di Rita Frattolillo

Cominciare la lettura di questo romanzo che è considerato
l’opera più importante scritta in lingua spagnola dopo il “Don Chisciotte della
Mancia” di Cervantes mi ha comportato una
certa fatica per superare il dépaysement iniziale. Alla struttura narrativa articolata
su diversi piani di lettura, si aggiungeva il ricorso dell’A. alla mescolanza
di futuro e passato (prolessi =previsione;
analessi=flashback). Poi, si trattava per me di penetrare in un mondo completamente
diverso, in cui gli esseri umani convivono mescolati in tutta naturalezza con gli animali e le piante,
che siano formiche scarafaggi rane farfalle tarli, e poi fiori e foglie, vivi o
appassiti. E familiarizzare con quel contesto. Gli uomini e le donne di “Cien aňos de soledad” non conoscono il compromesso, l’ipocrisia, la
falsità: esseri primitivi, semplici, arcaici, che agiscono governati dalla loro passione
dominante, che quasi mai è quella giusta; non sono capaci di liberarsene, per
cui in definitiva sono vittime di se stessi, in quanto vivono accartocciati su
di sé, tra sentimenti e gesti ripetitivi. E non riescono a scrollarsi di dosso
il fato della solitudine: mai e poi mai i Buendìa riescono a condividerla con
chi vive accanto a loro, nella stessa casa. Questo microcosmo arcano tuttavia, con lo
scorrere delle pagine, del tempo e dei fatti, assume una risonanza universale, una
dimensione mitica. E a Macondo, poi, villaggio
“di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume
dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed
enormi come pietre preistoriche”, nessuno si meraviglia, le cose succedono e
basta, viene accettato tutto. Eppure,
la
quotidianità dei fatti si accompagna ad eventi
magici, come la salita al cielo di Remedios la Bella, le farfalle che
accompagnano Mauricio Babilonia e ne annunciano la presenza, l'apparizione
dell'Ebreo Errante, il diluvio che
dura più di quattro anni, la pioggerella
di minuscoli fiori gialli, il vento misterioso che distrugge il villaggio. Tutti
eventi soprannaturali intrecciati alla
quotidianità che disorientano. La
scrittura di Màrquez, densa, intensa, inusuale nell’aggettivazione come nei
paragoni, che porta con sé il retaggio dei miti, delle tradizioni ancestrali del
continente sudamericano fa il miracolo,
creando un’atmosfera evocativa, “magica”. Atmosfera strana, grazie anche al rapporto particolare
- e al confine labile - tra i vivi e i
morti. Perché questi ultimi, pur di non sentirsi soli tra gli altri morti,
tornano tra i vivi. Lo fa Melquíades,
quando “scosse la polvere della loro vecchia amicizia. Lo zingaro era stato
nella morte, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la solitudine”(p.50). Lo fa Prudencio Aguilar: “Dopo molti anni di
morte, era così intensa la nostalgia dei vivi, così incalzante il bisogno di
compagnia, così terrificante la prossimità dell’altra morte che esisteva dentro
la morte, che Prudencio Aguilar aveva finito per voler bene al suo nemico [Josè
Arcadio] e lo stava cercando chiedendo di lui ai morti che arrivavano dalla
palude”(p.77). E con molta naturalezza
Amaranta [che conosce il giorno della sua morte] si fa consegnare i messaggi
per i morti che lei stessa porterà nell’aldilà, così come Amaranta Ursula e
Aureliano sono “svegliati dal traffico dei morti che parlavano e pregavano”
nella stanza accanto. Ebbene, i morti
cercano i vivi – anche se erano loro rivali o nemici - e tornano da loro per
stare in compagnia, al contrario i vivi Buendìa, come il colonnello Aureliano,
che “grattò per parecchie ore, cercando di romperla, la dura crosta della sua
solitudine”, non ci riescono mai a condividerla. L’unico che avrebbe potuto
spezzare questa condanna, è un frutto dell’incesto, e, in quanto negazione
dell’apertura all’esterno, deve morire, decretando la fine della stirpe. E’ stato detto che Màrquez ha inseguito tutta
la vita il senso della solitudine; forse. Ma, al di là dei collegamenti sicuramente
esistenti tra la biografia di Márquez e i fatti narrati e trasfigurati nella
narrazione, che riflette in maniera fantastica la realtà colombiana e
sudamericana, alcune storie dal sapore mitico sono state sicuramente ispirate a quelle che raccontava la nonna dell'autore,
nella grande casa dove García Márquez è cresciuto
da bambino. Dando ragione, ancora una
volta- per ragioni diverse- sia a Proust che al critico Sante-Beuve, il quale era convinto
che
E Proust scriveva che la profondità di un’opera è direttamente
proporzionale alla profondità del”getto
artesiano” da cui è zampillata…Certamente “Cent’
anni si solitudine” è venuto da una bella profondità!
