di Angela* e Rita Frattolillo
copertina libro |
Tra gli oltre 5 milioni di mobilitati
per combattere al fronte c’è stato anche nostro (mio e di mia sorella Angela)
nonno Raffaele, che partì per il Carso lasciando a casa la moglie con quattro
bimbi e una grande impresa agricola da portare avanti; e certe volte capita di
pensare che magari si è trovato fianco a fianco con Giuseppe Ungaretti,
Guglielmo Marconi, se non con il nostro
poeta di Riccia Michele Cima.
Fino
a che punto gli uomini del Mezzogiorno, come nostro nonno, avranno avuto
coscienza della necessità della guerra? Non lo potremo mai sapere, ma
sicuramente, quando l’Italia dichiarò l’entrata in guerra, nel 1915, mentre la
piccola borghesia molisana, gli studenti, accolsero generalmente la guerra come
una sacrosanta crociata per riconquistare i territori irredenti, i nostri contadini, i pastori calabresi e siciliani,
piuttosto la subirono come un male inevitabile.
Sempre alle prese con i problemi quotidiani,
chiusi nei loro interessi, essi avevano combattuto con tutte le loro forze i
“giacobbe” e la loro “nefasta” ideologia
proclamata durante la rivoluzione partenopea; furono contrari, nel
periodo preunitario, alla venuta dei piemontesi per quello che rappresentavano;
solo l’impresa libica (1911-12), per la ventilata possibilità di ottenere delle
terre, era stata accolta in maniera non negativa e avevano così preso la via
dell’Africa. Ma questa volta partirono per il fronte con rassegnazione, pur se
compirono il loro dovere fino in fondo, dando un contributo di sangue altissimo, il 56% del
totale. E magari, in trincea, patendo il freddo, il gelo, la fame, con altri
fanti che parlavano dialetti diversi,
che avevano altre abitudini anche alimentari, condividendo con loro pane e
nostalgia di casa, maturarono la coscienza della propria italianità e
compresero le ragioni della guerra.
E le donne?
A differenza della storiografia
internazionale, nel nostro Paese il tema del rapporto tra le donne e la guerra
è stato affrontato tardi, ed è emerso solo negli anni ’90, quando una nuova
generazione di studiosi, svegliandosi, ha dato il via a serie indagini a largo
spettro.
In tale prospettiva, vanno viste anche le
ultime pubblicazioni di scrittrici, che, a quanto è emerso finora, hanno
trovato molto materiale, testimonianze, memorie private che documentano l’intraprendenza, la temerarietà, il
patriottismo delle donne abitanti per lo più vicino ai teatri di guerra, alle
zone di confine – trentina, veneta e friulana – ossia quelle zone che hanno
sperimentato la guerra totale.
Se è vero che dopo secoli di distrazione
generalizzata da parte di studiosi di qualunque disciplina e ideologia, che
hanno consegnato all’oblio l’operato femminile in tutti i campi del
sapere, è stata proprio la massiccia
mobilitazione delle donne congiunta alle capacità dimostrate durante lo snodo
tragico del primo conflitto mondiale a farle finalmente irrompere nella storia con la esse maiuscola, è anche
vero che basta sfogliare gli ultimi volumi sull’argomento – tra cui la densa e intensa ricerca di Angela, dal
titolo I ruoli delle donne nella Grande
guerra - per cogliere il vistoso divario tra l’approccio all’evento bellico
da parte delle donne del Nord Italia e le altre.
Le prime, infatti, come emerge
dall’indagine di Angela, si sentono in trincea: sono interventiste, attive e
piene di iniziative, e spesso vedono il conflitto come il momento giusto per
emanciparsi, attraverso la mobilitazione politica, sociale, civile e morale.
Non parliamo solo delle crocerossine o delle “portatrici” che sfidano la morte
e spesso ci lasciano la pelle, al fronte, come Maria Plozner, madre di quattro
figli (di cui racconteremo più avanti),
né parliamo solo dei personaggi
fuori dalle righe come le impavide
inviate di guerra, o le spie, ma ci
riferiamo per esempio alle “comuni” donne milanesi che creano una rete di
solidarietà per confezionare il corredo del soldato o lo scapolare antipidocchi
da inviare al fronte. E’ un dato di fatto che, allo scoppio della guerra,
femministe e non, se prima erano mobilitate per il riconoscimento dei diritti civili,
ora cambiano rotta rapidamente, pronte ad affrontare le nuove emergenze, come
Paola Baronchelli.
