di Rita Frattolillo
Poco meno di seicento
chilometri, di cui quattrocentotrenta percorsi sulla famigerata autostrada A3
Salerno-Reggio Calabria, tanto ci vuole per arrivare alla punta dello Stivale,
dai Bronzi. Il viaggio è lunghissimo, non si arriva mai, e Reggio Calabria sembra un miraggio. Tuttavia, a dispetto
delle lungaggini e del malaffare che gravano su questa autostrada, va detto che
essa è un capolavoro di ingegneria in “progress”, poiché si sta “raddrizzando” via via il tracciato, che ora trafora tutta la
dorsale appenninica: quindi si percorre una successione innumerevole di
tunnel congiunti tra loro per lo più da
viadotti, di cui alcuni spettacolari, come quello tra Muro e Brancato.
Lo sguardo, poi, è catturato da una natura bellissima, selvaggia ed esuberante. Le scarpate sono coperte da macchie di ginestre, pseudoacacie, biancospini, e sorprendenti note di colore sono offerte dagli iris violetti, che qui nascono spontanei. Il paesaggio è ampio, superbo, per lo più montuoso, alti picchi brulli sono preannunciati da alture ammantate di verde lussureggiante. L’auto corre affiancando il parco del Cilento (dopo Salerno), la cordigliera del Pollino innevato; più dolce la piana di Sibari, coperta da uliveti e serre, raro qualche insediamento urbano.
Lo sguardo, poi, è catturato da una natura bellissima, selvaggia ed esuberante. Le scarpate sono coperte da macchie di ginestre, pseudoacacie, biancospini, e sorprendenti note di colore sono offerte dagli iris violetti, che qui nascono spontanei. Il paesaggio è ampio, superbo, per lo più montuoso, alti picchi brulli sono preannunciati da alture ammantate di verde lussureggiante. L’auto corre affiancando il parco del Cilento (dopo Salerno), la cordigliera del Pollino innevato; più dolce la piana di Sibari, coperta da uliveti e serre, raro qualche insediamento urbano.
Dopo la Sila, ecco il
parco dell’Aspromonte, che invariabilmente mi fa pensare a Garibaldi;
all’improvviso appare il mare, azzurrissimo, ritagliato come una cartolina tra due alture: è il golfo di Santa Eufemia.
A trecentotrentaquattro chilometri da
Campobasso, stiamo percorrendo la litoranea, non possiamo fare a meno di
fermarci a Pizzo Calabro, l’antica Napitia fondata, secondo la tradizione, da
Nepeto. Sosta obbligata per il panorama spettacolare: sull’altra sponda si
staglia nitido lo Stromboli con il suo pennacchio che disegna una scia nel
cielo di velluto. Ma ci attira pure il misto di storia e leggenda che aleggia
tra la spiaggia e il castello. Imperdibile, anzitutto, la chiesa di Piedigrotta
- a due chilometri dal paese - un unicum nel suo genere.
Sulla spiaggia che una
volta era un covo di pirati, la roccia calcarea è stata scavata nel Seicento da
alcuni marinai napoletani, che, scampati a un naufragio, ne ricavarono una
grotta-chiesetta per ringraziare la Madonna di Piedigrotta a cui si erano
rivolti mentre pregavano sull’imbarcazione nel momento del pericolo. Nella
piccola cappella collocarono il quadro che avevano con sé, e che, malgrado
altre tempeste e la furia delle onde che penetravano nella grotta, rimase al
suo posto.Verso il 1880, un fotografo di Pizzo, Angelo Barone, decide di
dedicarsi a quel luogo sacro, abbandona la macchina fotografica e continua
l’opera dei marinai a colpi di piccone, ingrandisce la grotta lasciando dei
blocchi calcarei che poi modellerà creando ambienti e scene rappresentanti
miracoli, figure di santi, della Madonna e di Gesù.