La trama
Non è facile districarsi nell’intreccio
delle vicende e nella folla di comprimari e figure secondarie, tutti dotati di
una spiccata indole, descritta dall’A. con pochi tratti significativi.
La moglie del capostipite José Arcadio, che è anche sua
cugina, Ursula Iguarán, rappresenta a
mio avviso l’ossatura portante del romanzo, e non solo perché vivrà per tutto
il tempo, arrivando a 115/ 122 anni, così da poter conoscere i membri di tutte le generazioni della
famiglia. Anche per questo motivo, durante la vecchiaia, ha la sensazione che
il tempo non passi mai, e confonde i bisnipoti coi suoi figli ormai morti; tra
le sue frasi: “Il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto
onesto con la solitudine” .
Caratterizzata da buon senso, notevole forza d'animo e grande capacità lavorativa (“finché Dio mi dà vita, non mancheranno mai i
soldi in questa casa di pazzi”), all’inizio aveva resistito alle
legittime avances del marito-cugino, terrorizzata dall’idea di generare – a
causa della consanguineità - un figlio con la coda di maiale, come aveva
sentito dire in famiglia. Perciò era arrivata ad indossare durante la notte
una cintura di castità fabbricatale dalla madre, ma poi aveva ceduto, e di figli la coppia ne avrà
tre, José Arcadio, Aureliano e Amaranta.
Un’altra bambina, Rebeca, sarà adottata, ma porterà con sé diversi problemi: anzitutto l'abitudine di nutrirsi di terra e di
succhiarsi il pollice. Poi, soffrendo della peste dell'insonnia, finirà per
contagiare l'intera Macondo. E qui ci sono riflessioni straordinarie di Màrquez
sul valore della memoria e del ricordo.
Intanto, José Arcadio senior s'impone
come autorità saggia e imparziale del villaggio finché non arriva una tribù di
zingari, guidata da Melquíades, vero deus ex machina del romanzo, il quale di
anno in anno porta le novità e le invenzioni più disparate, come la calamita ed il
cannocchiale. Così, seguendo i ragionamenti e i marchingegni dello zingaro, José Arcadio Buendía si abbandona a una sorta
di follia, si assorbe in esperimenti
scientifici deliranti, gettando al vento
i risparmi familiari e perdendo di vista la crescita dei figli. Per fortuna
Ursula riesce a farlo ragionare, facendogli ritrovare responsabilità,
autorevolezza, e l’amore per i figli.
Ma un giorno, ossessionato dal tempo che non
scorre, ha un eccesso di pazzia che costringe la famiglia a legarlo ad un castagno,
dove rimarrà fino alla morte, al cospetto dei parenti, intento a chiacchierare con il
fantasma di Prudencio Aguilar, un uomo che aveva ucciso anni prima.
Il
suo fantasma rimane sotto il castagno, visibile a tutti i componenti della
famiglia, tranne che al colonnello Aureliano, suo secondo figlio, che era stato
il primo bambino nato a Macondo, e che dopo la venuta degli zingari si era
specializzato nella produzione di pesciolini d’oro.
