lunedì 28 novembre 2016

Le donne del Molise e il Fascismo


 Rita Frattolillo


           Il regime, fin dall’inizio, seppe blandire - e sfruttò con successo - il desiderio delle donne di servire da un lato la comunità nazionale e dall’altro di soddisfare la loro esigenza di impegno pubblico, e si adoperò per creare la “donna fascista per l’Italia fascista”, sottolineandone, con il pieno sostegno della potente macchina propagandistica, il ruolo di madre e di  massaia, fino ad arrivare alla missione patriottica, secondo i desideri del duce.

Il modello maternalista


“Nell’aula magna del Reale convitto nazionale “Mario Pagano” si è con rigido rito celebrata la «Sagra della famiglia». I capi di famiglia numerosa, le cui consorti sono state designate per il distintivo di benemerenza, hanno il posto d’onore. Tutti i settori sociali sono rappresentati (…) poiché sentono che in questa celebrazione si eleva l’inno dell’amore, della fede, si consacra l’amore della Patria, più potente per maggior numero dei suoi figli” [NOTA Il Giornale d’Italia 5 marzo 1940, Campobasso esalta la Sagra della maternità nel nome del Duce ]
Così Il Giornale d’Italia 5 marzo 1940 riferiva, nel  tono enfatico tipico di quegli anni, e con dovizia di particolari, l’annuale celebrazione della maternità, che, dopo il discorso tenuto dal camerata Francesco Trotta, si era conclusa con la
“Distribuzione  delle medaglie di onore alle madri prolifiche che sfilano dinanzi ai gerarchi ricevendo l’ambita attestazione tra il plauso degli intervenuti”. Ad essere celebrate erano solo le madri prolifiche: il primo anno, si tenne l’adunata nazionale a Roma, alla presenza del duce, e le madri delle 90 province italiane passate in rassegna come migliori esemplari della razza non furono chiamate per nome, ma per…numero di figli. Sui giornali trovava spazio anche  il “Bollettino demografico” della settimana, che riportava, oltre al numero dei nati e dei morti,  l’elenco delle famiglie prolifiche dei vari paesi molisani “da additare ad esempio”, come la coppia D’Alò Maurillo e Franceschini Adelia, che aveva ottenuto (Il Giornale d’Italia 6 marzo 1940) il 2°premio demografico di £1500 per aver avuto dal 1925, anno del matrimonio, 9 figli, “ oggi tutti viventi e a carico.” Il trafiletto si chiudeva  trasudando retorica: « Montenero  rurale, prolifica, fiera di questo riconoscimento della sua sana fecondità saprà in questo campo e in altri seguire sempre più i dettami del Duce».


 L’esaltazione della maternità è stato un punto di forza del complesso programma portato avanti dalla politica fascista fin dai primi anni Venti,  quando fu creata (1925)l’ONMI, Opera nazionale maternità infanzia, vero fiore all’occhiello del regime, vòlta alla protezione sociale e sanitaria delle madri e dei bambini.
 A Campobasso le opere del regime, edificate grazie al rilancio dell’attività edilizia dettata  dall’urgenza di occupare la mano d’opera, si giovarono anche del contributo dei cittadini; così, ad esempio, la Casa Littoria del capoluogo si avvalse  del “fascistissimo slancio” dei produttori di grano di Montenero di Bisaccia , cfr. Il Giornale d’Italia 6 marzo 1940. Nell’intera regione solo Campobasso, in quanto capoluogo di cui il regime intendeva rafforzare il ruolo istituzionale, fu coinvolta in un consistente piano di interventi urbanistici.  Sorsero, tra gli altri, l’ospedale “Cardarelli”, il nuovo Tribunale, il Dispensario antitubercolare, il palazzo Incis, la Casa dell’orfano di guerra, l’edifico ONMI, la GIL, la Casa della Scuola, il Banco di Napoli, l’hotel S.Giorgio,  il nuovo Seminario, gli uffici delle Poste, il Lavatoio pubblico, mentre il teatro Savoia venne ricostruito sul teatro Margherita.
Di fatto, fu il regime a far sentire per la prima volta  le donne al centro delle sue attenzioni, dal momento che dall’Unificazione in poi le istituzioni  si erano occupate di esse solo sporadicamente, per cui  si sentivano marginalizzate. In effetti  il movimento socialista aveva sollevato alcune questioni relative all’emancipazione femminile, ma erano battaglie portate avanti dall’opposizione.
Purtroppo il discorso del duce all’Ascensione (26.5.’27), enfatizzando l’importanza dell’incremento delle nascite, ridusse il mistero della fecondità all’atto fisico della produzione di bambini, mandando in frantumi l’illusione delle donne di essere valorizzate nei loro molteplici aspetti: era, insomma, la risposta del regime al calo demografico.
 La Giornata della Madre e dell’infanzia, istituita nel 1933, fu fissata per il 24 dicembre, vigilia di Natale. Una scelta certamente non casuale, perché teneva conto  da una parte del culto cattolico per la Vergine, Madre casta, esempio eccelso da seguire per ogni donna, mentre dall’altra richiamava l’antico culto italico della Mater Matuta.
Salito al potere sulle macerie del terremoto sociale scatenato dalla grande guerra, il fascismo si trovò davanti un mondo femminile molto disomogeneo, a causa delle forti  differenze esistenti non solo di classe e cultura tra i ceti, ma anche e soprattutto  tra città e campagna.
 Infatti stili di vita, occasioni di libertà e di conquiste di civiltà, di accesso alle strutture sanitarie e scolastiche, differivano non poco tra chi viveva in città e chi abitava in campagna.
Oggi che si sono attenuate quasi del tutto le distinzioni tra città e paesi, grazie al costante e graduale processo di omologazione riscontrabile in tutti i settori, occorre ricordare che nel passato, fino agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, la forbice esistente tra città e campagna era molto evidente, che i due mondi erano molto distanti tra loro, quando non addirittura in conflitto.
Nel 1921, alla vigilia della marcia su Roma (28 ott.’22) che darà il potere a Mussolini, Campobasso conta 16.413 abitanti, ed è in forte incremento demografico a conferma della sua consolidata centralità territoriale di capoluogo. Nel 1921 -Dati Istat- la provincia di Campobasso conta 253.573 abitanti, Isernia 10.018 abitanti, la sua provincia 129.080 abitanti, per un totale di 382.653 abitanti. Nel 1931, Campobasso ha circa 3000 abitanti in più e nel 1941 raggiunge i 22.525 abitanti. Isernia non presenta, negli stessi anni, crescita notevole della popolazione, dal momento che nel ’41 vi sono censiti 10.431 abitanti.
 Strettamente legata a Napoli, antica capitale del Regno, è una città impiegatizia, animata da militari, commercianti, avvocati e insegnanti, che cercano di “ripulirla” della ancora forte connotazione rurale.
Ben rappresentato e nutrito, dunque, il ceto medio.
Conservatore e conformista, sensibile alla rispettabilità, attaccato ai suoi valori e alla sua cultura quanto si vuole, ma non per questo alieno dall’accogliere - sia pure con prudenza e riserve - istanze di libertà e progresso. Tali aperture al nuovo, incidendo positivamente sui rapporti familiari e sociali,  finiscono con il ripercuotersi sul modo di essere delle donne, sui loro standard di educazione e istruzione.
Si lavora fuori casa quasi sempre per necessità e non per autonoma scelta e il lavoro femminile è determinato dall’appartenere ad un ceto più o meno colto, più o meno fornito di danaro.
E se in ambito nazionale solo il 25% possiede un’occupazione, negli anni Venti una sparuta minoranza di molisane guadagna con il proprio lavoro.
 L’unica professione considerata adatta alle donne, fin dall’Ottocento, è quella della maestra (elementare o giardiniera), che spesso dà lezioni a casa propria.
 Decisiva, per il miglioramento della situazione educativa di metà Ottocento a Campobasso, è stata l’azione intrapresa dalla pioniera Aline Aubin Battistelli, fondatrice di educandati di successo che contribuirono non poco a suscitare nelle famiglie l’interesse per l’istruzione delle proprie figlie.
Nelle classi popolari di Campobasso i mestieri più praticati sono quelli di lavandaia, stiratrice, sarta, ricamatrice, balia, serva, prostituta.(cfr. Simonetta Tassinari, La condizione femminile dal fascismo ai nostri giorni, in Campobasso Capoluogo del Molise, a c. di  Renato Lalli, Norberto Lombardi, Giorgio Palmieri, Palladino ed., 2008,v.III, p.353)