Paola
Baronchelli Grosson (1866–1954) era – scrive Angela - una “giornalista,
conferenziera, scrittrice per l’infanzia, intellettuale non femminista, osservatrice
disincantata dei cambiamenti in atto nella condizione femminile. Per lei la
guerra rappresentava un passaggio epocale dal vecchio al nuovo secolo; gli
eventi determinanti un così rapido mutamento erano la crisi europea e la crisi
del femminismo. Con questo convincimento partono le inviate come corrispondenti
di guerra; lavoro pericoloso e riservato solo ai maschi. La cronista di guerra
irrompe sullo scenario con il suo linguaggio per raccontare la guerra alle
donne che solo dal 1905, anno di fondazione de “La Donna”, supplemento dei
quotidiani “La Stampa” e “Tribuna”, direttore Alfredo Frassati, hanno
cominciato a dibattere temi culturali e di attualità, legati alla subalternità
nella vita familiare e civile.
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Annie Vivanti |
Partirono così per il fronte: Annie Vivanti per il periodico “La
Donna”; Barbara Allason; Stefania Turr per il mensile “La Madre
italiana”; Ester Danesi Traversari
per “Il Messaggero”; Flavia Steno
per il “Secolo XIX”.
E’ esemplare la vicenda della
giornalista Stefania Turr – racchiusa, come le altre storie, nel volume I ruoli delle donne nella
Grande Guerra - perché la sua storia chiarisce bene la commistione che si
era creata tra emancipazionismo e
interventismo femminile.
“Stefania, rifacendosi all’esperienza
risorgimentale del padre, si assume il compito di veicolare nel suo periodico
la viscerale passione per la causa italiana insieme alla strenua lotta contro
l’oppressore austriaco e quindi la personale adesione all’Irredentismo.
Stefania Turr confeziona la sua rivista con notazioni militariste veicolando
idee e convinzioni che spronino all’azione, un’azione fatta da una donna
per le donne che stanno acquisendo una nuova consapevolezza del proprio ruolo nella
società e che vogliono condividere le loro ansie e paure con qualcuna che
sappia e ascolti.
Sono tutte quelle donne i cui mariti, padri,
figli, fidanzati, fratelli, sono al fronte; hanno l’intimo bisogno di
conoscerne le condizioni di vita e le difficoltà che affrontano.
Soprattutto hanno bisogno di essere
rassicurate e nel contempo stimolate a pretendere, finita la guerra, ciò che
spetterà loro di diritto per aver reso alla patria un grande servizio.
Stefania intraprende così la via della
partecipazione diretta e consapevole: sarà nelle trincee cronista di guerra, a
fianco dei soldati, non per consolare o confortare, ma per condividerne la
vita, le sofferenze, la nobiltà delle gesta e vedere in faccia il nemico di
mio padre e della mia famiglia…
Le uniche donne a sperimentare finora
la vita al Fronte erano le crocerossine, il cui contributo di sangue sul campo
di battaglia è finora passato in sordina, se si pensa che delle tante
crocerossine uccise, solo una è sepolta
a Redipuglia.
Stefania non ha nulla della crocerossina,
quindi la sua richiesta conosce la complicata burocrazia fino alla sospirata
autorizzazione.
“Alle
Trincee d’Italia” è il suo reportage a 360 gradi in qualità di inviata di
guerra:
Io vado al fronte, e vorrei gridarlo
alto specialmente a quella damina che mi sta incontro tutta agghindata come una
pupattola e tutta intenta a tenere in buon ordine le pieghe del suo abito…e
anche a quel giovanotto che mi pare così brutto nel suo abito borghese: che
diamine, un giovanotto vestito da borghese in un treno che va verso Udine, ma
perché vi è montato? Che viene a fare questo disutilaccio? Ora non è il tempo
di agghindarsi o di distrarsi.“
Una forte empatia la spinge a visitare
i luoghi di guerra, a immedesimarsi nelle vicende dei tanti giovani che hanno
sacrificato la vita per la Patria.
Narrazione vivida e attenta della
geografia dei luoghi incontrati, ma filtrati dal pensiero costante di ciò che
hanno provato i soldati nel calpestare luoghi tanto impervi[…].
