Rita
Frattolillo
Mettere
piede in Sicilia è sentirsi avvolti dal rumore delle civiltà che hanno
attraversato i secoli lasciando in eredità straordinaria traccia di sé nel
patrimonio storico-architettonico, nelle tradizioni e nella gastronomia.
Ma quello che ti strega da subito percorrendo
la rete stradale è la successione di dolci rilievi alternati a piane sterminate
coperte di agrumeti; dappertutto, le distese infinite di fichi d’india che
interrompono con pennellate rosse qua e là il verde dominante. Ci addentriamo
nella Sicilia orientale, terra già abitata nel III millennio a.C., calpestata
da greci, romani, arabi, normanni, svevi, angioini, spagnoli e via discorrendo.
Vestigia antiche, come quelle di Siracusa, Catania, Piazza Armerina, convivono
con una quantità impressionante di palazzi storici -specie del Sei/Settecento- ed
è grazie a loro che diverse città, come Modica e Ragusa, fanno parte del
patrimonio Unesco.
E le chiese? Nei soli giardini iblei, làscito di nobili alla
comunità di Ragusa Ibla, che si era dovuta trasferire dalla cittadina Superiore
dopo il devastante terremoto del 1693, sorgono ben tre chiese. Tutte curate e
lustrate, come quella di S.Giacomo, gemellata con la chiesa di S.Jago di
Compostella; l’attento sacrestano lascia un attimo il piumino con cui sta
spolverando le panche per raccontare del Crocifisso ligneo che nessuno mai
oserà spostare dal suo altare, dal momento che fu ritrovato intatto sotto le
macerie.
Certo, anche qui a Ragusa non mancano le
fazioni, come in tutti i nostri paesi: così ai sangiovannari (quelli della
cattedrale eretta dopo il terremoto, con annesso vescovado, a Ragusa Superiore)
si oppongono i sangiorgiani (quelli di Ibla, nella cui pazza si erge il Duomo
di S.Giorgio progettato dall’architetto Gagliardi, che ha lavorato molto in
tutta la val di Noto). Tra le due agorà, oltre 250 gradini da percorrere con lo
sguardo affondato nel panorama straordinario delle colline coperte di tetti a
varie quote, tra cui spiccano decine di campanili e le belle facciate dei tanti
palazzi importanti in pietra calcarea. Pietra che può essere bianca o nera (“pietra
pece”, la chiamano, e il suo colore si deve alla presenza del petrolio), con un
bell’effetto cromatico.
Nel record delle presenze turistiche, a
vincere la hit è sicuramente Ibla, che ha conosciuto un’impennata senza
precedenti grazie alla fiction tratta dai romanzi sul commissario Montalbano di
Andrea Camilleri. Perché Ragusa è la Vigata dei romanzi, e allora mi chiedo se
l’anziano scrittore avesse mai previsto un simile successo. E così i flussi
turistici si spostano da una piazza all’altra con il naso per aria, rapiti
dalle facciate barocche delle chiese e dalle mensole dei balconi
Sei/Settecenteschi abbellite dagli straordinari rilievi antropo/zoomorfi. Ma
come fare a meno di visitare il piccolo teatro privato del barone Francesco di
Donnafugata, dove ultimamente gli orchestrali della Scala hanno rappresentato nientemeno
che un’opera rossiniana? E, soprattutto, come ignorare il Circolo di
Conversazione, nato nel 1830 sul modello dei club intellettuali inglesi per
volere del medesimo barone e di altri 18
ragusani?
Il Circolo merita la visita perché la sua sala
di rappresentanza, principesca con le sue preziose tappezzerie bordeaux,
specchi, lampadari con intrecci di foglie bronzee a imitazione di quelle di
zucca (che nella cucina ragusana è un must), compare in alcune sequenze della
fiction come sala da gioco dove si intrattiene volentieri il medico legale
Pasquano. E impressiona poco sapere che le donne siano state ammesse al Circolo
nientemeno che nel 1974, né attrae la targa che celebra la pur generosa fondatrice
dell’ospedale di Ragusa, Maria Paternò Arezzo, pronipote del barone Francesco,
morta durante il terremoto di Messina.