Il Molise ruralissimo


«Dai dati statistici  risulta -constatava compiaciuto il duce - che la provincia di Campobasso è la più rurale d’Italia. Le genti del Molise devono considerare questa posizione come un privilegio di cui devono essere e certamente sono fierissime. Tale privilegio deve essere conservato per gli interessi del Molise e per quelli della Patria» (cfr.Molise Nuovo, aprile-giugno 1937, riportato da R.Colapietra, 1915-1945 Trent’anni di vita politica nel Molise, Nocera ed., Campobasso 1975, p.176).
E il segretario federale rispondeva:
« Le genti del Molise, che mai conobbero diserzione dal focolare, dal solco e dalla trincea, fierissime del loro primato rurale, terranno duro!»( ibid Colapietra, p.176).

Nel Molise fascista l’80,3% degli abitanti è dedito all’agricoltura, mentre a Campobasso, che nel ’36 conta 29573 residenti, gli addetti all’agricoltura sfiorano la soglia del 50%, seguiti dal 24,9% addetti all’artigianato, industria e trasporti; dall’8,6% al commercio e dal 17% all’ amministrazione pubblica. (Dati Istat del  21 aprile 1936).
L’agricoltura finisce sempre più in mano alle donne, che già durante la grande guerra avevano dovuto sostituire nel lavoro dei campi i loro uomini richiamati al fronte.
 Era 1° luglio 1918 quando Il Popolo Molisano  sottolineava che le donne supplivano in massa i richiamati a Castelpetroso, compiacendosi “dello scambio di mano d’opera che vi si effettua fraternamente sicché nessun terreno rimane incolto”(cfr.R. Colapietra, op.cit., p.19). E ancora le donne furono protagoniste della sommossa popolare guidata, il 12 maggio 1920, da Rebecca Camposarcuno, una combattiva artigiana di Ripalimosani.
Era successo che, in ottemperanza  al regime alimentare vincolato, Ripa, che era un centro di produzione granaria, avrebbe dovuto consegnare al Consorzio di Campobasso (che a sua volta distribuiva ai Comuni il quantitativo di farina miscelata per il fabbisogno) 18 quintali di grano già ammassati nei locali del Municipio. Ma, siccome il Consorzio mancava dei locali adatti e il frumento lì raccolto si deteriorava, la popolazione ripese aveva fatto diverse richieste -senza esito- per trattenere nei locali più idonei del paese il quantitativo di grano necessario al proprio fabbisogno.
 Il malcontento esplose di prima mattina, quando moltissime donne si radunarono “sotto i portici occupandoli interamente: avevano nascosto tra le pieghe delle gonne boccette di petrolio e di benzina decise a lanciarle sui sacchi di grano, bruciandoli, se la forza pubblica, consistente in una cinquantina di carabinieri al comando del capitano Giorgi avesse usato violenza”(Testimonianza raccontata dal maestro elementare Luigi Iammarino). S’erano costruite barricate con travi a carrette che impedivano l’accesso ai camion, e le donne, con i loro figli, stavano in prima fila, assieme a  Rebecca, la cui bambina di quattro anni, Concetta, come le altre, faceva la staffetta tra  i portici, la piazza, e gli uomini, che si tenevano più defilati per evitare incidenti. Il pericolo di una sparatoria era reale, perché il grano requisito doveva essere preso ad ogni costo; non per nulla “ i carabinieri avevano celato una mitragliatrice sul serbatoio, tra le siepi”(ibidem).
 L’ultimatum per la consegna scadeva alle ore 12, le trattative si susseguivano concitate senza risultati, finché il senatore Vittorino Cannavina, molto amato e stimato dai suoi concittadini, e al corrente degli eventi, non risolse positivamente l’incidente. Infatti, qualche minuto prima di mezzogiorno, prese la parola, e convinse la folla accalcata in piazza a versare pacificamente quanto dovuto e a rimuovere la barricate, cosa che fu prontamente fatta con l’aiuto degli stessi carabinieri.(L’episodio di Rebecca (2.4.1891- 30.3.1980), che devo al ricordo del nipote Paolo Petti che ringrazio, ha ispirato a Mario Tanno, appassionato di storia locale, e autore di ricerche riguardanti il patrimonio storico-culturale del suo paese, uno spettacolo teatrale -che ha coinvolto la collettività - intitolato “Rebecca: la rivolta del grano”. Esso fu registrato nell’agosto 1982 e poi trasmesso dalla sede regionale Rai. M. Tanno, oltre a fornirmi gentilmente documenti in suo possesso sulla sommossa, mi dà anche notizia che Ripalimosani è stato forse l’unico paese, nel 1924, a rifiutare la cittadinanza a Mussolini, cfr. Vita del Molise del 30 novembre 1924)
In realtà, quale fosse il peso della produzione di frumento era chiaramente emerso - come dimostra l’episodio di Rebecca- nell’immediato dopoguerra, di fronte al crescente disavanzo della bilancia commerciale, in cui un ruolo importante era giocato proprio dalla importazione di grano, che da sola ammontava al 15% del totale.  Infatti, su un consumo di 75 milioni di quintali di frumento, l’Italia importava 25 milioni di quintali. La parola d’ordine di Mussolini divenne ben presto “mobilitare il grosso esercito degli agricoltori “e la battaglia del grano, lanciata nel 1925, fu la prima vera grande impresa propagandistica di massa del fascismo. Preludio di un intervento governativo che assunse i caratteri della “bonifica integrale”, il cui piano, opera di Arrigo Serpieri, entrò in vigore nel ‘29, essa rientrava nell’ambito della politica autarchica di autosufficienza dall’estero, e si basava essenzialmente da una parte sull’aumento delle superfici coltivabili e dall’altra sulla destinazione alla cerealicoltura di terreni prima destinati ad altre colture.
Il primato rurale del Molise di cui si compiaceva tanto Mussolini ebbe dunque un peso  fondamentale nella battaglia del grano, grazie alla quale l’Italia riuscì ad eliminare un deficit sulla bilancia commerciale di 4 miliardi di lire che servivano per importare tutto il frumento necessario alla popolazione, e a soddisfare quasi a pieno il suo fabbisogno. Non a caso alla fine del ’38 l’argomento principale sulla stampa molisana era la ruralità trattata in tutti i suoi aspetti, dalla costruzione di strutture per la produzione di cellulosa alla baldanzosa notizia delle località “più rurali della più rurale regione d’Italia, il Molise”( Il Giornale d’Italia, 6 dicembre1938).
Purtroppo il ruralismo tanto caro all’ideologia fascista non si tradusse in una effettiva modernizzazione dell’agricoltura, e se a questo stato di cose si aggiunge che non mancarono in quegli anni ripetute grandinate e altre avversità natutali, con il conseguente aumento della disoccupazione bracciantile, non c’è da meravigliarsi che per tutto il ventennio, fino all’avventura militare spagnola, la migrazione interna, l’esodo nelle colonie, e la guerra furono visti come soluzione al malessere economico e ai problemi cronici della disoccupazione di massa .
 E le donne, nella sostanza sempre più sole malgrado il controllo occhiuto, esercitato dai parenti  in nome della rispettabilità e della difesa dell’onore, continueranno a reggere casa, terra e animali, abituandosi a decidere da sé.

