neanche lontanamente immaginato, il conte, che
i magnifici interni avrebbero assistito alle vicende storiche più eterogenee.
Infatti le sale decorate con tanta dovizia risuonarono non solo della musica ammaliante del
violino e dell’arpa, strumenti suonati
con passione e maestria da entrambi i padroni di casa.
Quelle sale avrebbero nel periodo postunitario accolto le
timide educande del Collegio reale, i feriti durante la Grande guerra, ospitato
gli studenti dell’università statale dal 1942 al 1956, e infine la scuola
statale (aperta ai maschi dal 2008) intitolata
dal 1986 a Emanuela Setti Carraro, assassinata dalla mafia con il marito generale Dalla
Chiesa e con la scorta.
In muta contemplazione davanti a Napoleone mi chiedo se i fortunati studenti che passano le
loro ore scolastiche tra affreschi magnifici, arazzi ispirati ai cartoni di
Giulio Romano, stucchi e statue, quadri di valore, camini scolpiti, porte
decorate, pavimenti musivi, che godono degli spazi di un parco enorme e di campi
sportivi ombreggiati da alberi secolari, sanno perché sono accolti ogni mattina
dallo sguardo severo dell’imperatore Bonaparte.
La spiegazione - buona per tutti - arriva dall’interessante
mostra fotografica allestita al primo piano, che ripercorre la vita
dell’educandato fin dalla sua istituzione.
Oltre alle foto ufficiali, siamo attratti dai documenti
d’epoca in bella mostra: i registri del corredo delle educande contengono
l’inventario dei capi di abbigliamento richiesti, tra cui spiccano, per la grafia
svolazzante e accurata, “busti, reticelle, grembiuli, camicie, sottane,
pannilini, paia di calze”. Lì accanto, il registro del personale docente e
quello delle disposizioni statali.
Quest’ultimo è aperto su un capitolo nero della nostra storia,
quello riguardante le leggi razziali: nel 1938 è trascritto l’allontanamento dall’insegnamento
della prof. di francese ebrea Marcella Dreyfus, nata a Milano il 12-07-1898.
Un cognome famoso, il suo, se si pensa all’affaire Dreyfus,
che infiammò la Francia di fine Ottocento (1894), e vide schierati dalla parte
del capitano ebreo gli altisonanti nomi di Proust e di Zola con il suo
“J’accuse!”
La risposta determinante ce la dà la gigantografia del Decreto napoleonico che nell’anno
di grazia 1808 istituiva l’educandato “Collegio reale delle fanciulle”.
Articolo dopo
articolo, quel Decreto codifica la volontà dell’uomo che, durante la sua breve
dominazione nella Repubblica Cisalpina, in qualità di “imperatore dei francesi, re d’Italia e Protettore della
Confederazione del Reno” decise l’istituzione di un Collegio reale delle
fanciulle “ destinato alle figlie di coloro che avevano reso importanti servigi
alla carriera delle armi e delle magistrature.”
Milano, allora
capitale del regno d’Italia, fu il luogo
scelto per avviare l’esperienza di questo educandato d’élite che intendeva
proporsi come modello di altre analoghe strutture educative per ragazze.
Si trattò di un
progetto formativo molto moderno che specificava i principi e i valori
dell’azione educativa che doveva essere “utile e distinta”. I docenti avrebbero
dovuto inculcare i “principi della religione e della morale, dell’economia
domestica, del ricamo”, e insegnare le lingue italiana e francese,
l’aritmetica, la geografia, la storia, la musica e il disegno. Non mancava
nulla, per la formazione di una dama completa, neanche la danza.
Apprendiamo che all’inizio il Collegio venne ospitato nell’ex
convento di S. Filippo, finché, nel 1865, il Ministero della Pubblica
istruzione del neoproclamato Regno d’Italia gli concesse una sede prestigiosa: Palazzo Archinto.
Il quale non era stato
certo costruito per ospitare un Collegio, seppure di notevole reputazione, ma
per soddisfare l’ambizione del conte Giuseppe (1783-1861), desideroso di avere
una nuova dimora consona al prestigio sociale ed economico della sua famiglia e
una degna collocazione per le importanti collezioni d’arte del ricco
patrimonio.