Il pathos ci accosta al dolore dei
soldati; il freddo, la neve, la desolazione dei luoghi ci entra dentro perché
Stefania s’immedesima nelle loro vicende.
“Lei dedicherà molti articoli
all’impossibilità di escludere la componente femminile dalla vita attiva
politica. Da qui il pensiero costante della partecipazione consapevole: oggi
il bilancio morale e materiale degli anni di guerra è tutto a favore di noi
donne e possiamo presentarci a fronte alta dinanzi agli uomini e domandar loro:
e ora? Nei giorni di lavoro febbrili, nei giorni della trepidazione e del
dolore voi ci avete chiamate, noi siamo accorse e vi abbiamo dato l’aiuto
necessario e proficuo. Noi non possiamo più essere assenti dalla vita politica
delle nazioni e voi dovete provvedere.
Esige quindi parità tra i
sessi, l’inserimento delle donne nella
vita sociale e politica, come un dovere e non una concessione. Le
rivendicazioni gridate in uno stile asciutto e rabbioso, sono di chi non si
accontenta più di stare dall’altra parte della Storia. […] Il ruolo materno si
stravolge- osserva Angela -, piegato ai propri ideali, quello della madre
spartana fiera di mandare i propri figli a combattere. Non tutte, naturalmente,
la pensano come Stefania, anzi, la maggioranza delle donne, al Nord come al
Sud, si ribellano al destino assurdo che le stava privando dei figli”.
L’Autrice continua: “Un coinvolgimento
impossibile per le donne meridionali, se non altro per motivi geografici, è
quello delle crocerossine di guerra e delle “portatrici”, le donne che salivano
al fronte con delle ceste per la biancheria in cui erano nascoste le armi per i
soldati, materiale edile, o anche cibo e indumenti. Tra esse, c’era Maria Plozner Mentil, nata a Timau il
17 novembre 1884.
“Timau, al confine con l’Austria, è una frazione di Paluzza in provincia di
Udine, vicino al passo di Monte Croce Carnico, nodo strategico.
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Maria Plozner Mentil |
A Timau si parlava un antico dialetto
di origine carinziana, assimilabile al tedesco, per cui suscitava sospetti
negli italici. Cominciata la guerra, il Comando italiano ordinò lo sgombero
immediato di Timau, Cleulis, Forni Avoltri e Val Aupa.
“La retromarcia arrivò subito, allorché
il Comando si rese conto che gli uomini validi erano tutti al fronte e che si
aveva bisogno dei civili, ovvero dei ragazzi e delle donne.
Rimane quindi il dubbio sulla libertà
di scelta delle portatrici stando alla dichiarazione del sindaco di Paluzza,
Alberino Delli Zotti: ….il ritorno nelle proprie case è concesso a
condizione che gli uomini validi e le donne dai 12 anni in su si pongano a
disposizione del comando militare per qualsiasi lavoro necessario al sostegno
delle truppe in trincea….
Maria sin da piccola dovette lottare
con l’indigenza. In tenera età perse il
padre boscaiolo, Tobia, che si era recato in Romania per trovare occupazione.
Sposò il 29 gennaio 1906 il compaesano Giuseppe Mentil da cui ebbe 4 figli. Il
più piccolo, Gildo, aveva pochi mesi quando Maria venne colpita a morte mentre
trasportava il suo carico, il 15 febbraio 1916.
“Aveva 32 anni. E’ l’unica donna in
Italia a cui sia stata intitolata una caserma nel 1955, peraltro ora dismessa.
Nel 1997 le è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria
come simbolo di tutte le portatrici, e ad esse a Timau è stato innalzato un monumento”.
Sul fronte dell’impegno femminile per
ottenere i diritti civili dovuti alla
progressiva partecipazione alla vita sociale, la delusione per il mancato
riconoscimento dopo il Risorgimento
aveva ceduto a una nuova speranza allo scoppio della Grande Guerra, dal
momento che questa fu vista anche come
un’opportunità da sfruttare in ogni direzione.