La concezione della donna


Su questo tessuto umano e sociale a macchia di leopardo la politica del Regime diede il via ad un ambizioso progetto di riforme che richiese anzitutto l’individuazione di una certa identità femminile da proporre, valorizzare e propagandare con tutti i mezzi di informazione a disposizione.
La concezione fascista della donna si espresse attraverso la costruzione del mito della donna sposa  e madre esemplare, esaltando al massimo la funzione materna. Fu definita anche l’immagine di bellezza muliebre, che doveva essere florido, forte, tranquillo, possibilmente rurale; fu lanciata la “battaglia per il grasso”. Circolavano espressioni del tipo:” Di donna senza ciccia lo strapaese non s’impiccia”; “ In stretto bacino mal si cova il piccino”.
 Di pari passo con la campagna per l’aumento delle nascite, si diede vita a politiche ad ampio raggio, come prestiti per matrimoni e nascite, assegni familiari, titoli di preferenza nella carriera per padri di famiglie numerose, istituzioni per l’assistenza sanitaria e sociale alla famiglia e all’infanzia.
L’Istituto dei prestiti, operativo dal 1 luglio 1937, fino alla fine del ’39 aveva già concesso 2068 prestiti matrimoniali (Il Giornale d’Italia 31 marzo 1940).
  Il Giornale d’Italia 6 marzo 1940, riferendo sull’ “Attività dell’Unione fascista tra le famiglie numerose”, elenca i benefici goduti dai capi di famiglia numerose, non prima di aver dichiarato che nella regione le famiglie con sette e più figli sono 3984 con un complessivo di figli viventi n.29,972.Di fatto la campagna demografica portata avanti dal regime si rivelò fallimentare, perché le donne, a dispetto del diktat fascista, seguirono proprie strategie di rapporto con la modernità, a cui non furono estranei né i contatti con l’estero, favoriti dallo stesso regime, sia pure sotto l’egida dell’ufficialità, né la stampa, che, malgrado tutto, riuscì a proporre, tra pubblicità e servizi giornalistici, una molteplicità di modelli da seguire e imitare.
 Comunque, tra le agevolazioni concesse: 15% di sconto sull’importo del consumo di energia elettrica, del biglietto ferroviario (per viaggi compiuti contemporaneamente da almeno tre componenti di famiglia numerosa); 20% di sconto sulla tariffa per l’assistenza ostetrica alle madri di famiglie numerose; il Comune di Campobasso e l’Impresa Gas De Capoa  concede sconti su acqua e gas per cucina.
Quanto all’assistenza all’infanzia, non mancava la Refezione scolastica:
«Migliaia e migliaia di bambini poveri di ambo i sessi, nelle scuole elementari di Stato ed in quelle rurali hanno ricevuto, anche nelle zone più lontane del Molise, il cibo sano, abbondante, caldo, con razioni di pane e frutta» Il Giornale d’Italia 7 marzo 1940
Altro motivo di gloria erano le colonie estive:
«Da tre colonie climatiche che appena ricoveravano 700 bambini, le colonie sono salite a 8 con 5000 bambini assistiti. A Campobasso, Termoli, Isernia, centri di  assistenza specifica ed in tutti i comuni del Molise sono sorti centri fiorenti di cure ben attrezzati e con ogni conforto: abbondante e sano vitto, educazione spirituale, culturale e sportiva. Tutto un fiorire di gentilezza e di assistenza dall’alza all’ammaina bandiera nel cordo sacro degli eroi e della gratitudine al Duce» Il Giornale d’Italia 7 marzo 1940
In campo ostetrico e pediatrico, poi,
«Premesso che finalità dell’assistenza è il miglioramento e il potenziamento della razza, è ovvio che l’Opera deve curare i bambini costituzionalmente sani aventi bisogno di maggiore nutrimento, lasciando la cura degli infermi ai Comuni ed alle organizzazioni che hanno tale specifico mandato per tassative disposizioni legislative» Il Giornale d’Italia 12 marzo 1940
Il potenziamento della razza escludeva l’aborto. Le cronache di quegli anni danno notizia di svariati procedimenti penali per procurato aborto e per ogni pratica di prevenzione delle nascite, pur se la fecondità femminile era molto elevata e oltre la metà delle donne fertili arrivava al quarto figlio.
 La forte razza italica, naturalmente, era solo quella nata nel sacro vincolo del matrimonio.
A seconda del ceto di appartenenza, le donne si sposavano tra i sedici e i ventidue anni, gli uomini a ventiquattro:l’appellativo di “zitella” piombava come un sasso sulla ragazza che a venticinque anni era ancora nubile. 
I Patti Lateranensi (1929), assieme alla Casta Connubi di Pio XI, ebbero un ruolo preminente nel  collocare l’istituzione matrimoniale in una posizione privilegiata, e  allora, per uniformare il codice di famiglia alla legge canonica, il regime abbassò l’età minima  del matrimonio per le donne a quattordici anni e si diede da fare per agevolare le nozze di gruppo.
Nello stesso tempo, le coppie unite solo con rito civile furono trattate da pubblici peccatori: nel  nm. di luglio-agosto ’34 del bollettino diocesano (fondato nel ’33 dal vescovo monsignor Bernacchia, che si mostrò fermo nei confronti del regime)  di Larino compare una sanzione in tal senso per coloro che si sposano civilmente, e si impone inoltre che il matrimonio religioso sia ad essi consentito solo a patto di una vera penitenza, e con una celebrazione fatta senza pompa, a porte chiuse e di prima mattina (R.Colapietra, op. cit., pp.178-179).

