Rita Frattolillo

Il modello maternalista
“Nell’aula
magna del Reale convitto nazionale “Mario Pagano” si è con rigido rito
celebrata la «Sagra della famiglia». I capi di famiglia numerosa, le cui
consorti sono state designate per il distintivo di benemerenza, hanno il posto
d’onore. Tutti i settori sociali sono rappresentati (…) poiché sentono che in
questa celebrazione si eleva l’inno dell’amore, della fede, si consacra l’amore
della Patria, più potente per maggior numero dei suoi figli” [NOTA Il Giornale d’Italia 5
marzo 1940, Campobasso esalta la Sagra della maternità nel nome del Duce ]
Così
Il Giornale d’Italia 5 marzo 1940 riferiva, nel tono enfatico tipico di quegli anni, e con
dovizia di particolari, l’annuale celebrazione della maternità, che, dopo il
discorso tenuto dal camerata Francesco Trotta, si era conclusa con la
“Distribuzione delle medaglie di onore alle madri prolifiche
che sfilano dinanzi ai gerarchi ricevendo l’ambita attestazione tra il plauso
degli intervenuti”. Ad essere celebrate erano solo le madri prolifiche: il
primo anno, si tenne l’adunata nazionale a Roma, alla presenza del duce, e le
madri delle 90 province italiane passate in rassegna come migliori esemplari
della razza non furono chiamate per nome, ma per…numero di figli. Sui giornali
trovava spazio anche il “Bollettino
demografico” della settimana, che riportava, oltre al numero dei nati e dei
morti, l’elenco delle famiglie
prolifiche dei vari paesi molisani “da additare ad esempio”, come la coppia
D’Alò Maurillo e Franceschini Adelia, che aveva ottenuto (Il Giornale
d’Italia 6 marzo 1940) il 2°premio demografico di £1500 per aver avuto dal
1925, anno del matrimonio, 9 figli, “ oggi tutti viventi e a carico.” Il
trafiletto si chiudeva trasudando
retorica: « Montenero rurale, prolifica,
fiera di questo riconoscimento della sua sana fecondità saprà in questo campo e
in altri seguire sempre più i dettami del Duce».
L’esaltazione della maternità è stato un punto
di forza del complesso programma portato avanti dalla politica fascista fin dai
primi anni Venti, quando fu creata
(1925)l’ONMI, Opera nazionale maternità infanzia, vero fiore all’occhiello del
regime, vòlta alla protezione sociale e sanitaria delle madri e dei bambini.
A Campobasso le opere del regime, edificate grazie
al rilancio dell’attività edilizia dettata
dall’urgenza di occupare la mano d’opera, si giovarono anche del
contributo dei cittadini; così, ad esempio, la Casa Littoria del capoluogo si
avvalse del “fascistissimo slancio” dei
produttori di grano di Montenero di Bisaccia , cfr. Il Giornale d’Italia
6 marzo 1940. Nell’intera regione solo Campobasso, in quanto capoluogo di cui
il regime intendeva rafforzare il ruolo istituzionale, fu coinvolta in un
consistente piano di interventi urbanistici.
Sorsero, tra gli altri, l’ospedale “Cardarelli”, il nuovo Tribunale, il
Dispensario antitubercolare, il palazzo Incis, la Casa dell’orfano di guerra,
l’edifico ONMI, la GIL, la Casa della Scuola, il Banco di Napoli, l’hotel
S.Giorgio, il nuovo Seminario, gli
uffici delle Poste, il Lavatoio pubblico, mentre il teatro Savoia venne
ricostruito sul teatro Margherita.
Di
fatto, fu il regime a far sentire per la prima volta le donne al centro delle sue attenzioni, dal
momento che dall’Unificazione in poi le istituzioni si erano occupate di esse solo
sporadicamente, per cui si sentivano
marginalizzate. In effetti il movimento
socialista aveva sollevato alcune questioni relative all’emancipazione
femminile, ma erano battaglie portate avanti dall’opposizione.
Purtroppo
il discorso del duce all’Ascensione (26.5.’27), enfatizzando l’importanza
dell’incremento delle nascite, ridusse il mistero della fecondità all’atto
fisico della produzione di bambini, mandando in frantumi l’illusione delle
donne di essere valorizzate nei loro molteplici aspetti: era, insomma, la
risposta del regime al calo demografico.
La Giornata della Madre e dell’infanzia,
istituita nel 1933, fu fissata per il 24 dicembre, vigilia di Natale. Una
scelta certamente non casuale, perché teneva conto da una parte del culto cattolico per la
Vergine, Madre casta, esempio eccelso da seguire per ogni donna, mentre
dall’altra richiamava l’antico culto italico della Mater Matuta.