Sorprendente nella sua unicità, ad esempio, è
la strada presa con grande determinazione e spirito innovativo da una maestra
salernitana, Maria Elvira Giuseppa Coda Notari
(10 febbraio 1875 - 17 dicembre 1946),
che, divenuta nel 1902 modista a Napoli, incontra Nicola Notari, ex pittore divenuto fotografo
che si andava specializzando nella coloritura delle pellicole fotografiche con
anilina. Dopo le nozze, la coppia fonda nel 1905 la casa di produzione cinematografica
“La Film Dora” (dal nome della figlia) di cui lei sarà attrice, sceneggiatrice,
e regista. Ispirandosi alle vicende belliche, ai cupi romanzi di Mastriani e
della Serao, ai fatti di cronaca napoletana, diventerà famosa persino in
America.
Elvira Coda Notari con il marito |
Ma a partire per le zone di guerra sono anche
le spie, di cui si sente un bisogno disperato.
“L’Italia infatti - chiarisce Angela -
non disponeva di una intelligence e non era riuscita ad organizzare in maniera
razionale il Servizio Informazioni, che risaliva solo al 1911. Al soffiare dei
venti bellici sui Balcani, nel 1914, la nostra intelligence cercava di
organizzarsi ai confini con la I Armata, di stanza tra Lombardia e Trentino,
capeggiata dal colonnello Tullio Marchetti.
“Il
problema che s’impose drammaticamente fu la mancanza di rilievi
topografici vietati dal patto con l’Austria del 1910. Tullio Marchetti dal 1912
riprese clandestinamente i rilievi con la sua rete di fiduciari per ricostruire
le guide militari della zona, coadiuvato dal farmacista Ugo Rella e da Cesare
Battisti.
Dunque, mentre l’Italia muoveva i primi
passi nel 1914, l’Austria contava una radicata serie di informatori, fra cui
spiccano le mogli austriache degli ufficiali italiani. Era famosa Elisabetta Margherita Konismark, moglie
dell’ammiraglio Piero Orsini, che incontrava gli informatori all’Hotel Bristol
di Piazza Barberini a Roma. Molto attiva anche Eleonora Gormasz, cognata del generale Pollio, ma non
mancavano né le prostitute di alto bordo (niente in comune
con l’esercito di prostitute - spesso minorenni - caldeggiate da Cadorna,
bordelli con ritmi di fabbrica di cui scrive in un reportage tremendo Maria Serena Palieri nel volume
collettaneo di cui nell’incipit, n.d.r.),
né i prelati austro-ungarici frequentatori dei “casini” del centro di
Roma.
Al nutrito numero di spie austriache in
Italia, i nostri vertici militari risposero con una rete spionistica arruolata
nel serbatoio degli irredentisti.
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Luisa Zeni |
“Ad offrirsi volontaria come spia, è
una donna, Luisa Zeni, che non ha
niente da spartire con le fascinose
maliarde alla Mata Hari tramandate da certa cinematografia: Luisa
era una ragazza modesta e normale senza
nessuna aureola di bellezza e mistero.
La sua scarna biografia annota la morte
della madre a tre anni, l’influenza del nonno garibaldino amareggiato per la
patria italiana mutilata del suo
Trentino. Ad undici anni incontra
l’ispettore scolastico Prospero Marchetti, al quale era stata segnalata perché la bambina aveva risposto alla maestra
che Roma era più bella di Vienna.
I Marchetti diventano il filo rosso
della sua vita: Prospero, sindaco di Arco, irredentista, sarà il suo tutore e
colui che la segnalerà al cugino colonnello Tullio.
“Il percorso di Luisa come spia è
inusuale. A diciannove anni, nel 1914, si associa con il gruppo dei Trentini
guidati da Cesare Battisti che, per non combattere nelle file austriache,
costituendo il Comitato per irredenti adriatici e Trentini, emigrarono a Milano
insediandosi al 14 di via Silvio Pellico, Luisa Zeni impara così il loro linguaggio
cifrato usato nelle circolari, opuscoli e lettere per incitare all’intervento e
liberare Trento. Alla vigilia della guerra, al gruppo giunge una richiesta
dall’Ufficio Informazioni della I Armata.
«C’è qualcuno disposto a rischiare
tutto risalendo la valle dell’Adige da Ala al Brennero per raccogliere notizie
e dati sui movimenti, sulle dislocazioni e intenzioni del nemico?» E’ così che
le viene affidato l’incarico, insieme ad un passaporto intestato a Josephine
Muller, tedesca residente a Trento, una pistola, un manuale cifrato,
l’inchiostro simpatico e indirizzi di agenti in Svizzera nascosti nei bottoni
della giacca. “La sua avventura comincia il 22 maggio partendo da Brescia alla
volta di Innsbruck.