I “Casini”

 Intanto, allo scopo di rimuovere dagli spazi pubblici il sesso illecito e tracciare uno spartiacque netto  tra le donne cattive e quelle buone, dalle strade sparirono le prostitute.
 Comparvero  così le case di tolleranza, i “casini”, emblema della doppia morale dominante: alla donna era imposto l’obbligo della verginità prima delle nozze e della fedeltà coniugale dopo, mentre all’uomo tutto era concesso, anzi dovere della brava moglie era chiudere un occhio sulle scappatelle del “maschio italico, vera gloria della stirpe.”( http://www.storiain.net, visita del 14 aprile 2010).
 Nelle case chiuse, controllate dallo Stato, le donne, prostitute ufficiali del regime, erano soggette a controlli medici  periodici obbligatori da parte dell’Istituto di igiene e profilassi, ed esercitavano la  professione con clienti  che dovevano avere minimo  18 anni.
Nel Molise si aprirono casini nei maggiori centri, quasi sempre nei quartieri storici, come a Campobasso, dove le due case chiuse erano situate nella zona antica,  al riparo da sguardi indiscreti. L’una, fuori Porta San Paolo, nei pressi dell’omonima chiesetta, e l’altra, ubicata a Ponte Brusca (Informazione di Pasquale Tucci, classe 1930, che ricorda il suo stupore di bambino, quando incontrava, nella zona dove abitava, quelle donne alla moda, eleganti, truccate, che “osavano”fumare disinvoltamente per strada), erano rette, negli anni d’oro, da due tenutarie siciliane, donna Maddalena Bencivenga, e donna Peppa Patanè. A quel che è dato sapere, a “quelle” signorine non mancavano accompagnatori assidui di ogni età e dei vari ceti sociali.
Come si sa, i casini saranno chiusi nel 1958, come tutti gli altri sul territorio nazionale, dopo l’approvazione della L.Merlin.

Il processo di normalizzazione

Il processo di normalizzazione che colpì e scompaginò la rete organizzativa sovversiva molisana  fu portato a termine con il determinante concorso del prefetto marchigiano Agostino  Iraci.
 (Cfr. Antonio D’Ambrosio, W il I° Maggio La festa del lavoro nel Molise dal 1890 ai giorni nostri, Associazione “Pro Arturo Giovannitti”, Campobasso 2006).
Tra i sovversivi  vanno menzionati almeno i fratelli Alessandro e Giovanni Porfirio, artigiani di Trivento, che animarono una vivace sezione socialista nel loro paese con 150 soci finché non furono  costretti a riparare in Usa. Tornati a Trivento, furono affiancati dal nipote Spartaco e da due donne coraggiose, la polacca Maria Nejman, che Giovanni aveva conosciuto in Usa, e Domenichina Del Castello, moglie di Alessandro. Nel ’43 compirono molte missioni sul confine tra Abruzzo e Molise in collegamento con i canadesi. Fornirono agli alleati preziose informazioni, catturarono soldati tedeschi, aiutarono prigionieri fuggiti dal campo di concentramento di Sulmona  ad attraversare le linee con lunghe marce attraverso i boschi fino a Campobasso. Successivamente dichiarati “partigiani combattenti”, furono sostenuti nella loro opera da un gruppo di 50 contadini. (www.e-brei.net, visita del 24 aprile 2010).
Il via al nuovo corso totalitario vide, a partire dagli anni Trenta, le masse femminili sempre più coinvolte nel pubblico per realizzare gli obiettivi del partito nazionale fascista (PNF), concorrendo a consolidare il regime, attraverso la condivisione  del progetto ideologico, oltre che di quello politico-sociale.
 Non si spiegherebbe diversamente la militanza e l’attività del personale femminile nei campi di internamento. Un esempio per tutti, e certamente non isolato, è quello di Caterina Martino, che  diresse con mano ferma il campo di internamento Vinchiaturo, in cui il fratello Nicola era medico delle internate (Per un approfondimento sulla figura di questa outsider si rinvia a Caterina Martino, in Rita Frattolillo, Barbara Bertolini, Il tempo sospeso Donne nella storia del Molise, Ed Filopoli Campobasso 2007 pp.198-206).