Alla morte di Angelo, nel 1917, subentra il
figlio Alfonso, che dedica quarant’anni della sua vita alla chiesa, scolpendo
altri gruppi, capitelli, angeli, dipingendo la volta. Dopo la sua morte, la
chiesa conosce un lungo momento di abbandono e subisce diversi atti vandalici
che la riducono a un cumulo di macerie. Finché verso il 1965 un nipote dei
Barone, Giorgio, scultore affermato in Canada, torna a Pizzo per una breve
vacanza, e invece, dopo la visita alla grotta, decide di provare a restaurarla.
Lavora ininterrottamente per diversi mesi pur di far risorgere il capolavoro
creato dagli zii. Nel ’68 il restauro era concluso, e noi possiamo conoscere la suggestione di questo luogo
magico. Ci muoviamo esterrefatti nella penombra tra una selva di figure, sistemate
nella navata centrale e ai lati. Tra le
prime statue, quella di San Francesco di Paola, patrono della Calabria e delle
genti di mare di tutta l’Italia, qui raffigurato mentre attraversa sul proprio
mantello lo stretto
di Messina. Qua e là
luccica l’acqua marina che affiora dalle pietre. Verso il fondo, la
rappresentazione della natività è straordinaria: oltre le figure dei
protagonisti, colpisce l’effetto prospettico ricreato dal Barone con grande
perizia: i ponti, le case, le varie architetture, gli animali, gli alberi, sono
tutti in scala e ritmati sfruttando i dislivelli della grotta.
Il vivace centro storico
di Pizzo è dominato dal castello aragonese, costruito verso il 1300 come difesa
dalle incursioni saracene e piratesche e fortificato verso la fine del 1480. A
lavori ultimati, il castello ebbe funzione di prigione e un presidio militare.
Nei suoi seminterrati sono passati
carcerati illustri, come il filosofo Tommaso Campanella, il conte di Cagliostro
e Ricciotti Garibaldi, figlio di Anita e dell’eroe dei Due Mondi.
Passato di mano in mano, dopo l’eversione
della feudalità (1806) entra nel demanio, e poi è ceduto al Comune di Pizzo.
Dal 1982 è dichiarato monumento nazionale e con il nuovo millennio prende il
nome di castello Murat, perché qui, infatti fu fucilato il 13 ottobre 1815,
dopo pochi giorni di prigionia e un processo-farsa imbastito dai borbonici,
Gioacchino Murat, re di Napoli dal 1808. L’associazione che cura sia il castello che la grotta ha ricostruito
minuziosamente - con l’aiuto di manichini in costume e pannelli murali esplicativi - tutte le tappe degli ultimi giorni di vita di
Murat, dalla cattura per mano dei pizzitani aizzati dai borbonici alla fucilazione, passando per la breve
prigionia nelle celle del castello, per
il processo, la confessione con il canonico Masdea, la lettera di addio alla
moglie Carolina Bonaparte e ai suoi quattro figli.
Tutto
l’ambiente provoca un forte impatto sui visitatori, che sono tanti e si
aggirano nei freddi corridoi quasi con timore. Sul ballatoio, il punto in cui
Murat venne fucilato dopo aver chiesto di comandare lui stesso il plotone di esecuzione. Ordinò
di mirare al petto e di salvare il viso, ma i soldati, intimiditi, tirarono al
di sopra della sua testa. Dovette quindi ordinare di nuovo la carica pregandoli
di mirare diritto. E così fu. Cadde stringendo l’orologio con il ritratto di
Carolina. Aveva 47 anni, e le sue
spoglie riposano da quel giorno nel
Duomo di San Giorgio. La lettera scritta alla moglie le venne recapitata nientemeno nel 1835, quando lo scrittore Alessandro
Dumas, visitando il castello (come ricorda la lapide sul portale), ebbe modo di
ricopiarla dall’originale, e poté quindi consegnarla alla vedova.
Nel 1950 la principessa Nicole Murat ha donato
il busto in marmo di Gioacchino al Comune di Pizzo. L’autore, lo scultore
francese Jean Jacques Castex, amico personale di Murat, lo realizzò nel
1812 raffigurandolo in maniera classica
ma senza alcuna idealizzazione dei tratti, che risultano marcati come erano nella
realtà.
