di
Rita Frattolillo
Nel maggio1967,
un mese prima che si spegnesse ad appena 44 anni, don Lorenzo Milani pubblicava
un volume scritto insieme ai suoi alunni, i ragazzi della sperduta frazione di
Barbiana, nel Mugello.
“Lettera a una professoressa”, questo il titolo, ebbe
l’effetto di un sasso nello stagno.
Perché essa dava voce a ragazzi poveri, considerati i paria della socità, e poi
perché denunciava forte e chiaro il
sistema scolastico e un metodo didattico
che, favorendo l’istruzione delle classi agiate, i cosidetti “Pierini”,
abbandonava all’ignoranza la maggior parte del Paese.
Ma chi era Don Milani?
Un sacerdote, insegnante, scrittore ed educatore, che, con quei ragazzi,
aveva tentato una sperimentazione di scuola a tempo pieno, realizzando un
collettivo dove si lavorara tutti insieme, e chi sapeva di più aiutava gli altri.
Dopo la sua morte, don Milani è diventato un punto di riferimento
per il cattolicesimo socialmente attivo e per il suo impegno civile
nell’istruzione dei poveri.
Tra le tante battaglie portate avanti – che hanno
fatto di lui una figura scomoda e controversa, spesso in conflitto con le
gerarchie ecclesiatiche – quella per difendere l’obiezione di coscienza.
Nato (27.05.1923) a Firenze da un agiata
famiglia ebrea, era cresciuto in un ambiente agnostico e anticlericale, molto vivace dal punto di vista intellettuale.
A Milano, dove si era trasferita, la famiglia
si trovò isolata a causa dell’ascesa del nazifascismo, sicché corse ai ripari adottando
misure sociali più ortodosse, e battezzando, negli anni ’30, i figli. Ma la
vera conversione in Lorenzo avvenne dopo la lettura di un vecchio messale
rinvenuto casualmente e dopo l’incontro con don Raffele Bensi, in
seguito divenuto suo direttore spirituale.
La morte di don Milani , sopraggiunta il
26.06.1967dopo una devastante malattia, accrebbe l’interesse per la “Lettera a una
professoressa”, che - naturalmente - ebbe un impatto fortissimo
nel mondo della scuola, divenendo tra l’
altro uno dei moniti del movimento studentesco iniziato a Parigi nel maggio
’68.
Nel Molise,
è la docente e scrittrice Elvira Santilli Tirone ad affrontare
il magma creato nella bistrattata classe insegnante dalla presa d’atto della “Lettera” con il romanzo A colloquio con Belzebù, uscito nel
1991, e vincitore del Premio nazionale“Scopri l’Autore”.
L’A. presta al protagonista del suo romanzo,
Arturo Rivolta - rivoltoso solo nel nome
- la propria esperienza di docente, inoltrandosi in sentieri a lei noti e quotidianamente
praticati.
Arturo Rivolta è il 47enne padre di quattro
figli, ed ha una moglie, Clara, maestra in una scuola di campagna, attenta al
risparmio e serena con se stessa, a differenza di lui, perché “anziché porsi
sui trampoli si rifugiava sulle alture con la sua anima dove udire l’eco
sprofondata degli spazi che poteva dare
un senso alla vita”.
Arturo,
invece, si macera nel perenne dubbio della propria inadeguatezza come
professore, malgrado una buona preparazione, pure se riesce a tenere la barra
dritta nelle classi e ama sinceramente il suo lavoro e i ragazzi. Privo di un temperamento forte e deciso, incapace
di far valere i propri principi, è schivo e riservato, e non è certo aiutato dal
suo diavoletto, Belzebù, che è dispettoso, malevolo, e pure cattivo consigliere. Questo il quadro.

Ma arrivare al 27 del mese è sempre più
faticoso, da quando i ministri Misasi, Sullo e Ruberti, uno dopo l’altro, hanno fatto “piovere” dall’alto sulla Scuola
italiana una serie di riforme, in primis l’obbligo della frequenza per tutti
fino alla terza media.
Qui
tocchiamo il cuore del romanzo, perché la
Tirone descrive dall’interno il momento
incandescente delle riforme - scaturite anche dall’esperimento
di don Lorenzo Milani - che divise la classe docente di tutt’Italia, tra fautori e
contrari.
L’A.
dipinge con maestria e onestà
intellettuale quella svolta epocale, perché anche lei in quella fase insegnava
alla Media, e percepiva il malessere di
chi - dovendo “maneggiare” una “materia” viva
- era chiamato a rivedere metodo e sistema perché in alto qualcuno così
aveva deciso, ma senza curarsi di formare e preparare adeguatamente al nuovo corso
i docenti, che dovevano improvvisare facendo leva esclusivamente sulla propria abilità di
insegnanti, sull’intuito, e sulla loro
capacità di adattamento.
Bisognava insomma affrontare - ognuno da solo - una realtà in ebollizione,
improvvisando.
Una
grossa, continua responsabilità, dai risultati
difficilmente valutabili.
Quando
giunge nella scuola di Rivolta il libro degli otto ragazzi di Barbiana, l’A. inscena l’infuocato confronto tra l’energica e
autoritaria prof. Mencarelli (l’esatto contrario di Arturo) e la preside
Spinelli, nome prestato ad Angela Freda,
la preside che realmente aveva retto, e con autorevole prestigio, il Liceo
classico di Larino.
E’ l’occasione per difendere la dignità e
l’importanza formativa del latino, che
don Milani aveva definito “lucignolo spento” perché nessuno dei suoi ragazzi lo
aveva scelto. E come avrebbero potuto, visto
il loro bagaglio di sopravvivenza
e gli obiettivi che si erano posti?