Il richiamo e l’organizzazione

 Per formare la donna “nazionalizzata” fu necessario costruire una coscienza politica che avesse a cuore gli interessi dello Stato
 Sensibili all’appello diretto del duce, alle scenografie di massa che  davano l’illusione di  essere parte attiva della Nazione, le donne si sentirono sostenute dal regime, ed erano convinte, quando si privarono della fede d’oro o d’argento durante l’emergenza per la guerra d’Etiopia.
 Ma più tardi si sarebbero rifiutate di consegnare i figli alla leva, avrebbero cercato di impedire la deportazione dei loro uomini nei campi di lavoro forzato in Germania, si sarebbero schierate contro il razionamento dei beni di prima necessità, si sarebbero sollevate contro i soprusi di dazi e tasse e contro il ritardo nell’erogazione dei sussidi. Le relazioni comunali, soprattutto dall’armistizio in poi, sono piene di episodi di violenza, aggressioni, proteste,  spesso capeggiati da donne, a Cercemaggiore come a Guglionesi, a Palata come a Gildone, a Montefalcone come a Montecilfone.(Cfr. Roberto Colella, Il Molise dalla crisi del fascismo alla Liberazione, ed. Il Bene Comune, Campobasso 2009, p.54 sg.)
 In verità sollevamenti popolari non mancarono neanche prima dell’armistizio. Infatti lo schedario Carbone, enumerando i molisani confinati per motivi politici durante il ventennio, menziona tra essi una contadina vedova di 68 anni, analfabeta, apolitica, Cenci Maria Felicia di Vastogirardi, arrestata nel ’40 per aver istigato altri contadini a manifestare contro l’applicazione di nuove tasse, condannata a due anni, confinata a Nereto (Teramo), e poi prosciolta nel ’41(cfr.R.Colapietra, op.cit., p.197).
Comunque, l’adesione alla causa, che suggellava con la consegna della propria fede l’unione tra le donne e lo Stato, oltre ad avere un gran peso simbolico (ma anche concreto, con il rastrellamento dell’oro in ogni parte della nazione), diede forte impulso al proselitismo delle organizzazioni fasciste: alla fine del ’36 erano in tutt’Italia oltre mezzo milione le nuove iscritte, di cui 250 mila massaie rurali.
Alla grande adunata delle forze femminili che si svolse a Roma nel maggio ’39, arrivarono 70 mila donne, e 15 mila sfilarono in uniforme dal Circo Massimo a Via dell’Impero.
D’altronde, il duce non perdeva occasione per rivolgersi direttamente alle donne, risvegliando in loro l’amore per la Patria, spingendole a esaltare la guerra, a valorizzare la vittoria, solleticandole nell’orgoglio di essere importanti come madri di pionieri e soldati.
“ La vecchia mamma dell’Eroe, autentica massaia rurale, era nel suo fondo intenta a dirigere i lavori agricoli. Aveva nelle braccia un piccolo nipotino quando ricevette il Gerarca dei combattenti molisani”: così Il Giornale d’Italia 9 ottobre ’40 enfatizzava il “Devoto omaggio ai congiunti di Iezza Guerrino”  alla cui memoria era stata concessa la “Medaglia d’Oro al V.M. per le sue gesta sul fronte italo-francese, Moncenisio” a giugno] in quanto milizia civile al servizio dello Stato.
Una milizia le cui linee-guida, apparse fin dal 14.1.1922, chiarivano il ruolo riservato alle donne: dovevano partecipare a riunioni e raduni, avvicinare la gente al regime attraverso attività benefiche, occuparsi di propaganda, assistere malati e feriti, fare da madrine ai nuovi Fasci di combattimento, ma era proibita ogni iniziativa politica.
 Dopo il 1925 la dittatura riconobbe solo due “movimenti”: le organizzazioni femminili fasciste e i gruppi cattolici, questi ultimi appena tollerati, e ben sorvegliati all’indomani della Conciliazione, in quanto guardati con sospetto come fucina della futura classe dirigente democratica.
 I prefetti erano tenuti a inviare a Roma lo specchietto riassuntivo riguardante il numero dettagliato - e distinto per paese e sesso degli iscritti - delle associazioni giovanili cattoliche, mentre in un rapporto successivo dovevano sottolineare la consistenza degli iscritti alla GIL. Sia la considerazione che l’informazione sono riprese da R.Colapietra (op. cit., pp.170-171).
Solo la militanza fascista consentiva visibilità e persino qualche opportunità di carriera.
 Ad esempio, erano indetti i corsi nazionali per il conseguimento del grado di Capo centuria e del grado di Capo coorte, entrambi
«destinati alle camerate non appartenenti alle Giovani Fasciste graduate per le quali saranno organizzati appositi corsi a cura dei Comandi federali. Ad essi possono concorrere le insegnanti e le diplomate » Il Giornale d’Italia 5 giugno ’40.
 I giornali non mancavano di dare rilievo ai successi ottenuti dalle camerate:
 “Il Comando Generale della GIL di Larino ha ratificato la proposta del Federale che nomina la nostra segretaria del Fascio Femminile signorina Luisa De Rosa, Ispettrice provinciale della GIL(…), nomina che premia la sua opera ben nota per la sua collaborazione diligente alle opere del Regime, e perciò vadano a lei i più vivi rallegramenti di Larino Fascista” Il Giornale d’Italia 3 marzo ’40.
 Non è da meno la Sezione operaie a domicilio di S.Croce di Magliano, dove
 “(…)la insegnate Pilla Teresa è stata nominata dalla Segretaria Federale fiduciaria della sezione” Il Giornale d’Italia 5 marzo ’40.
L’evidente oscillazione degli interventi statali tra conservatorismo e modernizzazione della condizione femminile induce a chiedersi come si potevano conciliare le virtù della domesticità e la subordinazione - predicate incessantemente - con le attività volute dalle organizzazione fasciste fuori casa e l’esaltazione delle manifestazioni di eroismo. Tanto più che nella sostanza la donna fu chiusa nei ruoli tradizionali: basti pensare alle norme espulsive dal mercato del lavoro, o alla negazione del diritto di voto: fu concesso il diritto al solo voto amministrativo, ma quasi contemporaneamente furono abolite le elezioni locali; l’istruzione femminile e l’inquadramento  nelle organizzazioni fasciste non dovevano in alcun modo turbare una realtà storico-sociale fondata da secoli sulla indiscussa autorità maschile.
 Come “fattrici”, le donne dovevano essere silenziose, sempre disponibili, incarnare i ruoli tradizionali, mentre come cittadine e patriote, dovevano essere combattive, presenti e pronte a rispondere alle esigenze del regime. Obiettivi divergenti, insomma,  generati da una concezione dualistica del ruolo femminile tipica del fascismo.
L’apparato statale fascista provvide comunque a riempire, oltre agli spazi privati, anche quelli pubblici  della giornata di tutte le cittadine italiane.
 Nacquero i Fasci Femminili, istituiti presso i Fasci di Combattimento, retti da una segretaria, e composti da fasciste di buona condotta morale che avessero compiuto i ventun anni.