Nell’albergo Union nasconde pistola e
manuale dietro l’armadio e si comporta come una turista inesperta ed un po’
sciocca per raggiungere i luoghi fuori città e osservare i movimenti delle
truppe, gli accampamenti, i treni dei soldati con la destinazione scritta sui
vagoni. Avvicinandosi poi alla frontiera, portava regali (cioccolata, tabacco,
cartoline) ai soldati per conoscere magazzini, depositi di armi e munizioni. A
volte, fingendo di essersi persa, si spingeva fino ai posti di controllo per
carpire notizie ed individuare spostamenti.
Dall’albergo spediva le informazioni all’agente Silvio,
corrispondente di Zurigo, che avrebbe fatto pervenire le notizie in Italia.
Come cittadina austriaca aveva anche
occasione di chiacchierare amabilmente, la sera, con gli ufficiali ospiti
dell’albergo.
“Ma l’Austria cominciò ad avere qualche
sospetto su quella donna che non lavorava e finiva sempre per trovarsi nei
paraggi dei movimenti delle truppe.
“Accortasi della occhiuta vigilanza,
Luisa lascia l’albergo e si trasferisce in una casa privata. […]. Dovrà
comunque sparire e lo farà, vestita da uomo con abiti tirolesi, fra molte
insidie e con molta audacia, fino a Zurigo, da dove rientrerà a Milano il 16
agosto 1915. A questo punto ci si attenderebbe riconoscimenti, benefici e
soprattutto tranquillità.
Invece Luisa, ricordandosi del diploma di infermiera,
si arruola come crocerossina, sperando così di ritornare al fronte.[…] Ma la
delusione per la spartizione delle terre di confine che esclude Fiume (il
trattato di Saint Germain, 1919, definiva sì i confini, ma non quelli
orientali) la fa volare, travestita da ferroviere, a Fiume occupata dai
Legionari di Ronchi con Gabriele D’Annunzio.
Condivide gli affanni della
popolazione occupata, soffre con loro la fame, combatte nell’assedio del Natale
1920, cura i feriti con le instancabili donne fiumane Bina Abate e Tullia Franzi
fino alla resa del 31 dicembre 1920, dopo le cannonate dell’Andrea Doria sulla
città. Il governo fascista le assegnò una medaglia d’oro al valore militare, e
una piccola pensione che la sostenne fino alla morte avvenuta a Roma.
I funerali di Tullia Franzi |
Anche Luisa Zeni si dilegua dalla
Storia per finire nel dimenticatoio della memoria degli uomini”.
***
E nel
Mezzogiorno come parteciparono le donne?
Sulla natura, sul tipo di coinvolgimento e di
partecipazione femminile al primo conflitto mondiale molto avrà pesato – oltre al differente
retaggio storico-politico del Mezzogiorno - la maggiore distanza dal teatro delle operazioni. La
guerra c’era, ma si faceva sentire in
forme differenti, dal razionamento del cibo allo spegnimento dei lampioni alle frequentissime richieste di
sottoscrizione per finanziare le attività belliche del Regno; ma sentire il
fragore dei combattimenti ha un impatto ben diverso rispetto ai disagi degli
approvvigionamenti o alla vista dei feriti tornati dal fronte….Ma, si può
attribuire solo a questi fattori il netto divario di “sensibilità” femminile
espressa al Nord e nel resto della Penisola? Perché, se appare “comprensibile” che dal Mezzogiorno
non partissero donne per svolgere la missione di “portatrici”, esse avrebbero
comunque potuto servire la Patria con il loro contributo – sia attraverso
l’interventismo delle intellettuali veicolato dai giornali che attraverso l’azione diretta - in termini
di consapevole adesione alle “ragioni” dell’interventismo.