Passano
gli anni, la famiglia aumenta, il villaggio cresce e si evolve
emancipandosi, ma i nomi e i caratteri
di figli e poi nipoti Buendìa si ripetono, perpetuando certe caratteristiche,
come la forza fisica, la virilità esuberante, l’impulsività, una certa
inclinazione alla follia, la tendenza all’incesto, ma anche e soprattutto il
fatale senso della solitudine.
Aureliano, molto prima di cambiar vita e di prendere le armi diventando
colonnello, si innamora di Remedios
Moscote, una bambina di nove anni. Nonostante la differenza di età viene
combinato il matrimonio.
La
bambina si integra senza sforzo nella famiglia, prendendosi cura del suocero
José Arcadio sotto il castagno,
allevando il piccolo Aureliano José, mettendo pace tra le cognate Amaranta e Rebeca, che si odiano
perché innamorate dello stesso uomo, Pietro Crespi, un bell’italiano
biondo giunto in casa Buendía per
montare un pianoforte. Quando Pietro Crespi si fidanza con Rebeca (che però,
sedotta dalla forte mascolinità di José Arcadio, lo sposerà), Amaranta giura
alla sorella adottiva che impedirà con qualunque mezzo le sue nozze con
l'italiano.
Remedios muore fra le sue bambole, a soli 14 anni, per l'aborto
naturale dei due gemelli che ha in grembo. Questa tragedia lascerà il segno
perché Amaranta proverà un forte senso
di colpa, ma avendo “viscere di selce”, non acconsentirà mai a sposare Crespi, inducendolo al suicidio.
Passerà gli anni tormentata dai rimorsi, a tessere come Penelope il suo sudario
fino al giorno della sua morte. Giorno di cui aveva ricevuto un preciso
presagio.
Dopo la morte di Remedios, Aureliano si rinchiude in un profondo
silenzio finché, esasperato dal malgoverno e delle violenze dei militari,
decide di unirsi alla rivoluzione liberale contro il regime che sfocia nella guerra dei mille giorni (la quale nel
romanzo non dura tre anni ma venti). Durante la sua esperienza militare,
promuove trentadue insurrezioni senza successo, e concepisce diciassette figli
maschi (che finiranno tutti uccisi in età adulta) da altrettante donne diverse;
erano
le madri a mandare le figlie nel letto dei
guerrieri per migliorare la razza.
Rispettato e temuto anche dai rivali conservatori, sopravvive a
quattro attentati, settantatré imboscate, a un tentativo di suicidio, e ad un plotone d'esecuzione, per
finire i suoi giorni chiuso nel suo laboratorio a fabbricare pesciolini d'oro.
Dopo alcune tentazioni di riprendere la guerra per cacciare la prepotente
compagnia bananiera e l’assassinio dei suoi figli (tranne uno che si dà alla
fuga e verrà ucciso più tardi, quando ritornerà a Macondo), muore di vecchiaia
con la testa appoggiata al tronco del castagno del padre.
In “Cien aňos de soledad” non
mancano donne bellissime, come
Remedios la Bella.
Figlia
primogenita di Arcadio e Santa Sofía de la Piedad, fin dall'infanzia si
distingue per la bellezza fuori dal comune, e nonna Ursula non la lascia uscire
di casa, se non per andare a messa e completamente velata. Remedios vive in un
mondo tutto suo, rimane analfabeta, gira con una palandrana senza niente sotto.
Ma
la sua bellezza è mortale, e ossessiona gli uomini come un fluido
magico che li conduce alla morte. Un
pomeriggio ascende in cielo fra lo stupore delle altre donne della casa,
portando con sé il lenzuolo che stendeva all'aperto.
Un’altra
bellissima è Fernanda del Carpio, una nobile decaduta “intrecciatrice di palme
funebri”. Moglie di Aureliano secondo, è meschina, bigotta e superba. Tutto il
contrario del carattere del marito, che è gioviale, compagnone e pieno di vita, al punto che va a
convivere con Petra Cotes. Fernanda osteggia l'amore tra la figlia Meme (Renata
Remedios) e l'umile meccanico Mauricio Babilonia, un giovane con “una tristezza
da saraceno e un bagliore lugubre nel volto color autunno”(p.257). Quando
Mauricio rimane colpito dal fuoco delle guardie rimanendo paralizzato, Fernanda
costringe la figlia a divenire monaca. Tempo dopo, una suora le porterà il figlio di Meme, Aureliano
Babilionia, e Fernanda lo lascerà recluso in casa, vergognandosi della sua
nascita. Eppure sarà il nipote Aureliano
a conservare il cadavere della nonna Fernanda in attesa del ritorno del figlio
José Arcadio da Roma.