Il primo Fascio fu istituito a Monza da Elisa Savoia il 12 maggio 1920; le aderenti ai Fasci, a livello nazionale, fino alla marcia su Roma non furono più di qualche centinaio. Essi comprendevano le Piccole Italiane (8/14 anni), le Giovani Italiane (14/17anni), le Massaie Rurali. L’organo centrale era la Consulta, e il suo compito era indirizzare e coordinare l’attività delle organizzazioni femminili del Partito.
Le attività femminili dei gruppi giovanili davano peso alla ginnastica - altro punto di forza dell’ideologia fascista era la sanità fisica, la cultura del corpo - e comprendevano la puericultura, decorazioni, assistenza sociale (soccorso e carità), economia domestica.
il tradizionalismo fascista si manifestò anche nella scelta delle dirigenti, che  erano escluse dalle decisioni; gli uomini al vertice  decidevano persino il tessuto per le uniformi o  i punti da disegnare per la bandiera e la fiamma sui fazzoletti della SOLD. Di solito erano nobildonne, preferite agli altri ceti per la delicatezza del tratto. Ma neanche le dirigenti erano considerate “vere”  professioniste e questo continuò ad escludere le militanti dal potere.

 I cinegiornali Luce (obbligatori dal ’26)  propagandavano senza sosta i corsi che valorizzavano le virtù domestiche, chiamati con enfasi “corsi per fidanzate”, e ribadivano l’immagine tradizionale della donna, diffusa anche dalla stampa, dalla letteratura fascista, dai libri scolastici.
Un libro sussidiario per le scuole del Molise di quegli anni è Gente Buona, edito dall’ed. Carabba di Lanciano nel 1925, realizzato da Eugenio Cirese nello spirito della svolta didattica voluta dal ministro Gentile sotto l’influsso del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice. Esso è testimonianza preziosa, oltre che di un’epoca, del tentativo di dare sostanza e spessore all’identità molisana. Infatti pagine dedicate ad eroi e combattenti  sono accostate a quelle sulla fierezza dell’eredità storica sannita, sull’amore per la natura, per le stagioni, a quelle che esaltano l’attaccamento alla terra, il floklore della regione, l’operosità e la profonda sobrietà interiore della “gente buona”.
 Sui giornali rimbalzavano luminosi esempi di volontarie ed assistenti:
«Non può passare sotto silenzio la fervida attività che svolge la camerata signorina Margherita Tozzi nel campo assistenziale dell’Ospizio Pollice di S.Martino in Pensilis dove tutte le mattine si reca per curare il pranzo dei vecchi bisognosi(…) Al sentimento aggiunge aiuto materiale rispondente alla sua fede fascista (…) Auguriamoci da (sic) tanto esempio di carità  sia mònito e sprone» Il Giornale d’Italia 2 marzo 1940.
Venivano imposte esercitazioni, perché la pratica sportiva doveva assicurare una stirpe più sana al popolo italico, ed adunate a cadenza fissa, a cui partecipare in divisa. Le esercitazioni nel capoluogo molisano si svolsero all’aperto fin quando non fu eretto, su progetto dell’architetto napoletano Domenico Filippone, tra il 1936 e il 1938, l’edificio della GIL(Gioventù Italiana del Littorio).
 La partecipazione alle attività, oltre a migliorare il fisico femminile; e  stimolare lo spirito competitivo, offriva la libertà di uscire di casa, tra adunate e ginnastica, e di allontanarsi  un po’ alla volta dall’autorità  genitoriale.
Altro che “La donna è come la perla, men si mostra e più è bella”; altro che “Mogli e sardine vanno chiuse in scatoline”.
Quando nel 1932 fu istituita ad Orvieto l’Accademia Nazionale di Educazione Fisica, la cultura del corpo, che era considerata dal Fascismo come esercizio di disciplina in nome del Partito e della razza, fu guardata dalle donne soprattutto come una maniera di esprimersi.

Le Massaie Rurali

Le Massaie Rurali, donne residenti in Comuni rurali o appartenenti a famiglie di coltivatori diretti, coloni, proprietari terrieri, dovevano incrementare l’autarchia, promuovere la formazione delle donne di campagna in ordine all’educazione all’infanzia, alla salute, all’igiene, ad una sana maternità.
 Il Giornale d’Italia 3 marzo 1940 segnala soddisfatto :
«A Montagano, sia nel nucleo Massaie rurali, che in tutti gli altri settori, delle lavoranti a domicilio, delle operaie e delle fasciste funzionano tutte le attività di carattere culturale e della preparazione della donna alla vita coloniale. Quanto prima saranno ripresi i corsi di infermiere e di telefoniste e telegrafiste».
 Qualche giorno dopo, l’8 marzo, lo stesso quotidiano annunciava un corso teorico-pratico di viticoltura tenuto a Riccia dal perito agrario camerata Pannunzio Giuseppe anche “per ricordare ai nostri rurali di concorrere all’esito soddisfacente della battaglia autarchica ingaggiata dal Regime”. Dunque, tra i compiti dei tecnici, non mancava quello di mediatore del consenso (Cfr. Gino Massullo, Dalla mobilità all’emigrazione, in Storia del Molise,  a c. di Idem, V, Laterza Bari 2000, p.50).
La politica di divulgazione culturale dava i suoi frutti, tanto che, sempre nel ’40, le 150 sezioni rurali costituite nella Provincia avevano raggiunto un rilevante numero di iscritte e di tesserate e funzionavano senza sosta. Vi si svolsero i corsi di pollicoltura, orticoltura, apicoltura, frutticoltura, olivocoltura, lavori femminili, economia domestica, di igiene e pronto soccorso, lotta contro gli sprechi in merito alle attività organizzative dell’autarchia e della conservazione dei prodotti (Il Giornale d’Italia 21 sett. 1940).
Il “massaismo” produsse anche un altro risultato - probabilmente non previsto, o sottovalutato, ma foriero di conseguenze - perché, favorendo l’accesso al mercato, consentì una certa indipendenza economica delle donne. Queste ebbero quindi la possibilità di migliorare il proprio aspetto, di “addobbarsi” con prodotti cittadini, come nastri e stoffe di seta artificiale, allora in voga. E soprattutto, grazie ai vari corsi,  si aprirono canali di comunicazione tra donne di campagna e di città. Infatti il rapporto intessuto tra le militanti e le donne che avvicinavano e coinvolgevano allo scopo di organizzarle, finì per emancipare le “discepole”, avviando inesorabilmente lo sfilacciamento della società rurale patriarcale. Inoltre, le lezioni di economia domestica - che era intesa come razionalizzazione delle risorse domestiche- introdussero l’esercizio di una gestione razionale all’interno del proprio nucleo familiare che ebbe evidenti effetti concreti.
Infine, siccome i corsi erano organizzati di solito dalle esponenti della classe più elevata, legittimarono ancor più il ruolo di guida di quella classe sui ceti inferiori.