Chiaramente entrano in gioco altre
motivazioni: i condizionamenti ambientali, l’emarginazione sociale, la
mentalità in cui sono cresciute le donne del Mezzogiorno, l’ignoranza pressoché
generale in cui continuano ad essere tenute (malgrado la Legge Coppino del 1877
e qualche miglioramento dovuto più all’iniziativa privata indirizzata
specificamente all’istruzione femminile, come quella avviata e proseguita da Aline Aubin Battistelli a Campobasso
nel secondo Ottocento). Alle esponenti dei ceti alti, le più “favorite”, era
consentito solo esercitare il matronage, oppure occuparsi di beneficenza. Per
tutte le altre donne, popolane o contadine, la vita si consumava tra
l’allevamento della prole, la gestione della casa e il duro lavoro dei campi.
Al massimo qualche sfilacciata notizia trapelata dall’esterno.
Per le prime come per le altre, un’esistenza
comunque controllata dagli uomini, nella sequenza padre-marito-figlio, sempre
molto limitata quanto a partecipazione alla vita sociale, a
possibilità di coltivarsi, di esprimere la propria personalità,
allungare lo sguardo fuori, uscire fuori dal “seminato”, ovvero fuori dal
perbenismo dominante.
Una situazione che sarà sfruttata dall’ideologia
fascista, la quale avrà gioco facile nell’esaltare un modello di femminilità
che sarà ben propagandato e attivamente perseguito, perché farà sentire le
donne gratificate, al centro
dell’attenzione, e quindi – per la loro sempre compressa voglia di protagonismo
- pronte a mobilitarsi per la gloria del
duce e della stirpe. (Salvo poi accorgersi che leggi ad hoc impedivano loro di
emergere).
Nel piccolo Molise, allo scoppio della
guerra, la maggioranza delle donne collabora con il resto della famiglia
all’andamento domestico per sbarcare il lunario. Nell’economia del
territorio il primo posto spetta al
settore primario, e non a caso Mussolini si servirà della forte tradizione
agricola della regione per esaltare, nell’ambito del suo piano di autarchia, il “Molise
ruralissimo”.
Partiti gli uomini per il fronte, tocca alle
donne sostituirli. Era già successo, quando nell’Ottocento era cominciata
l’emigrazione. Infatti la plurisecolare
questione dell’assegnazione delle terre, sempre rinviata, non aveva trovato una
risposta adeguata neanche dopo l’Unità, quando si assisté al flusso di gente in
cerca di fortuna alla volta del Belgio o de “Lamèreca”(copyright di Norberto
Lombardi).
Purtroppo già qualche mese prima della
proclamazione dell’Italia unita, nell’agosto 1860, la strage dei contadini che
si erano sollevati a Bronte (Catania) mentre rivendicavano i loro diritti sui Cappeddi
(i galantuomini latifondisti) quando i due battaglioni di
bersaglieri di Nino Bixio li avevano massacrati senza pietà, non aveva fatto presagire nulla di buono
sulle prossime mosse del nuovo governo.
Così si era intensificato l’esodo,
diventato – sia pure con andamento ondivago - inarrestabile per decenni,
svuotando i paesi, come Agnone, che se contava ben 11.600 abitanti nel
1875, già nel primo dopoguerra aveva
tanti figli in Argentina, da poter costruire il Teatro Italo-argentino grazie
ai finanziamenti ricevuti proprio dagli emigrati.
Una volta rimaste sole, le donne avevano
quindi dovuto toccare con mano già ben
prima dello scoppio della guerra i problemi della sopravvivenza, senza la
collaborazione e la guida del proprio uomo, supplendolo in tutto e per tutto.
In Molise le “vedove bianche”
sostituiscono i mariti, in attesa
del loro ritorno, nella speranza delle
“rimesse”, e di qualche lettera.
Anche adesso, dal proprio uomo al
fronte, la donna aspetta una lettera, e lavora, ma con il cuore a lutto e il
pensiero rivolto al suo incerto destino -̶ sarà prigioniero? oppure morto? – e
si accolla la gestione della famiglia,
si adatta a mille mestieri, bada
ai bambini e agli anziani rimasti in casa, lavora la terra, bada agli animali.
Se, sfogliando i giornali dell’epoca come “Il Giovane Sannio”, è evidente lo
sforzo di magnificare la coscienza
nazionale, d’altra parte gli interventisti non mancano di attivarsi perché ogni
molisano si senta in trincea, e partecipe dell’evento bellico.
