di RITA FRATTOLILLO
Una domenica mattina del lontano 1796 Gabriele Pepe, diciassette anni, si vestì con
più cura del solito. Si spazzolò la camiciola chiara col collo alto e il
pantalone alla francese aderente come
usava all'epoca, si passò il pettine tra
i folti ricci biondi.
L'occhiata rapida che lanciò allo
specchio prima di gettarsi sulle spalle il tabarro scuro, uscendo, gli rimandò
l'immagine di un giovane pallido -non si era ancora ripreso da quel dannato
intervento alla vescica - con le guance appena ombrate da un'incipiente
peluria. Tanta cura perché quella mattina era speciale: Gabriele sentiva di
essersi innamorato, ma sul serio; non
una cottarella giovanile, di quelle che passano presto senza lasciare segni, ma
un amore intero, completo, che gli levava il sonno. Si avviò in tutta fretta verso
il piazzale del castello Angioino, perché di lì a poco, come tutte le
domeniche, lei sarebbe passata,
accompagnata dai genitori, per andare alla messa solenne di S. Maria Maggiore.
Questo lato sentimentale viene fuori
solo leggendo il diario ̶ rimasto a lungo manoscritto e in parte
distrutto ̶ il Galimazias,
che Gabriele Pepe iniziò nel 1807 con l'intenzione di "buttarvi tutto
quello che mi veniva in testa di scrivere, avventure, osservazioni, varietà,
pensieri e delusioni", tra le mille difficoltà di uomo spasmodicamente
diviso tra Marte e Minerva, tra l’impegno delle strategie militari e il gusto
per i rovelli letterari.
I numerosi biografi del nostro grande corregionale
hanno giustamente speso fiumi di parole sull'uomo d'arme e sul patriota, col
risultato però che si ricorda di lui quasi soltanto il celebre duello sostenuto
nel 1826 con l'incauto poeta e uomo politico francese Alphonse de Lamartine
che, definendo l'Italia "terra di morti", aveva suscitato il
risentimento di Gabriele, il quale da allora si guadagnò il soprannome di "gallo italico".
Su Pepe uomo di lettere e autore
prolifico sembra invece essere calato un velo d'oblìo, evidentemente propiziato
dalla spettacolarità - e dall'uso politico - che si fece del duello a fini di
comprensibile propaganda nazionale. A quel che sembra, la politica-spettacolo
non l’abbiamo inventata oggi!
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Alphonse Lamartine |
E di questa sublime love-story del bel
Gabriele, un amore giovanile durato
testardamente tutta la vita, non si è mai saputo nulla.
Fatto sta che tra una pagina e l'altra
del Galimazias - vera miniera per chi
voglia avvicinarsi all'uomo - tra le fatiche delle guerre, i fuochi notturni negli
accampamenti, le peripezie dell'esule, affiora qua e là il ricordo struggente
di quell'impetuoso amore giovanile.
In data 1807 trovo questa confidenza:
"All'età di 17 anni una grande rivoluzione si operò in tutto il mio
essere, sia mediante la guarigione da una grave malattia (l'operazione alla
vescica), sia mediante l'Amore.
Cupido vibrò ad una tale età il suo
dardo: io ebbi la prima passione e l'unica, l'azione della quale risento ancora
dopo dieci anni, e probabilmente risentirò in tutta la mia vita".
Parole profetiche, poiché fino alla
fine dei suoi giorni lo accompagnerà il ricordo struggente di Luisa. Ma chi
era, in realtà, questa ragazza che gli era entrata con tanta prepotenza nel
sangue?
Sicuramente i due ragazzi, entrambi di
Civitacampomarano, si erano visti in una delle occasioni "canoniche"
dell'epoca, come l'uscita dalla messa o la
festa del Santo patrono; oggi sarebbe l'incontro in discoteca o la “vasca” per
il Corso.
Luisa De Marinis, tratti delicati,
bocca piccola e incarnato chiaro, aveva attirato immediatamente, e con
prepotenza, l'attenzione del giovane Gabriele. Il matrimonio poteva essere lo
sbocco naturale di quella passione profonda, ma le nozze che lui desiderava con
tutte le sue forze non avvennero né allora né dopo, perché De Marinis padre,
borbonico e conservatore come molti altri a Civita, non vedeva di buon occhio i
Pepe, che considerava rivoluzionari giacobini, ubriacati dalle nuove idee, come
del resto i loro cugini, i Cuoco.
Non per niente, doveva pensare il De Marinis,
la madre di Gabriele, Angelamaria, era la zia di quel Vincenzo Cuoco che faceva
tanto parlare di sé. Ma si sa, la malapianta delle novità attecchisce subito in
certa gente, che si riempie la bocca con parole grosse come libertà,
uguaglianza.. e Dio solo sapeva che altro si complottava nel salotto di Olimpia
Frangipani a Castelbottaccio. Ma – ragionava tra sé De Marinis - come poteva,
la baronessa, alimentare gli stessi ideali rivoluzionari che avevano fatto
cadere, neanche dieci anni prima, la testa di migliaia di aristocratici
francesi?
Valli a capire, i nobili!
