Rita Frattolillo
Delle numerose ondate migratorie che, spinte dalla
disperazione, dalla seconda metà dell’Ottocento hanno varcato l’oceano
spopolando il Molise e lasciando le donne ad affrontare da sole la difficile
condizione di vedove bianche, è rimasta testimonianza nelle lettere, scritte su
paginette di quaderno ingiallite dal tempo con mano malferma e in dialetto,
inviate dai nostri manovali e “artieri” ai familiari. Sono quelle povere frasi
sgrammaticate a gettare luce sugli aspetti crudi e duri della loro quotidianità
di emigrati.
Poi sono arrivati i Pietro Corsi (classe 1937) e i Giose
Rimanelli (classe 1926), emigranti di successo e prolifici autori, a creare,
direttamente in italiano o in inglese, l’epopea migratoria, scavando nelle
stigmate della propria identità lacerata.
Quindi c’è stato il passaggio ad autori di lingua inglese
come Nino Ricci (1958), che, pur appartenendo alla generazione nata
oltreoceano, hanno attinto, nelle loro creazioni letterarie, ai risvolti spesso
allucinanti dell’emigrazione, sull’eco tumultuosa di una tensione in bilico tra
il peso delle radici e l’esigenza di conoscere il proprio io.

Sicché l’uso dell’italiano si è
ridotto, quando non è scomparso del tutto, inequivocabile dato di una minore
diffusione all’estero dell’italiano quale lingua letteraria , sia pure di
nicchia.

Tale riflessione ha preso corpo
dopo la lettura – avvincente – del romanzo di Mary di Michele, canadese di
Lanciano, che, uscito con il titolo “Tenor of love”, è stato poi tradotto in
italiano da Gabriella Iacobucci con il titolo “Canto d’amore”.

Certo, anche Caruso è un emigrante, ma di lusso, uno che
giunge in America sull’onda della fama, uno che quando sente avvicinarsi la
morte, dopo 17 anni trascorsi in America mietendo successi, esprime il
desiderio di morire in patria.
Ma tutto finisce qui, anzi non sarebbe neanche
incominciato se la di Michele, durante un suo soggiorno italiano, non fosse stata affascinata dalla canzone
“Caruso” di Lucio Dalla, ascoltata per caso; da lì le ricerche sul grande cantante, di cui lei
non aveva mai neanche sentito parlare.
A me sembra che in “Canto
d’amore” il rapporto con le radici sia appena sfiorato, e anche la visione
dell’Italia che, nella finzione letteraria, emerge dalle parole della moglie di
Enrico Caruso, Dorothy, somiglia
parecchio a quella superficiale e approssimativa di certi turisti stranieri.

L’impressione, leggendo il
romanzo, è che il cordone ombelicale con la terra d’origine si sia per lo meno
allentato, e che la di Michele non
“senta” quel mal du pays per l’Italia come un figlio che se ne è dovuto
allontanare.
Se questo non è un caso isolato,
ma segnale di una mutazione, è sicuro
indizio di “crescita”: i figli e nipoti dei manovali e artigiani di una volta
hanno studiato, hanno salito i gradini della scala sociale e professionale,
affermandosi, e si sono integrati nel sistema.
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Gabriella Iacobucci e Giose Rimanelli |
Questo non può che essere motivo
di orgoglio per la capacità dimostrata
dai discendenti dei nostri emigrati di
essersi saputi inserire nella realtà in cui vivono, pur se il “salto”
dall’italiano all’inglese o francese significa, per noi rimasti nella
madrepatria, che potremo gustare la
nuova letteratura solo se e quando
tradotta.
Conseguenza di questa mutazione naturale
quanto ineluttabile è la trasformazione del ruolo del traduttore.
Fino a ieri intento
esclusivamente a rendere al meglio nella lingua di arrivo le sfumature e lo
spirito dell’opera originale, oggi è colui che, essendo spesso a contatto
diretto con i club degli ex emigrati, è
in grado di individuare, segnalare all’editore italiano e quindi introdurre da noi i nuovi scrittori
italo-americani.
E’ il caso di Gabriella Iacobucci, la “nostra” Fernanda
Pivano, traduttrice, tra l’altro, di
Frank Colantonio (“Sui cantieri di Toronto”), di Nino Ricci (trilogia raccolta
in “La terra del ritorno”), e della di Michele, da lei conosciuta ad un
convegno mentre la scrittrice aveva già cominciato a mettere mano a “Tenor of
love”.
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Da sx: G.Iacobucci e Nino Ricci |
Traghettare e diffondere la
letteratura italo-americana non è impegno da poco, ma ad esso se ne aggiunge un altro non meno importante,
perché può succedere che il testo originale contenga improprietà e
approssimazioni riguardanti, ad esempio, i nostri detti e le nostre tradizioni,
comprensibili in chi è nato e vive a migliaia di chilometri dall’Italia, e
che spetta al traduttore “raddrizzare”.
Forse perciò ancora oggi qualcuno dice traduttore-traditore, quando, piuttosto,
si tratta di portare una cultura dentro un’altra, senza travisarne nessuna.
C’è chi si è meravigliato nel
vedere comparire, in copertina, il nome
del traduttore.
Al contrario, trovo giusto che il
lavoro non facile e il ruolo ormai dilatato del traduttore trovino un
riconoscimento “ufficiale”, anche perché, sia pure su un piano diverso, egli,
rielaborando frase dopo frase un testo,
in un certo senso lo crea, e in definitiva è autore senza esserlo.
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