E’ grazie alle associazioni, attraverso
i comitati, che prende corpo l’assistenza pubblica, da una parte per sostenere
il reddito delle famiglie bisognose offrendo loro occasioni di lavoro legato
alla necessità bellica (come il confezionamento dei capi da inviare ai
soldati), dall’altra provvedendo ai figli dei militari morti in guerra o ai
disabili di ritorno dal fronte.
A questo tipo di assistenza si aggiunge quella
ospedaliera di retrovia: a Campobasso ne erano state approntate tre: nel Convitto “Mario Pagano”, nella palazzina
“Speranza” e nella caserma “G. Pepe”; a Isernia erano stati riattati i locali
dell’ex Convitto.
Siccome sono le donne a generare la
vita, ne conoscono bene il valore, e quindi per loro è naturale dedicarsi
anzitutto alla carità e al sacrificio; è perciò che a curare con slancio i
feriti e quanti erano tornati malconci dai teatri di guerra, troviamo donne di
tutti i ceti sociali, dalle più blasonate, come la regina Elena di Savoia,
sempre schierata dalla parte dei più deboli, che trasforma il Quirinale in
ospedale da campo; o come Hélène
d’Orléans, sposa del duca Emanuele Filiberto d’Aosta, che in questo
contesto merita almeno un cameo. Ispettrice generale delle infermiere
volontarie CRI, si guadagnò molti riconoscimenti, tra cui tre medaglie d’argento al valor militare, e la
sua personalità, il suo patriottismo, ispirarono a Gabriele d’Annunzio La canzone di Elena di Francia (nella
silloge Canzoni d’Oltremare).
Innamorata di Napoli, la principessa scelse come residenza la reggia di
Capodimonte, che abbellì, e, quando i
Savoia presero la fuga dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale,
rifiutò di seguirne l’esempio poco edificante, restando nella “sua” città. Raro
esempio di dignità e consapevolezza del proprio ruolo.
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Hélène d'Orléans |
Tra le “semplici” borghesi campobassane
(di adozione) troviamo Maria Rossi
Sabelli (Napoli, 1899 - Campobasso, 2000). Figlia del medico Francesco
Rossi, amico di Antonio Cardarelli, Maria poté mettere a frutto le sue
conoscenze mediche acquisite accanto al padre prestandosi come zelante infermiera –crocerossina non solo
nella prima, ma anche nella seconda guerra mondiale, dal momento che ha attraversato
per intero il Novecento. La sua disponibilità la porterà ad attivarsi in
numerose istituzioni benefiche, e il suo amore per la medicina la indurrà a
trasformare il bel palazzo stile liberty di via Principe di Piemonte a
Campobasso nella Casa di Cura che porta ancora oggi il suo nome: “Villa Maria”
è la prima Casa di Cura privata del
Molise.
“La Provincia di Campobasso” del 20 febbraio
1917 metteva in risalto l’eroismo femminile
perché “le donne sono state chiamate a sostituire i combattenti nelle
attività produttive, oltre che partecipare attivamente a forme molteplici di
attività di volontariato a sostegno della nazione in guerra: dall’assistenza
sanitaria ai soldati, alle innumerevoli attività a favore dei loro figli, degli
orfani […] alla confezione di indumenti militari […]. E invero la donna ha dato
e dà alla guerra il più generoso e valido contributo di energie, non solo nel
campo che le era stato assegnato dalla natura ma prendendo bravamente il posto
degli uomini chiamati ad adempiere sulle linee di battaglia il loro dovere di
cittadini e di soldati”.
Ma, nonostante “l’eroismo” delle donne, si
segnalava un abbassamento della produttività: le piccole aziende familiari
erano prive di mezzi meccanici, il raccolto doveva essere fatto in pochi giorni,
e la donna da sola non ce la poteva fare; fatto sta che nel 1917 il raccolto
del grano si fermò ad appena 440mila quintali. Si dovette chiedere al governo
un aumento dell’approvvigionamento e soprattutto fu necessario far rivedere il
sistema delle licenze agricole, che consentiva ai fanti-contadini di tornare a
casa per un mese circa, a rotazione, e riprendere il lavoro dei campi.
Lo scontento del fronte interno,
insomma, si faceva sentire, non solo per la scarsità del raccolto, la
difficoltà degli approvvigionamenti e il caroviveri, ma anche per
l’atteggiamento discriminatorio del governo che sembrava aver dimenticato i
sacrifici fatti dai molisani.