Ma se i ragusani vantano una cinquantina di
chiese, Modica ne conta un centinaio, tanto da meritare l’appellativo di “città
delle cento chiese”. E dire che anticamente era attraversata da tanti corsi
d’acqua- poi tombati -da essere chiamata la “Venezia del Sud”, e contava gran
quantità di mulini. L’intreccio delle
etnie e delle religioni emerge non solo dalla incredibile varietà
architettonica, ma anche dalla ricchezza dei templi, perché non di rado i
mecenati, pur se islamici o ebrei, hanno contribuito lautamente
all’abbellimento delle chiese. Ad esempio il duomo di San Pietro, nel cuore
della città bassa, deve il suo splendore artistico anche alla generosità di
alcune dame, tra cui una baronessa islamica del XVI secolo, che (vox populi) donò
1500 chili d’oro al tempio. Naturalmente, la dama - Petra Mezzara - non solo ha
trovato eterna dimora nel duomo, ma l’evento è commemorato in un dipinto
rappresentante una campana accanto alla luna islamica. Come se non bastasse, il
duomo, in origine dedicato alla Vergine, è stato poi intitolato anche a lei,
Petra, giocando con il nome del principe degli apostoli. Davanti alla scenografica
scalea ogni anno, durante la Pasqua, si celebra, tra una moltitudine
tripudiante, l’incontro tra la Madonna e il Figlio risorto: è la
rappresentazione sacra della Madonna Vasa[bacia] Vasa.
Anche a
Modica, come a Ragusa, è un saliscendi continuo tra la città alta e quella
bassa, tra vicoli e scorci improvvisi di facciate incredibili di chiese
barocche precedute da scalee disseminate di statue di santi. La mia meta, qui,
è la casa museo del premio Nobel 1959 Salvatore Quasimodo, che custodisce foto,
documenti e ricordi del poeta; una volta dentro, mentre guardiamo le lettere e
gli oggetti in mostra, una voce registrata recita qualche verso, ad accrescere
la suggestione del luogo.
Sbucati in
strada ci inoltriamo tra la calca. Ovunque, folla e vita, negozietti e bazar di
gusto arabo che esibiscono secondo l’uso orientale le loro meraviglie, e le
ceramiche coloratissime; ovunque e a tutte le ore puoi gustare le favolose
granite al “granado” (il melograno, qui si è conservato il nome spagnolo),
oppure gli arancini di Montalbano e i cannoli alla ricotta, o le “scacce”[sorta
di focacce imbottite]. E poi, Modica, capitale di un’antica, vastissima e
potente Contea che persino Federico II tenne nella dovuta considerazione, ha un
altro asso nella manica, ed è la sua famosa cioccolata, ottenuta con una
ricetta spagnola di lontane origini azteche; in tutti i formati e gli aromi,
minuscole schegge della dolce leccornia fanno bella mostra di sé, pronte a
catturare i golosi per l’assaggio.

Noto vanta numerosissime chiese, dalle
splendide facciate convesse, e dimore nobiliari come palazzo Nicolaci, dalle
stupefacenti mensole figurate. All’epoca le maestranze si erano specializzate
nella decorazione plastica e nell’intaglio di elementi architettonici, e i balconi
del piano nobile tolgono il fiato per le figure fantastiche sempre diverse,
esempi di un variegato repertorio decorativo.
Di fronte
all’ampio prospetto classicheggiante della cattedrale- dedicata a S.Nicolò di
Mira - che custodisce le reliquie di S.Corrado Confalonieri - si gode la
visione dell’elegante palazzo municipale intitolato al leggendario fondatore
della città, Ducezio, vissuto nel V secolo a.C., l’eroe che resistette all’espansionismo
greco.
Circondato su tre lati da un loggiato a pilastri e colonne addossate su
cui corre un’elegante cornice e una balaustra a colonnine, è sopraelevato, e
all’interno si ammira un fastoso salone degli specchi, utilizzato in passato
come teatro, biblioteca e sala di rappresentanza.