A questo scopo, il conte nel 1833 diede incarico
all’architetto Gaetano Besia (1791-1871) di progettare il nuovo palazzo, deciso
a lasciare la precedente dimora in via Olmetto, malgrado quest’ultima vantasse addirittura dipinti di Giambattista
Tiepolo (1696-1770). Il nuovo edificio, alzato in soli quattro anni, è a pianta
rettangolare e si sviluppa su tre piani, intorno a tre cortili, di cui uno
d’onore e due di servizio, con a fianco un ampio colonnato per le scuderie (diventato
refettorio per gli studenti).
La facciata posteriore
si apre sull’enorme giardino all’inglese.
Malgrado il palazzo sia stato più volte trasformato e
restaurato in seguito alle diverse destinazioni d’uso cui è stato temporaneamente adibito, alcuni ambienti interni del palazzo si sono
conservati nel tempo senza sostanziali alterazioni.
Già la magnifica
scalea racchiude tesori di una tale
sontuosità che non è difficile credere
che le aspettative del conte furono soddisfatte, ma a prezzo tanto alto che il
figlio del conte, Luigi (1821-1899), per far fronte all’erosione delle risorse
finanziarie, fu costretto a vendere sia il palazzo che le preziose collezioni.
Giriamo da una sala all’altra affascinati, ognuna è uno scrigno
di rara magnificenza: la sala pompeiana,
abbellita dagli affreschi dell’architetto parigino Auguste Thumeloupe,
gareggia per splendore con quella della musica, che oltre agli stucchi mirabili
del soffitto, attrae per il camino neo-cinquecentesco fiancheggiato dalle
statue eseguite da Raffaele Monti, e con la sala delle sei leggiadre ballerine,
ispirate alle figure del vasellame rinvenuto nella Pompei seppellita dalla lava del Vesuvio. Ma è
la chambre à coucher che ci riserva
un’ ultima, grande sorpresa: scopriamo che la padrona di casa, la contessa
Archinto, era nientemeno che Cristina Trivulzio, figlia della contessa Beatrice
Serbelloni Trivulzio e omonima della “madre della Patria” risorgimentale Cristina
Trivulzio di Belgioioso, la nobildonna immortalata da Hayez e amica di
Stendhal, la patriota amica di Mazzini che tanto operò per liberare il
Lombardo-Veneto dagli Asburgo, noleggiando persino le navi per spedire volontari nel Regno di Napoli.
Ma si vede che nel
sangue delle Trivulzio scorreva il sangue della ribellione, della libertà, se Cristina,
che appena ventenne nel 1819 aveva
sposato Giuseppe Archinto, con cui condivideva l’amore per l’arte e la musica,
se ne allontanò per contrasti politici: se lui simpatizzava per gli austriaci,
lei nutriva gli stessi ideali di Silvio Pellico (1789-1854) e agognava la liberazione dal dominio
austriaco.
Trasmise quegli ideali
al figlio Luigi, che per aver
partecipato alle barricate delle Cinque giornate (1848), interruppe i
rapporti con il padre.
Silvio Pellico - che era rimasto folgorato dalla contessina già
la prima volta che l’aveva intravista,
quel fatale 1819 - la rivide solo nel
1836, e i due si ritrovarono addirittura 11 anni dopo.
In quegli anni si fantasticò parecchio sulla presunta
“simpatia” tra il poeta- scrittore-patriota di Saluzzo e la contessina; fatto
sta che nel 1847 uscì a Torino una raccolta di poesie di Cristina dedicata al
Pellico.
La lettura di certe lettere dell’Archivio Archinto ha
permesso recentemente di confermare quella che fino a qualche anno fa era
soltanto una diceria: lo stesso anno della pubblicazione delle poesie i due si
erano sposati senza troppo sfarzo, una cerimonia sicuramente tardiva, a suggello
di un amore che - a quanto pare - malgrado le difficoltà aveva resistito agli
anni.
Chissà quei muri con lo scorrere degli anni quanti sospiri
d’ansia della contessina hanno accolto, mentre la dama pensava al suo
spasimante o quando, in preda all’ispirazione e alla nostalgia, gli dedicava
i suoi versi…..
Rita Frattolillo © Tutti i diritti riservati 2016
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