Infatti i giornali sottolineavano che
il verdeggiante Matese aveva perso i suoi alberi per rifornire di legname
l’esercito al fronte, ma il governo, ingrato, non aveva provveduto a far
sorgere fabbriche di munizioni e laboratori militari dove far lavorare le
donne.
Tra le pochissime fabbriche, è attivo il
Lanificio ditta Florindo Martino (databile al 1886) di Sepino sul torrente
Tappone. Da Annamaria Albino (Almanacco del Molise 1991, vol.I, ed
Enne, pp.170-190) sappiamo che ospitava un’intensa attività e che le varie fasi
della lavorazione, dalla cardatura alla
gualcatura, erano eseguite da 18 addetti, di cui 11 maschi e 7 femmine. Questa
manodopera, che sicuramente diventò tutta femminile nel periodo bellico,
soddisfaceva a grosse forniture di coperte e capi di abbigliamento per
l’esercito. Ricostruita in seguito ad un incendio negli anni ’50, fallì intorno al’70.
La rotta di Caporetto, quel terribile
24.10.1917, segnò la rioccupazione delle terre da parte dell’esercito
austro-ungarico: friulani e veneti dovettero abbandonare i loro paesi e
sfollarono al di qua del Piave. 632mila i profughi italiani che dilagano
ovunque.
Il Molise viene a contatto diretto con la drammatica faccia
della guerra.
L’arrivo dei profughi (circa 2322),
oltre a mobilitare tutte le istituzioni, le associazioni, la stampa e i privati
cittadini, incontrò una risposta straordinariamente generosa di tutto il
popolo. I comuni molisani si offrirono per
dare ospitalità ai fuggitivi, e le donne furono in prima linea per
alleviare in mille modi le condizioni dei profughi e nella raccolta di fondi in
loro favore. Ad essi si aggiunse lo sforzo della Chiesa. Il vescovo di Bojano,
Mons. Alberto Romita, invitò i prelati a raccogliere una colletta da inviare al
Papa che ne avrebbe disposto secondo il suo illuminato criterio. Il 4 ottobre
1918 lo sfondamento della linea Hinderburg da parte francese e la capitolazione
dei bulgari costrinse Germania e Austria-Ungheria a fare appello a Wilson: è la fine della
guerra.
Ogni vicenda bellica ha per lo meno una madre che è diventata un simbolo
per l’intera nazione: Adele Cairoli nel Risorgimento; mamma Calvi nella Grande
Guerra, mamma Cervi nell’ultima Guerra.
E in ambito molisano?
In ambito molisano possiamo vantare Maria Concetta Quici, madre dei due
fratelli Brigida uccisi a Termoli nel periodo della Rivoluzione partenopea, Teresa Lembo, madre del garibaldino
Giuseppe Suriani, trucidato durante la terribile reazione di Isernia
dell’ottobre 1860.
Nello scenario della seconda Guerra mondiale,
quando, dopo l’armistizio firmato l’8 settembre 1943 da Vittorio Emanuele III e
gli alleati, le truppe tedesche, ritirandosi,
trasformano l’Italia in un gigantesco focolaio di guerra, minando
edifici, occupando paesi, e facendo saltare ponti per rallentare l’avanzata
degli alleati, una donna si segnala come grande protagonista per la
straordinaria temerarietà che le ha consentito di salvare il suo intero paese,
Vastogirardi.
Medora
Marracino, erede di una famiglia di spicco dell’Alto Molise, una laurea in chimica
pura ottenuta a via Panisperna, poliglotta e musicista di talento, riesce,
fidando nella sua capacità di mediazione con il comandante tedesco e sul suo
sangue freddo, a scongiurare il plotone di esecuzione per alcuni concittadini,
tra cui lo stesso podestà, accusati di aver disinnescato le mine poste dagli ex
alleati.
Sicuramente anche la Grande Guerra ha
espresso nel Molise la sua eroina-simbolo, ma occorrerà esplorare e scavare
parecchio, e allora ne riparleremo.
*Angela
Frattolillo, dirigente scolastica a riposo, ha al suo attivo diverse
pubblicazioni (saggistica, romanzi, riflessioni di viaggio) e da anni conduce
una intensa attività di animatrice e divulgatrice culturale.
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