Comunque, avevano fatto bene a dare una
lezione a quel senzadio di Marcello Pepe, mandandolo in galera a Lucera, perché
pure lui faceva parte della combriccola di Castelbottaccio.... anche se in
fondo gli dispiaceva per i sei ragazzi, già orfani di madre (Angelamaria, pace
all'anima sua, se n'era andata già da due anni).
Quel giovanotto che aveva messo gli
occhi sulla figlia, il terzogenito di Marcello, sì, Gabriele, forse era un pò
indolente negli studi ma era stato educato bene dallo zio gesuita, don
Francesco Maria; comunque, uno cresciuto tra "sovversivi", senza
madre né padre, che avvenire poteva dare alla sua Luisa?
Gabriele, dopo un’attesa che gli parve
eterna, finalmente vide comparire Luisa all’estremità della piazza.
Il corpetto e la gonna a pieghe di
tessuto leggero lasciavano intuire le forme snelle ma piene della ragazza, e la
piccola mappa di raso nascondeva a malapena la massa biondo grano dei lunghi
capelli appena mossi.
Rapito da quella visione, Gabriele la fissò
in volto, e rimase sconcertato dal suo sguardo accorato. Vi lesse la sua
condanna quando, attraversando il piazzale in direzione della chiesa, lei fece
in modo di passargli vicino sfiorandolo.
Mamma De Marinis, chioma raccolta
secondo il costume delle donne maritate, tirò dritto.
Lo stesso fece il padre, ma Luisa non poté
fare a meno di alzare lo sguardo dolce e mesto su Gabriele, che si sentì percorrere
da un fremito per tutte le membra.
I tre sparirono nel portale buio di S.
Maria Maggiore, e del fugace passaggio di Luisa
gli rimase solo la scia del suo profumo, che sapeva di buono…
Amareggiato e deluso, il giovane scappò via da Civita, pronto ad abbracciare la
carriera delle armi, alla quale del resto si sentiva fortemente incline,
distinguendosi, oltre che per valore di soldato e di letterato, come il
patriota insigne e generoso che conosciamo.
La Repubblica partenopea lo trova
impegnato sui campi di battaglia, il 14 giugno 1799 è ferito e preso, rinchiuso
nelle carceri della Vicaria.
Questa è solo la prima di una lunga
serie di peripezie che si intrecceranno con i successi militari e letterari.
L'effimera Repubblica partenopea viene
soffocata nel sangue e sfocia nella feroce repressione sanfedista: molti centri
del Contado di Molise, come Casacalenda e Civita - dove anche casa Pepe viene
saccheggiata - sono teatro di luttuosi episodi di violenza fratricida.
Nel 1812, lo "spettacolo
diabolico" di alcune "damigelle" napoletane acuisce in lui il
rimpianto per quell'amore infelice ed angelicato: "Quanta differenza tra
queste donne e L…Ma! che dissi? Ardisco io rabbassarla con una sì vituperosa
comparazione? No. Resti ognuno al suo posto. L.. nel suo candore, nella
sublimità delle sue virtù, nella perfezione morale del suo cuore, e fisica
dell'angelico volto; queste nel lezzo della civetteria e della
corruzione." Parole che ci consegnano un Gabriele rivoluzionario sì, ma moralista.
Nel 1814, gravemente ferito nei pressi
di Macerata nel corso degli scontri che segnano la fine del regno murattiano,
viene riportato a Civita per la convalescenza e in questa occasione confessa:
"Mi rammento di essermi arrestato sul Monte S. Angelo Altissimo e salutai
di là la mia terra natale con una specie di santo entusiasmo. Io provai
un'estasi di gioia e consolazione al pensiero che era presso a rivedere i miei
fratelli, i miei parenti, i miei compaesani e quell'angelo infine di beltade e
virtù che è stato l'oggetto del primo ed unico amore, e che io amo
ancora".
In verità l’”angelica” signorina De
Marinis andò in moglie all'illustre giureconsulto Zaccaria Padulo. Un’unione
apparentemente irreprensibile, dietro la quale però alcuni storici fanno
intravedere un matrimonio subìto e una passione segretamente ricambiata. Uno di
loro, Raffaele De Rensis, arriva a buttar lì una frase che vale da sola la
trama di un romanzo tutto da scrivere quando afferma che le eccessive
"affezioni" della signora Luisa Padulo verso il nipote di Gabriele,
Marcellino, "rivelavano i suoi sentimenti". Che si vuole intendere?
Che tra Gabriele e Luisa ci fu un amore impossibile ma reciproco? Che la
sottomessa Luisa non ebbe il coraggio di rompere il rigore delle convenzioni
"fuggendo" col bel compaesano e che si contentava di rimpianti e ricordi?
E non potrebbe magari essere che, in fondo in fondo, la vera vocazione di donna
Luisa De Marinis fosse proprio quella della signora alto-borghese e che la sua
"affezione" per Marcellino fosse semplicemente un modo grazioso, e
soprattutto comodo, per riscattarsi di tante pene d'amore inflitte a Gabriele? Chissà
se si scioglierà mai questa matassa…
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