Rita Frattolillo

Lo scrittore
polacco Wlodek Goldkorn, che attualmente vive a Firenze dopo aver
lasciato la Polonia nel 1968, è autore di diversi saggi sull’ebraismo e
sull’Europa centro-orientale. Per anni responsabile culturale del settimanale
“l’Espresso”, è una voce conosciuta nel panorama culturale italiano; ha
intervistato scrittori importanti, premi Nobel, artisti, e ha narrato molte
storie, ad esclusione di quella sua. La storia di un bambino, nato nel 1952 da
genitori ebrei militanti comunisti sfuggiti
nel 1939 agli orrori delle seconda guerra mondiale, che è cresciuto nel vuoto
di una memoria familiare – quella delle deportazioni e degli eccidi di sei
milioni di ebrei – indicibile ma impossibile da dimenticare. Diventato nonno,
però, Wlodek si trova di fronte al dilemma di come trasmettere ai bambini la
memoria di un passato inenarrabile, temendo
di non saper rispondere alle loro
domande sul loro essere ebrei, sulla
Shoah, sui perché – tutti esecrabili - di vicende tanto orribili.
Ecco perché 50 anni dopo ritorna là dove era nato e aveva trascorso la sua
infanzia, a Katowice (antica capitale della Slesia, terra delle miniere e
dell’acciaio), per ritrovare la memoria del suo passato inabissato dall’apocalisse
del conflitto mondiale, e mai rivissuto nel ricordo. Adesso, dunque, lascia
Firenze e si accinge al grande viaggio nella speranza di trovare le risposte
che cerca. Rivedendo strade piazze e il grande immobile dove viveva con la sua
famiglia, emerge alla soglia della mente l’intreccio degli affetti familiari e
amicali, smembrati dalla folle violenza
dei campi di concentramento. Si ricompone così il mosaico dei volti e delle
voci scomparsi dalla memoria: i compagni di scuola, gli amici d’infanzia, di
cui alcuni, non sopportando la vita, si sono in seguito suicidati.
Percorrere
quei luoghi gli fa tornare a galla brandelli di esistenze difficili, squarci di
vicende sofferte e laceranti, generazioni di giovani promesse annientate dalla
vita. I ricordi, inizialmente frammentari, a poco a poco ricostruiscono
l’atmosfera, gli eventi, i personaggi che hanno dato il senso alla sua vita,
restituendo al lettore la “vera” - se si può dire così - realtà di quanto
accaduto durante la “soluzione finale” in cui trovarono la morte molti suoi
familiari, tra cui l’adorata nonna Taube, l’unica di cui l’A. porta la foto nel
portafogli.
Il formidabile tema della memoria,
declinato in tutte le sue sfaccettature, torna, quasi angoscioso leit-motiv, in
molte pagine dell’assorto romanzo, che non è soltanto romanzo, trattandosi di una fitta ragnatela in cui trovano
posto profonde, imperdibili riflessioni,
e dove rivivono i gesti, i momenti, le storie della famiglia e di personaggi
come Marek Edelman, suo maestro di vita.
Quel vuoto va “riempito con una sostanza, un misto di emozioni e di
razionalità che chiamiamo memoria. Salvo il fatto che la memoria è un’invenzione
(…) ognuno se la costruisce come vuole”. Per cui “ la memoria non è né può
essere condivisa da un’intera generazione, in quanto strumento politico e
scelta esistenziale. Riguarda ognuno di noi, personalmente”.


Davanti agli occhi della mente
riemergono quindi, in questo gioco della memoria, episodi della quotidianità
intrecciati ai grandi eventi storici del secondo dopoguerra, come il processo
di Francoforte (1963, P.M. Fritz Bauer) contro alcuni degli aguzzini di
Auschwuitz, e apre spiragli sulle
dinamiche socio-politiche dell’Est Europa.
Intraprende - senza paura di spingersi nel buio più nero
del Novecento - questo pellegrinaggio doloroso che lo porta in tutte le zone
dove erano stati costruiti i campi, anzitutto Auschwuitz, che l’A. considera il
cimitero di famiglia, perché è lì che sono stati inghiottiti nel buco nero
della Storia quasi tutti i suoi cari, nonni, zie, cugine, gli eroi e tante
altre vittime della tragedia.
La domanda che più lo travaglia è quale
valore dare alla memoria, che se non serve a “rivendicare i torti patiti, a
chiudersi in un recinto della propria comunità”, è buona per farne un uso
poltico, nel senso che per lui “la memoria significa (…) dare l’allarme quando
sento odore del razzismo”.

Il bambino nella neve è molto più di un
romanzo, perché l’A. si fa carico di ricostruire, ricorrendo a sequenze discontinue, la Storia della Polonia, della sua gente- in
particolare ebrea -, dei suoi poeti, dei suoi attivisti, dei suoi esponenti
politici, della sua lingua, e anche qui – quando, ad esempio, parla dell’yiddish
e della polonizzazione linguistica - sono pagine scritte da un intellettuale
fuori dal comune che aprono scenari inusitati di grandissima, lancinante
riflessione.
Una
dopo l’altra si susseguono le “visite” in tutti i campi di concentramento e in
tutte le “fabbriche della morte”, quelle cioè dove gli ebrei scesi dal treno nel giro di due
ore erano già stati sterminati nelle camere a gas o nei forni creamatori.
L’impatto di chi legge è fortissimo perché, oltre ad arrivare a
conoscere “particolari” talmente raccapriccianti che la mente rifiuta di
accettarli, il registro linguistico deciso dall’A. – che guarda con amaro disincanto - rifugge
decisamente da quella che chiamerei la“
mistica” della Shoah, quell’aura di
sacralità che sempre circonda e incombe sull’ atroce genocidio degli ebrei.

E quasi fino alle ultime pagine il protagonista
è ancora quello che lui definisce”spazio
vuoto”, cioè la memoria. Eppure - afferma
Goldokorn – quei vuoti vanno riempiti, se no “che ci facciamo in questo mondo,
noi figli della Shoah?”

E proprio perché lui cerca di
“comprendere, non cede alla vendetta”, ecco il viaggio di ritorno: Cracovia,
Varsavia, Auschwitz, Belzec, Sobibor, Treblinka, in definitiva un viaggio nella
memoria –appunto – da ricostruire, ma anche da proiettare nel futuro. Un futuro
che per lui è ormai presente, e che vive con la forza morale di chi “non è
vittima, ma soggetto della storia, capace di rivolta e di discernere dove sta
l’essenza del “nostro essere al mondo”.
Rita Frattolillo © tutti i diritti
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