José
Arcadio era stato cresciuto da Amaranta,
e nutriva per la prozia una insopprimibile attrazione fisica, altro motivo di
tormento per la donna. Lui morirà tragicamente, da prete mancato, assassinato
nella vasca da bagno dai suoi ex compagni di bagordi spinti dal desiderio di
impadronirsi delle sue ricchezze.
Con
Amaranta Ursula siamo alle ultime battute del romanzo. Terzogenita di Aureliano Secondo e Fernanda
del Carpio, viene mandata a studiare a Bruxelles dal padre,
e torna a Macondo insieme al marito
belga Gastón, piena di idee di
rinnovamento. Donna dalla mentalità
aperta, amante della moda e del ballo, sessualmente esuberante, si innamora del nipote Aureliano Babilionia (figlio di
Meme e Mauricio Babilonia), che crede suo fratello adottivo mentre è suo nipote.
Costui, dopo la morte della nonna Fernanda e dello zio José Arcadio, andava spesso in libreria dove comprare libri
allo scopo di decifrare le pergamene in sanscrito di
Melquíades. Uomo incredibilmente colto, non
riesce a reprimere la sua passione per la zia, che lo ricambia dimentica di
tutto e tutti. Lei muore di parto, dando alla luce l'ultimo Buendía.
Il quale nasce massiccio, predisposto quindi a cominciare una nuova
stirpe dal principio, e a “purificarla dalla sua vocazione solitaria”, perché
era “l'unico, in un secolo, ad essere stato generato con amore”. Ma scatta la punizione
“divina” sotto forma di un biblico vento
che spazzerà via ogni traccia del villaggio. Inoltre il neonato ha la temuta coda di maiale, in quanto figlio incestuoso (si
avvera così il vecchio timore dell’ava Ursula). L'incesto
- il freudiano mito di Edipo-, è visto quindi, in ultima
analisi, come autodistruzione della stirpe.
Il giorno successivo alla
nascita, il neonato viene divorato dalle formiche
rosse, come previsto dalle pergamene di
Melquíades: « Il primo della
stirpe è legato a un albero, e l'ultimo se lo stanno mangiando le
formiche. »

Melquìades non fa parte della famiglia,
ma è strettamente collegato con i Buendìa. Costui è una
figura chiave del romanzo, dove compare e scompare di continuo. Tra l'altro, salva Macondo dalla malattia dell'insonnia, somministrando
agli abitanti un antidoto contro l'oblio. Dopo anni di assenza, torna al paese
e rimane a vivere a casa Buendía, rinchiudendosi in una stanza dove si dedica
alla profezia sulla fine della stirpe. Dopo la sua morte il suo spirito resta
nella stanza per sempre.
Pilar Ternera è amica di
Ursula, di mestiere indovina (legge il futuro con le carte) e donna tuttofare. Dotata di un erotismo attraente
per i giovani Buendia, darà dei figli a
José Arcadio e Aureliano, (rispettivamente Arcadio e Aureliano José). Tenutaria
di un “bordello zoologico” (cioè con
annesso zoo) in età avanzata,
muore dopo aver raggiunto i 145 anni e viene seppellita seduta su una sedia,
per sua volontà. La sua morte, come
quella di Ursula, segna la fine della stirpe dei Buendia e di Macondo, insieme alla profezia di
Melquíades.
Rita
Frattolillo © tutti i diritti riservati 2017
1 commento:
Quello di Gabriel Garcia Marquez è un capolavoro di debordante fantasia che lessi tanti anni fa. Ricordo che faticai a riallacciare tutti i fili della saga dei Buendìa come hai fatto tu. Per cui, onore al merito, brava come sempre
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