di Rita Frattolillo
Era il 1993 e Amedeo
Trivisonno aveva alle spalle ottantotto primavere quando lo incontrai per
quella che fu una delle sue ultime interviste.
Si sarebbe spento due anni dopo, il 28
dicembre ’95. Quando lo vidi, mi sorprese
lo sguardo: libero e penetrante. Uno sguardo limpido, ancora giovane,
che gli illuminava il volto aperto, in contrasto con la barba e i capelli
candidi. L’inseparabile basco scuro non era una civetteria d’artista, ma la sua
dichiarazione d’amore all’arte, un amore a cui è rimasto fedele fino alla fine,
e al quale – mi confidò con sicurezza – si sarebbe dedicato di nuovo, se mai
fosse tornato a nascere. Perché, mi spiegò, per lui l’arte era natura, bellezza
e vita, e una consolazione senza eguali nei momenti difficili.
Ma come era nata la passione per l’arte?
In casa, mi rispose;
da quando aveva memoria ricordava il padre Pietro, pittore e decoratore,
trafficare tra pennelli e tele. Era
stato lui a intuire il dono del piccolo Amedeo, spingendolo verso il mondo
della pittura.
Ma l’ispirazione più autentica – intrisa di
spiritualità e misticismo – che lo ha consacrato al mondo come “pittore degli
angeli” era nata una notte del lontano 1910, quando Amedeo, sei anni, vide il
cielo di Campobasso - città in cui era nato il 3 ottobre 1904 - illuminato dal
bagliore della cometa di Halley, la stessa che la tradizione religiosa indica
come guida celeste dei re Magi.

Al bambino mancò il fiato per l’emozione, rimase in estasi a lungo, folgorato davanti
alla scia impalpabile che prendeva un quarto di cielo. Il giorno dopo, a
scuola, col dito sul gessetto bianco, si sforzava di sfumare sulla lavagna il
velo della cometa. Una visione che gli era rimasta impressa nel profondo, tanto
che essa compare, diafana, lattescente, in diverse opere, come la preziosa
Adorazione dei Magi” che possiamo ammirare nella cappella del Convitto
“M.Pagano” di Campobasso. Probabilmente è da quel 1910 che la sua mente aveva
iniziato a nutrirsi con i testi sacri
dell’Occidente cristiano che in seguito avrebbe raccontato in opere di
impressionante fedeltà testuale e di grande armonia compositiva.
E’ notevole che tutta
la produzione di Trivisonno rimandi in
maniera compatta all’ideale di bello espressivo, andando controcorrente per
quasi un secolo; aveva resistito senza
tentennamenti alle sirene avanguardistiche che si affacciavano via via sulla scena delle arti
visive.
Non era tipo, il Maestro, da dispensare
opinioni o trinciare giudizi, ma la sua proverbiale mitezza si venava di
inflessibilità quando qualcuno parlava di correnti artistiche contemporanee…Questo
perché lui, che da giovane aveva frequentato l’Accademia romana, e affermava di
non esserne stato formato, si dichiarava urbi et orbi influenzato dalla lezione dei Grandi del Rinascimento
– anzitutto Leonardo – al punto da fare propri i canoni estetici della
tradizione neoclassica.
Non era un caso se
parlava malvolentieri degli allievi che lo avevano “tradito” per aver
intrapreso altre strade, come Gino Marotta ed Antonio Pettinicchi, entrambi divenuti
famosi grazie al loro indiscusso talento.. Ed entrambi rimasti intimamente
legati al loro maestro, malgrado la diversità delle scelte artistiche.
In particolare, nel
corso di una conversazione (rivista “Molise”, n.10, marzo 1993), Marotta aveva
affermato: “Ho avuto un’infanzia eccezionale grazie a quell’uomo bellissimo,
dall’aspetto mistico e dalla barba michelangiolesca. Una volta mi portò con lui
a dipingere nella chiesa di Baranello: il ricordo di quelle impalcature, di
quell’odore di calce è la cosa più indimenticabile della mia infanzia da
bottega rinascimentale. (…) Nessuno al mondo – dico al mondo-- detiene oggi un
magistero pittorico più alto del suo. De Chirico, il pittore che amo di più,
conosceva Trivisonno e una volta mi disse che era uno dei pochi a sapere le ricette giuste.”
In queste “ricette”
entrava, senza alcun dubbio, la costante ricerca della perfezione, ma facevano
la loro parte la serietà e la coerenza.
Queste, infatti, le componenti essenziali che
spiegano ancora oggi, a distanza di vent’anni dalla sua morte,un successo
costruito giorno dopo giorno dal Nostro con tanta determinazione da riuscire a varcare
i confini nazionali. In tempi in cui non esisteva il tam tam del global network, e in primis dei social…
La tele e gli
affreschi da lui firmati, oltre ad essere sparsi, come è naturale, in molti
paesi del Molise, sono custoditi
principalmente a Foggia, Benevento, Verona, Milano, e all’estero, a
Londra, e al Cairo (dove Trivisonno aveva insegnato per oltre dieci anni nel
Liceo italiano).
Anche se abitava a
Firenze dal ’56 - con Annamaria, uno dei
suoi otto figli avuti dalla bella e prosperosa moglie, da lui effigiata con
amore in diverse opere, morta troppo presto -
non aveva mai dimenticato il Molise, immortalandone i castelli e le
acque burrascose del Biferno. Anzi, più di una volta si era lamentato dell’indifferenza nazionale
verso la sua “ terra, nascosta agli
occhi dei turisti e delle persone di cultura”; ma era abbastanza obbiettivo da riconoscere i difetti più vistosi dei suoi conterranei, che per lui erano l’apatia,
la flemma. E gli piaceva citare in proposito quell’aneddoto: “Cosimo.. il
terremoto!”
E Cosimo: “ Mò…mò…”
Negli ultimi anni passava le estati a
Castelpetroso per attendere agli affreschi nel Santuario dell’Addolorata, e
approfittava per tornare qualche giorno a Campobasso, la città che lo ha sempre
degnamente onorato, e dove ancora oggi è
vivo il ricordo della corale partecipazione della sua gente che venne in massa a omaggiarlo per l’ultimo, commosso
saluto.
A conclusione di
quell’intervista, nel congedarmi dal “pittore degli angeli”, trovai il modo di
chiedergli quale messaggio avrebbe voluto lasciare ai giovani.
E la sua risposta fu
all’altezza di chi, per la sua eccezionale esperienza di vita, aveva raggiunto
una lungimiranza che è dono di pochi. Anzitutto - disse- avrebbe
raccomandato ai giovani di amare il proprio lavoro, di avere la
coscienza a posto, di aiutare gli altri,
cercare di dare fiducia.
Aggiunse con calore che era necessario “curare
il pianeta malato, saccheggiato da mille abusi e da molte cecità. Se non si
corre ai ripari, il globo terracqueo scoppierà.”
Invitava infine alla
tolleranza: “A Oriente come a Occidente, malgrado l’apparenza di vestiti e
usanze diversi, siamo tutti uguali, buoni e cattivi, con i nostri pregi e
difetti. Dannoso, oltre che sciocco, sentirsi superiori; impariamo piuttosto a
convivere con gli altri popoli, in un mondo che ci deve accogliere tutti.”

Pensieri che, trattando
temi percepiti allora come di là da venire, suonarono più o meno alla stregua
di un’eccentricità d’artista, ma che oggi, alla luce delle drammatiche
emergenze che stiamo vivendo, sembrano quasi profetici per la loro pressante attualità.
Rita Frattolillo© 2016
Tutti i diritti riservati
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