Nella sala del processo è
ospitata una collezione di monete di notevole interesse. Osservare le monete,
da quelle bizantine alle normanne, a
quelle angioino-aragonesi, infine a quelle borboniche dei vari periodi e a
quelle murattiane, è come sfogliare le pagine storiche fondamentali vissute
dall’Italia meridionale.
Uscendo da questa sala, si passa sulla terrazza che si apre sul golfo di
Sant’Eufemia, che rapisce per la sua immensità, mentre volgendo lo sguardo, si
può ammirare la piazza di Pizzo, un
salotto brulicante di gente che passeggia spensierata o sta comodamente
seduta ai tavolini dei bar mentre gusta
il celebre “tartufo” di Pizzo, la specialità gelatiera che rende questo paese
famoso anche all’estero.
Riprendiamo il cammino: le
montagne degradano rapide verso il mare, sicché i paesi sorgono su più livelli,
a terrazze, come Pizzo e Scilla.
Scilla è
un faraglione aspro su cui è arroccato il castello-fortezza dei Ruffo,
oggi adibito a location di lusso per
party e matrimoni. Giù, il borgo di viuzze e piccole barche colorate messe a
riposare.
Girare nella Magna Graecia
ci fa rivivere i miti di cui ci siamo nutriti negli anni grazie ai nomi
evocatori che qui si intrecciano. Come non pensare ad Odisseo, che, dovendo
passare tra i due mostri, preferì avvicinarsi a Scilla?
La bella ninfa, dopo
essere stata trasformata in mostro dalla gelosa maga Circe, divorava i
naviganti con le sue tante bocche, mentre Cariddi succhiava l’acqua del mare per risputarla
tre volte al giorno con tanta violenza da far naufragare le navi di passaggio.
Comunque Odisseo finì nel gorgo di Cariddi, salvandosi fortunosamente, e se più
tardi Enea riuscì a passare indenne attraverso lo stretto di Messina, è solo
perché Scilla fu trasformata nella
roccia che vediamo oggi.
Anche Reggio è costruita
su più livelli, al punto che hanno realizzato un tapis roulant stradale per
agevolare la popolazione, che si muove tra il primo baluardo costruito nel
Regno delle due Sicilie, il castello aragonese (dove Garibaldi e i patrioti
reggini innalzarono il tricolore il 21.08.1860), e il lungomare odoroso di
gelsomini e di acqua salmastra, passando per il piano intermedio, che accoglie
tra l’altro il più vasto edificio sacro dell’intera regione, il monumentale
Duomo, riedificato in stile neo-romanico dopo il disastroso terremoto del 1908.
Tre nomi rappresentano in
sintesi la storia antica di Reggio, città fondata dai Greci nel 730 a.C. , e
pesantemente devastata dai turchi nel
1594: il Leone di Nemea (lo stemma della città), San Paolo, e i Bronzi. Il
famoso leone sconfitto da Ercole durante una delle sue dodici fatiche sta a
significare non solo che il semidio sarebbe stato qui, nell’antica colonia
greca di Rhegion, ma soprattutto che la
popolazione gli era molto devota, come
del resto lo erano – assieme al culto del toro (basti pensare agli etimi di
Taurianova e Gioia Tauro) - i Sanniti e
diversi altri popoli antichi.
La risposta al mito è venuta dalla
predicazione del Vangelo da parte di San Paolo, il quale, durante il viaggio da
Cesarea a Roma nella primavera del 61 d.C. (Atti
degli Apostoli, 28,13), provenendo da Siracusa approdò a Reggio. Sempre
secondo la tradizione, l’approdo (ricordato da un cippo posto sulla spiaggia)
avvenne durante i festeggiamenti in onore di Diana Fascelide. Si racconta che Paolo
ottenne di parlare alla folla pagana festante fino a che fosse durata la fiamma
di una lucerna posta su una colonna; ma avvenne che, consumatasi la fiamma,
iniziò ad ardere la colonna di pietra, che con la sua luce consentì a Paolo di
parlare alla folla fino al mattino.
Si deve dunque
all’apostolo - considerato fondatore della Chiesa reggina e patrono
dell’Arcidiocesi (dal 1980) - l’impianto sul suolo calabro della prima comunità
cristiana, con a capo Santo Stefano di Nicea, che fu lasciato come primo
vescovo della città dallo stesso Paolo, prima di ripartire alla volta di
Pozzuoli.