Facciata
classica, presenta, poco distante dal Municipio, il teatro comunale, voluto dal
l’intendente Salvatore La Rosa, inaugurato nel 1970, e intitolato all’attrice
Tina di Lorenzo, di origini netine. Non si è mai allontanata da Noto, al
contrario dell’attrice Tina, la poetessa ottocentesca Mariannina Coffa (1848-1878) la Saffo netina, morta
giovanissima. La stele marmorea che la ricorda campeggia in piazza XVI Maggio,
accanto alla fontana di Ercole egizio.
Città
opulenta, piena di vita e di turisti, attenta alle proprie tradizioni sacre e
profane, di cui ho apprezzato il progetto di museo diffuso applicato alla
visita guidata delle chiese, Noto appare lontana non appena entriamo
nell’atmosfera sonnacchiosa di Scicli.
Sorta su
tre colli, a 90 km da Malta e a 300 circa dall’Africa, è stata sin dall’inizio
un presidio militare. Come i materani, gli sciclitani abitarono nelle grotte
fino agli anni ‘50, ed erano chiamati “aggrottati”, finché non furono
trasferiti nella fondovalle. Qui si cerca di alimentare la “presenza” di
Montalbano, e persino il calendario ne porta il nome. Davanti al Municipio campeggia
la locandina che avverte i turisti: questo è il “Commissariato” della fiction.
Ma
mi intriga di più la chiesa di S.Teresa, con annesso monastero delle clarisse.
Intrigante perché nella parete absidale che dà sulla strada è ancora visibile
il finestrino dove era posizionata la “ruota degli innocenti”, messa lì perché
le clarisse potessero prendere i bimbi abbandonati. Gli altari, poi, sono di
legno- una novità - coperto con finto oro zecchino, mentre quello maggiore è
abbellito da diversi specchietti in cornici dorate e lavorate, una singolarità
che dobbiamo alla tradizione spagnola così amante del fasto. Un’altra
particolarità di questa chiesa è la statua lignea del Cristo in croce, che due
dame hanno inteso alleviare dalle sue sofferenze togliendogli la corona di
spine e sostituendo i chiodi con delle rose di seta. Una visione davvero
sorprendente, e tenera per il suo significato.
Il quadro
del beato inglese Simon ci ricorda che fondò l’Ordine dei carmelitani scalzi, e
sono in auge, in diversi affreschi, due eremiti, Corrado e Guglielmo.
Ma la vera
sorpresa è la scoperta della Madonna della Milizia, una statua a cavallo vestita
e imparruccata, armata di spada, ora custodita sotto vetro nella chiesa madre.
Essa entra in scena l’ultimo sabato di maggio. A quella data, infatti, si
rinnova la battaglia del1091, quando gli sciclitani, all’epoca già normanni,
avvistarono una flotta saracena in avvicinamento. Benché pochi, si apprestarono
animosi alla pugna, e quando ormai erano prossimi alla disfatta, intravidero
increduli una donna che avanzava a cavallo brandendo la spada e incitando gli
uomini a resistere. Scicli si assicurò così la vittoria, e da allora questa
leggenda di tono epico- che ricorda le storie dei paladini e quella della
Pulzella d’Orléans - accarezza il cuore degli sciclitani.
Non è invece una leggenda la storia di Pietro
di Lorenzo detto Busacca [soprannome dato agli ebrei convertiti al
cattolicesimo]. Ricco banchiere ebreo vissuto nel XVI secolo, si convertì, e la
sua munificenza ha segnato da allora la storia di questo centro del ragusano. Infatti,
grazie all’ingente fortuna accumulata nel Regno di Sicilia, egli dispose che
alla sua morte i suoi averi fossero destinati agli altri. Fino all’Unità
d’Italia e oltre la sua eredità venne impiegata per completare l’impianto
urbanistico della città e per costruire importanti infrastrutture. Tre secoli
dopo la sua morte venne costruito il palazzo di Via Nazionale a lui dedicato, e
destinato ad ospitare gli uffici amministrativi dell’omonima Opera Pia che tra
la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 ha costruito un avveniristico ospedale
intitolato sempre a lui. La comunità, grata, ha anche fatto realizzare in onore di Busacca una bella statua marmorea che domina la piazza di
Scicli.
Rita
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