Il volontariato

L’attività di volontariato venne vissuta dalle donne come obbligo sociale e ritenuto dalla dittatura l’unica dimensione politica possibile per le donne.
Era il così detto “sano” femminismo, da contrapporre al “vano” femminismo. Fu istituita la figura delle Visitatrici,donne che visitavano le famiglie bisognose, assistendole moralmente e materialmente, specie nell’ambito maternità e infanzia, e che erano tenute a riferire alla segretaria del Fascio di appartenenza.  L’avv. Enrico Sassi, classe 1925, ha ricordato  un simpatico episodio: zelanti visitatrici, nel corso dei loro abituali giri di assistenza alle famiglie bisognose, bussarono alla porta della casa di tolleranza del Ponte Brusca. Quando si videro davanti un paio di “signorine” truccate e discinte, ebbero un attimo di panico, e, arrossendo fino alla radice dei capelli,  scapparono via balbettando che si erano sbagliate.
 In un articolo del 20 sett. ‘40 Il Giornale d’Italia sintetizza bene la consistenza de “La vasta attività delle donne fasciste molisane”:
« Magnifica l’attività svolta dai Fasci femminili della ruralissima i quali hanno improntato la loro perfetta organizzazione ai criteri direttivi dipendenti in pieno alle (sic) finalità istituzionali ed alle norme dei competenti Organi centrali. Al lavoro organizzativo, amministrativo e politico (…) è parallelo (sic)  la fatica quotidiana delle visitatrici fasciste che si sono distinte in specie nei Fasci femminili di Agnone (…).I Fasci femminili del Molise hanno continuato ad organizzare corsi speciali di economia domestica in 18 comuni, i lavori femminili in 12 comuni, di taglio, cucito, e ricamo in 10 paesi, di puericultura in 9 comuni, di igiene e pronto soccorso, di corso per analfabeta, di cultura fascista e di corso per infermiere volontarie (…).Oltre tutte queste attività la fiduciaria provinciale dei Fasci femminili ha curato la raccolta di fondi per i pacchi ai combattenti dando concreata organizzazione per effettuare un servizio di datrici di sangue ai fini assistenziali per il potenziamento fisico della razza (...)».

Il bifrontismo del regime


«La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito».Ferdinando Loffredo, Politica della famiglia, 1938

L’assioma della diversità naturale tra uomini e donne fu esteso a tutti i campi della vita sociale e politica a vantaggio dell’altro sesso, a cominciare dalla determinazione dei salari e dalle forme di partecipazione alla vita sociale. Furono ribadite con forza le nozioni di paternità, maternità, virilità, femminilità.
 La riforma del sistema scolastico del 1923  non favorì  l’istruzione femminile, e molte leggi ebbero lo scopo di ricacciare le donne all’angolo del focolare domestico.
In realtà occorreva conciliare  esigenze contrastanti, perché molti genitori guardavano all’istruzione come ad una specie di dote per le proprie figlie e quindi spingevano a favore della loro scolarizzazione, ma era pure necessario non creare competizione tra i sessi sul mercato del lavoro. Il risultato fu il RD 2480 del 9 dic. 1926, firmato dal filosofo e ministro Giovanni Gentile, che escludeva le donne dai concorsi per le cattedre di latino, greco, lettere, storia e filosofia nei licei (classici e scientifici), dall’insegnamento di italiano e storia negli istituti tecnici.

 Due anni dopo, una legge decretò che le donne non fossero nominate presidi delle scuole medie; nel ’40 un’altra legge le escluse anche dagli istituti tecnici.
 Tuttavia, malgrado gli ostacoli dovuti alle discriminazioni del sistema scolastico e alle disuguaglianze sociali, le ragazze più dotate  riuscivano a raggiungere l’università,  ma qui trovavano un clima  decisamente antifemminista.
 La canzone più in voga tra i camerati dei GUF (Gioventù universitaria fascista) recitava: “ Noi non vogliamo donne all’università, ma le vogliamo nude distese sul sofà”, e la loro opinione comune era che la donna “ è complemento dell’uomo, come il turacciolo della bottiglia” .
Se tale era l’umore negli atenei, si comprende facilmente che fu impossibile istituire sezioni femminili delle GUF fino al ’31, come fu impossibile includere le universitarie nei Littoriali della cultura, concorsi annuali di cultura e sport  promossi a partire dal 1934. Per aprirli alle donne bisognò aspettare fino al 1938, ma anche allora furono tenuti in date diverse e separati dai concorsi maschili. Solo nel 1941 i Littoriali furono tenuti congiuntamente, forse perché molti studenti erano stati richiamati sotto le armi.
 Se non erano rosee le possibilità occupazionali  nel sistema scolastico, non erano molto migliori  quelle negli uffici.
Infatti il DL del 5 sett. 1938 ordinava che gli uffici pubblici e privati  riducessero il personale femminile al dieci per cento delle maestranze. Quel decreto legge era il risultato di quindici anni di una politica che tollerava l’occupazione femminile nelle giovani, mentre mirava alla rinuncia al lavoro extradomestico nelle donne maritate. Nel contempo, il regime favorì il lavoro sommerso, perché utilizzava soprattutto lavoratrici a domicilio, sottopagate e poco tutelate, anche se fu istituita la Sezione operaia lavoranti a domicilio (SOLD), sempre nel 1938.
Mussolini era convinto che il lavoro era necessario all’identità dell’uomo, ma nelle donne “ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto”.
Gli strali della propaganda fascista si scagliavano volentieri contro le lavoratrici del riso, le mondine (scioperi in Val Padana già nel 1930-31), ritenute sfacciate perché lavoravano nell’acqua con le gonne tirate su alla cintola, perché avevano il più alto tasso di aborti spontanei (dovuti al fatto che stavano ricurve per ore), o perché abbandonavano i lattanti per il lavoro. Il loro equivalente cittadino, ugualmente deplorato pubblicamente, era la commessa,  di solito giovane, non sposata, disinibita, e perciò sicuramente sfacciata. Se avevano un’occupazione, doveva essere per necessità familiari imprescindibili, oppure perché gli uomini  avrebbero rifiutato quel tipo di lavoro.
 In tal modo, il lavoro non poté essere considerato dalle donne  né come una forma di autonomia, né come autoaffermazione delle proprie capacità e inclinazioni. Anzi, l’ordinamento corporativo impedì alle lavoratrici di essere adeguatamente rappresentate, anche perché negli anni Trenta donne laureate in materie giuridiche erano mosche bianche.
La prima donna a rappresentare il genere femminile nel seno del Consiglio Superiore delle Corporazioni fu Vittoria Maria Luzzi, che era a capo della Corporazione delle ostetriche, tutte donne. Nel 1931 fu nominata la consigliera Adele Pertici Pontecorvo, nota esperta di diritto del lavoro. Per tutto il resto, le lavoratrici erano in balia dei sindacalisti maschi.