I resti della colonna si
conservano nel presbiterio del Duomo, e la raffigurazione del prodigio si
ripete in diverse opere, dalla formella
del Portale destro fino al dipinto nella ricchissima cappella del Sacramento.
Forse è proprio la simbologia della luce,
insita nell’immagine antichissima della svastica, a spiegare l’apposizione di
piccole croci uncinate dorate all’incrocio di tutte le travi del soffitto del
tempio. In effetti il simbolo della svastica, risalente al 4000 a.C., si trova
in iscrizioni e pitture dall’India all’America dei pellerossa, passando per la
Cina, l’Asia Mesopotamica e la Grecia. Sempre dotata di un significato beneaugurante,
collegato alla prosperità e al culto del sole, nelle Sacre Scritture ha
preannunciato la venuta del Messia. Dal primo Novecento la croce uncinata,
falsamente ritenuta tipica delle “razze” ariane, è stata assunta come emblema
di movimenti antisemiti e dal 1933 come stemma del partito nazionalsocialista
hitleriano.
Oltre al Duomo dedicato
all’Assunta, vi è una testimonianza ancora più antica del culto per la Vergine:
si tratta della chiesa degli Ottimati, situata accanto al castello. Prende il
nome dalla congregazione dei nobili della S.S. Annunziata e fu eretta nel XII
sec. per opera dei Normanni, i quali tenevano ad evidenziare la loro “nuova”
fede. Ha subito nel tempo molte traversie, passando da un culto all’altro, e, di
conseguenza, mutando alcuni tratti. Finché nel 1927 l’architetto Pompilio Seno
adottò l’impianto bizantino preesistente che era stato demolito nel 1916, ed è
sotto questa veste che la chiesa degli Ottimati si può ammirare oggi.
Per giungere al museo percorriamo un buon
tratto dello splendido lungomare, dove due targhe ricordano Ciccio Franco
(l’esponente missino del “Boia chi molla!”) e Italo Falcomatà, il sindaco (dal
1993 al 2001, anno della morte prematura)
che si è battuto contro la ‘ndrangheta e che è riuscito a sbloccare i
fondi del Decreto Reggio lungamente attesi per
risanare e sviluppare il
capoluogo.
Si intravedono bei palazzetti storici molto
decorati- come villa Zerbi – allineati dietro alla doppia infilata di palme
slanciate e magnolie giganti che ombreggiano giardinetti e panchine. I passanti
che interpelliamo si mostrano “preparati” sulle vestigia antiche e meno antiche tra cui si muovono, sono rilassati
e indugiano volentieri inoltrandosi senza risparmio nelle varie delucidazioni.
Ci colpisce l’ospitalità e il calore dei reggini, ben lieti di prodigarsi in
spiegazioni e informazioni. Sarà l’aria di festa, ma qui l’Expo, la crisi, gli
sbarchi, sembrano un’eco lontana, non si vedono vù cumprà in giro con le loro cianfrusaglie stese, e le famiglie fanno lo “struscio” a frotte, gustando distrattamente chilate di gelato.
La città ne è piena, di gelaterie, poche invece le
rivendite di alimentari, almeno qui al centro,
in compenso sono molti i negozi di abbigliamento, specie sul Corso
Garibaldi; qui esiste ancora il Banco di Napoli e resiste pure qualche insegna in francese,
traccia del tempo che fu. Sulla destra,
oltre la striscia di mare color del vino - come dice Omero - è di scena la
fantastica visione dell’Etna innevato e il profilo cinerino dei monti
Peloritani alle cui pendici è adagiata Messina…Se allunghi un braccio, sembra
di poter toccare il vulcano!
Il museo nazionale è allestito nell’imponente palazzo della
Soprintendenza di Reggio Calabria che dà sulla piazza dedicata al deputato
riformista Giuseppe De Nava. Nell’edificio, progettato dall’architetto Piacentini,
che tanto lavorò durante il ventennio fascista,
attualmente i reperti esposti
sono davvero pochi, ma sono di grande interesse per quel che
rappresentano: il piccolo Kouros di terracotta dai capelli rossi e ricci, del
VI sec. A.C., si ritiene fosse una creazione locale, in quanto Rhegion era sede di laboratori.