Ma è
anche l’occasione per prendersela con quegli uomini di cultura che non avevano
difeso dagli insulti di certi sapientoni il lodevole decoro con cui i proff si erano
sobbarcati il peso delle riforme, si erano accontentati di magri stipendi,
vedendo - per tutta risposta - ignorata e
distrutta la loro umanità. E uno strale viene lanciato in direzione del
problema della famiglia in cui la madre lavora.
La
scuola a pieno tempo era praticata allora solo da don Milani, che viveva con i
suoi ragazzi, mentre in quella pubblica era ancora un’ipotesi; ma l’interrogativo si poneva, ed
era forte: a chi lasciare la cura di figli, marito e vecchi, se le proff devono
lavorare anche il pomeriggio?
Elvira
Tirone in questo bello, vero, profondo romanzo, si dimostra donna di scuola nel
senso più pieno dell’espressione, capace com’è di far rivivere ai lettori la vita tra i banchi durante l’anno
scolastico; riferisce episodi e vicende da gustare particolarmente per la
vivacità della scrittura, come quando parla degli esami di stato cosidetti
“sperimentali”, ma durati anni e anni; o come quando Rivolta, da rappresentante
interno, battaglia per far rispettare la scala dei valori della classe.
Rappresenta
senza fare sconti l’unicità della classe docente, una categoria sempre pronta a
intavolare discussioni, anche speciose e inutili, e purtroppo disunita e
confusionaria specialmente nei momenti decisivi.
Forte
della sua esperienza personale e della sua profonda capacità introspettiva,
Elvira descrive gli umori dei vari
docenti, tutti tipi scalpellati di fino.
Passato alle superiori come desiderava da
tempo, Rivolta nella nuova scuola non si integra e rimpiange i vecchi colleghi,
soprattutto l’autoritaria e decisa sig.na Gilda Mencarelli, l’unica con
cui egli si apriva. Contestato con violenza e lancio di uova da
una scolaresca particolarmente ribelle, intrisa di idee pseudoproletarie,
decide di prepensionarsi.
Un affronto subito e
una sofferta decisione che tacerà persino alla moglie. E’ allora che Arturo
affida alla lettera per la sig.na Mencarelli l’analisi della propria crisi e
delle sue cause.
Una
lettera che è una sorta di testamento spirituale della Tirone.
La quale indaga nelle pieghe più nascoste di
Arturo, ma anche della moglie Clara, due
monadi che non comunicano tra loro: in fondo ognuna vive per conto proprio la
sua interiorità e risolve da sola - quando ci riesce - i propri problemi. Se
lei rimane sconcertata dal mutismo del marito quando apprende della sua grave
decisione, anche lui rimane annichilito quando scopre in casa dei foglietti a
cui lei, Clara, andava affidando le proprie riflessioni.
Ognuno,
sembra dire Elvira, è solo con se stesso e non esiste vero dialogo, vera
condivisione con gli altri.
Alla fine del romanzo il prof,
spinto dalla necessità dello stipendio pieno, e terrorizzato dalla prospettiva di giornate
vuote da trascorrere in casa - i figli all’Università, la moglie al lavoro -
torna sui propri passi, a scuola, perché sa di ritrovare fiducia solo nel contatto
restauratore con i suoi alunni.
Rientrato a scuola, quindi, viene bene accolto
proprio da quegli alunni che lo avevano contestato: ma ormai lui è come avvizzito, ancora più ripiegato su se
stesso, e anche il clima politico è mutato:
“I
bollori del ‘68 si andavano concentrando nella bocca dei mitra del terrorismo
che sgomentò i giovani, quella massa di giovani che aveva creduto nella
rivoluzione delle cose, la quale si era risolta solo in una festante e tragica
primavera della vita.
I
giovani sono arditi e generosi e quell’osservare che, mentre loro si
picchiavano fino a uccidere il compagno di scuola, altri pensavano a gonfiarsi
le tasche di denaro e ad acquisire potere, ridimensionava i loro
entusiasmi….Anche le assemblee scolastiche, svuotate dei contenuti politici,
erano scadute da ogni funzione culturale….Anzi, i più svegli e attivi del ‘68
si inserivano nel sistema affermandosi non solo per via politica, e mi viene a mente Mario
Capanna, ma spesso proprio in base alla solidità di una cultura umanistica
acquisita per sé e rigettata per la massa quale strumento di potere borghese”.
E siccome era il momento dello strutturalismo imperante,
ed esteso a tutti i settori della conoscenza,
Rivolta riflette amaramente che
“Negli
anni dei bollori era pur riuscito a portare qualche classe all’ascolto
di passi di Foscolo o Leopardi, ora invece tutto era diventato struttura e
analisi.
Di
che parlare a questi giovani? C’erano, sì, gli emarginati e il terzo mondo, la
droga e la mafia che potevano ancora agitare la generosità giovanile, ma più che
un ordinato dibattito, cosa potevano fare i figli del benessere?”
La conclusione amara, la sfiducia nel futuro,
evidente nelle ultime pagine, a mio avviso non offusca il monumento eretto da
Elvira alla unicità di una professione - di
cui lei è stata esponente di spicco - votata a forgiare le nuove generazioni.
E in
questi giorni, tra una “buona scuola” ferocemente criticata e contestata, e i
cambiamenti in vista – ultimo il nuovo esame di maturità appena annunciato
– il romanzo A colloquio con Belzebù, oltre a ritrovare una sua attualità, aiuta
a riflettere sulle questioni vitali che coinvolgono tutta la società, genitori,
giovani e docenti.
Rita
Frattolillo © tutti i diritti riservati 2017
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