Dopo l’entrata nel conflitto

A sfogliare i giornali e le riviste del ’40, non si nota un cambio di passo dopo l’entrata dell’Italia in guerra, il 10 giugno: tutto sembra scorrere come sempre, tra le relazioni compiaciute sull’attività federale, la cronaca dei seguitissimi eventi sportivi, dei solenni riti “inaugurali” per l’inizio dell’anno scolastico.
 Ancora il 27 sett. ’40  Il Giornale d’Italia dava notizia dell’istituzione di quaranta nuove scuole nella regione, scuole che si aggiungevano alle 110 dell’anno precedente. Il totale arrivava così  a oltre 1300 scuole di grado elementare che copriva quasi completamente le necessità.
Per la giornata dell’uva, del Balilla, per la cerimonia della leva fascista
 “che immette nel Partito, Centro motore delle attività nazionali, fresche energie plasmate nei reparti della GIL”, e poi feste danzanti, e ancora feste per il successo della campagna antitubercolare. Niente  - o quasi - sembra scalfire la spessa patina propagandistica.
 Il 21 dic. ’40  la raccolta del cuscino di lana, offerto dalla popolazione campobassana e dalle associazioni fasciste per confezionare indumenti ai combattenti, viene sfruttata dall’apparato per dimostrare la partecipazione totalitaria del popolo molisano alla guerra.
Il 25 luglio dell’anno seguente è organizzata la raccolta del pacco coloniale per i combattenti.
  Ma a poco a poco la guerra scivola inesorabile tra i pensieri dei molisani, e poi sempre più nel loro quotidiano, in un crescendo, a mezzo stampa, di appelli, inviti e doveri. Tra questi ultimi, il bollettino In marcia richiamava con forza la necessità di ospitare i profughi  in arrivo dalle altre regioni.
A partire dal ’42, diversi settori dell’economia vennero colpiti, e appositi decreti legislativi ingiunsero ai molisani la consegna dei  manufatti di rame per sostenere le industrie belliche. Si arrivò a smontare le campane dai campanili per fonderle.
Indizio sicuro che il vento era cambiato fu la mancata celebrazione, nel 1943, della festa fascista del XXI aprile, che aveva soppiantato per decenni quella del I maggio, festa dei lavoratori.
Il 10 luglio, con lo sbarco in Sicilia delle forze dell’VIII Armata, cadde l’illusione dell’estraneità dalle operazioni belliche.
Il 25 luglio, la sorte della penisola fu segnata definitivamente dalla destituzione di Mussolini da Capo del Governo.
Ma fu l’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio,  a far precipitare la situazione e a segnare il caos nel  Molise.
Le stesse ragazze che, fino a qualche mese prima, per illudersi di cambiarsi d’abito, tingevano in un altro colore l’unico che possedevano, o che fingevano di avere le calze disegnando con il carbone una riga nera sulla gamba (cfr. R.Colella, op.cit., p35), di fronte ai rastrellamenti, alle rappresaglie degli ex alleati, alle ritorsioni e alle deportazioni, ebbero un brusco - e amarissimo - risveglio, e si diedero da fare, con le loro madri, a nascondere, soccorrere, curare ricercati, soldati in fuga, sfollati (cfr. Ada Trombetta, 1943-1945…e fu guerra anche nel Molise, Arti Grafiche la Regione, 1994).
 Sartine, contadine, ricamatrici, magliaie, professioniste, non si risparmiarono, e, vincendo la paura, sfidarono le pattuglie tedesche, divenendo protagoniste di gesti di grande determinazione e generosità di cui finora è emerso a stento qualche frammento e su cui occorrerà indirizzare studi e ricerche.
Intanto, a conferma del coinvolgimento diretto delle donne durante il conflitto, e a riscattare l’oblio che tuttora avvolge tante di esse, è sopraggiunta la testimonianza del figlio di una donna non comune, Medora Marracino (biografia tracciata sulla scorta della testimonianza del figlio Marcello Capo, nel vol. cit. Il tempo sospeso Donne nella storia del Molise pp 188-197) che seppe tenere in scacco i tedeschi a Vastogirardi, coprendo e aiutando i compaesani, e che riuscì a scongiurare, grazie al suo sangue freddo, la distruzione dell’intero paese.
L’Italia era ancora tutta da ricostruire, materialmente e moralmente, quando, il 2 giugno 1946, venne chiamata alle urne per decidere, con un referendum, la forma di governo tra monarchia e repubblica.
Il Molise uscito dalle urne  risultò la regione più filomonarchica d’Italia, dopo la Campania, con 133.548 voti alla monarchia, 61.359 alla repubblica, su un totale di 194.907 voti validi.
 “Ancora una volta” - è il giudizio dello storico Luigi Picardi, intervista TG 3sede regionale Rai  del 2.6.2010 - il Molise si dimostrava “regione che non precorre, semmai rincorre, insegue, gli eventi della Storia”.
 Era la prima volta, nella Storia, che anche le donne  - oltre 12 milioni - avevano il diritto al voto, un diritto ottenuto a costo di lotte lunghe ed estenuanti che finalmente le metteva sullo stesso piano degli uomini.
 Quel giorno, con l’abito a fiori della festa, tenendo i bambini per mano, stringevano le schede come lettere d’amore, consapevoli della loro nuova responsabilità, e soprattutto del significato e della portata di quel gesto. Un gesto che, sull’onda lunga, ha prodotto, tra  barriere da abbattere, scogli da superare e sfide da affrontare, un cambiamento radicale nel rapporto tra i sessi e nell’essere pienamente cittadina.


 Rita Frattolillo © tutti i diritti riservati 2016

1 commento:

  1. Come sempre, un saggio documentatissimo quello di Rita Frattolillo e che fa capire bene il periodo fascista e l’evoluzione del pensiero femminile. Brava! bb

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