Poteva esse destinato come
segnacolo per una tomba oppure come ex-voto donato ad un santuario. Ai due
Dioscuri sorretti da Tritoni (V sec. a.C., provenienti dal tempio di Marazà di
Locri) erano devoti i locresi, i quali,
secondo la tradizione, erano stati
guidati dai due gemelli figli di Zeus (venuti appositamente dal mare con
l’aiuto dei tritoni) per sconfiggere i crotonesi nella battaglia del fiume
Sagra. Poi c’è un giovane cavaliere marmoreo sostenuto da una sfinge, anch’esso
del V sec. a.C., scoperto a Locri.
Ma eccoli, finalmente, belli e impossibili
nella loro perfezione assoluta: i due fieri personaggi di bronzo, a cui
possiamo accedere solo dopo l’obbligatoria sosta per la decontaminazione nella sala-filtro, sono ben sistemati sulle
basi antisismiche. L’emozione è profonda al pari dello stupore perché i due
giganteschi guerrieri (alti circa due metri), denominati A e B, sulla cui
“identità” gli studiosi si sono accapigliati offrendo le ipotesi più
fantasiose, sembrano voler parlare, e pronti
per staccarsi dalla loro base. Rappresentavano delle divinità, oppure
degli eroi come Achille e Aiace? Quest’ultimo era stato comandante dei Locresi
di madrepatria durante la presa di Troia e oggetto di venerazione nella colonia
magnogreca, quindi favorito rispetto al Pelìde . Gli artefici erano greci o
artisti “locali”? Qualcuno ha fatto il nome di Fidia, o della sua scuola. Il
più giovane, B, è “nato” una quarantina d’anni dopo, lo si capisce perché ha
più rame rispetto ad A, e inoltre gli esperti, analizzando la forma del
ginocchio, hanno decretato persino che l‘originale doveva soffrire di artrosi….
Sia come sia, questi due
campioni lasciano tutti i visitatori attoniti, e mai paghi di contemplare la
leggera torsione del dorso, i dettagli delle venature superficiali, delle
unghie, la perfetta riproduzione dei volumi della muscolatura …. Si ipotizza
che le statue siano state intenzionalmente nascoste per sottrarle alla
distruzione imposta dalla cristianizzazione. Oppure sarebbero state sottratte
durante il saccheggio di Locri Epizefiri compiuto nel 275 a.C. da Pirro re dell’Epiro
(ricordato dalle fonti per aver spoliato dei suoi tesori il tempio locrese di Persefone). Ma forse un naufragio
della nave ha salvato questi capolavori dalla ingloriosa fine che probabilmente
li attendeva a Roma, dove quasi sicuramente sarebbero stati sciolti nel fuoco -
il bronzo è sempre stato un metallo molto richiesto. Queste, alcune delle
ipotesi avanzate, ma che il mare di Riace
Jonica li abbia ben custoditi fino al
1972, quando avvenne la scoperta, è una fortuna (per loro e per noi) su cui
forse non ci si sofferma abbastanza: i Bronzi hanno attraversato i secoli nel
silenzio degli abissi giungendo integri fino a noi.
Foto del bronzo B
Dopo il terzo, incredibile
restauro a colpi di endoscopie e gammagrafie che li ha “ sanati”, questi
giovanotti che hanno i millenni sulle proprie spalle sono offerti per l’eternità alla fama e alla
meraviglia di noi uomini moderni, che, mentre siamo rapiti dalla loro altera,
indifesa nudità, volgiamo - immancabilmente - il pensiero all’ideale greco di
cui sono altissima espressione: la bellezza dell’uomo considerata quale
proiezione dell’armonia dell’universo e componente essenziale della “virtù”,
alla stregua delle capacità intellettive e morali.
Un pensiero purtroppo
smarrito nel caos della nostra post-modernità dissipata e problematica.
Rita
Frattolillo 2015© tutti i diritti riservati
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