Salito al potere sulle
macerie del terremoto sociale scatenato dalla grande guerra, il fascismo si
trovò davanti un mondo femminile molto disomogeneo, a causa delle forti differenze esistenti non solo di classe e
cultura tra i ceti, ma anche e soprattutto
tra città e campagna.
Infatti stili di vita, occasioni di libertà e
di conquiste di civiltà, di accesso alle strutture sanitarie e scolastiche,
differivano non poco tra chi viveva in città e chi abitava in campagna.
Oggi
che si sono attenuate quasi del tutto le distinzioni tra città e paesi, grazie
al costante e graduale processo di omologazione riscontrabile in tutti i
settori, occorre ricordare che nel passato, fino agli anni Sessanta/Settanta
del secolo scorso, la forbice esistente tra città e campagna era molto
evidente, che i due mondi erano molto distanti tra loro, quando non addirittura
in conflitto.
Nel
1921, alla vigilia della marcia su Roma (28 ott.’22) che darà il potere a
Mussolini, Campobasso conta 16.413 abitanti, ed è in forte incremento
demografico a conferma della sua consolidata centralità territoriale di
capoluogo. Nel 1921 -Dati Istat- la provincia di Campobasso conta 253.573
abitanti, Isernia 10.018 abitanti, la sua provincia 129.080 abitanti, per un
totale di 382.653 abitanti. Nel 1931, Campobasso ha circa 3000 abitanti in più
e nel 1941 raggiunge i 22.525 abitanti. Isernia non presenta, negli stessi
anni, crescita notevole della popolazione, dal momento che nel ’41 vi sono
censiti 10.431 abitanti.
Strettamente legata a Napoli, antica capitale
del Regno, è una città impiegatizia, animata da militari, commercianti,
avvocati e insegnanti, che cercano di “ripulirla” della ancora forte
connotazione rurale.
Ben
rappresentato e nutrito, dunque, il ceto medio.
Conservatore
e conformista, sensibile alla rispettabilità, attaccato ai suoi valori e alla
sua cultura quanto si vuole, ma non per questo alieno dall’accogliere - sia
pure con prudenza e riserve - istanze di libertà e progresso. Tali aperture al
nuovo, incidendo positivamente sui rapporti familiari e sociali, finiscono con il ripercuotersi sul modo di
essere delle donne, sui loro standard di educazione e istruzione.
Si lavora fuori casa quasi
sempre per necessità e non per autonoma scelta e il lavoro femminile è
determinato dall’appartenere ad un ceto più o meno colto, più o meno fornito di
danaro.
E se in ambito nazionale
solo il 25% possiede un’occupazione, negli anni Venti una sparuta minoranza di
molisane guadagna con il proprio lavoro.
L’unica professione considerata adatta alle
donne, fin dall’Ottocento, è quella della maestra (elementare o giardiniera),
che spesso dà lezioni a casa propria.
Decisiva, per il miglioramento della
situazione educativa di metà Ottocento a Campobasso, è stata l’azione
intrapresa dalla pioniera Aline Aubin Battistelli, fondatrice di educandati di
successo che contribuirono non poco a suscitare nelle famiglie l’interesse per
l’istruzione delle proprie figlie.
Nelle
classi popolari di Campobasso i mestieri più praticati sono quelli di
lavandaia, stiratrice, sarta, ricamatrice, balia, serva, prostituta.(cfr.
Simonetta Tassinari, La condizione femminile dal fascismo ai nostri giorni,
in Campobasso Capoluogo del Molise, a c. di Renato Lalli, Norberto Lombardi, Giorgio
Palmieri, Palladino ed., 2008,v.III, p.353)
Il Molise ruralissimo
«Dai
dati statistici risulta -constatava
compiaciuto il duce - che la provincia di Campobasso è la più rurale d’Italia.
Le genti del Molise devono considerare questa posizione come un privilegio di
cui devono essere e certamente sono fierissime. Tale privilegio deve essere
conservato per gli interessi del Molise e per quelli della Patria» (cfr.Molise
Nuovo, aprile-giugno 1937, riportato da R.Colapietra, 1915-1945
Trent’anni di vita politica nel Molise, Nocera ed., Campobasso 1975, p.176).
E
il segretario federale rispondeva:
«
Le genti del Molise, che mai conobbero diserzione dal focolare, dal solco e
dalla trincea, fierissime del loro primato rurale, terranno duro!»( ibid Colapietra, p.176).
Nel
Molise fascista l’80,3% degli abitanti è dedito all’agricoltura, mentre a
Campobasso, che nel ’36 conta 29573 residenti, gli addetti all’agricoltura
sfiorano la soglia del 50%, seguiti dal 24,9% addetti all’artigianato,
industria e trasporti; dall’8,6% al commercio e dal 17% all’ amministrazione
pubblica. (Dati Istat del 21 aprile 1936).
L’agricoltura
finisce sempre più in mano alle donne, che già durante la grande guerra avevano
dovuto sostituire nel lavoro dei campi i loro uomini richiamati al fronte.
Era 1° luglio 1918 quando Il Popolo
Molisano sottolineava che le donne
supplivano in massa i richiamati a Castelpetroso, compiacendosi “dello scambio
di mano d’opera che vi si effettua fraternamente sicché nessun terreno rimane
incolto”(cfr.R. Colapietra, op.cit., p.19). E ancora le donne furono
protagoniste della sommossa popolare guidata, il 12 maggio 1920, da Rebecca
Camposarcuno, una combattiva artigiana di Ripalimosani.

Il malcontento esplose di prima mattina,
quando moltissime donne si radunarono “sotto i portici occupandoli interamente:
avevano nascosto tra le pieghe delle gonne boccette di petrolio e di benzina
decise a lanciarle sui sacchi di grano, bruciandoli, se la forza pubblica,
consistente in una cinquantina di carabinieri al comando del capitano Giorgi
avesse usato violenza”(Testimonianza raccontata dal maestro elementare Luigi
Iammarino). S’erano costruite barricate con travi a carrette che impedivano
l’accesso ai camion, e le donne, con i loro figli, stavano in prima fila,
assieme a Rebecca, la cui bambina di
quattro anni, Concetta, come le altre, faceva la staffetta tra i portici, la piazza, e gli uomini, che si
tenevano più defilati per evitare incidenti. Il pericolo di una sparatoria era
reale, perché il grano requisito doveva essere preso ad ogni costo; non per
nulla “ i carabinieri avevano celato una mitragliatrice sul serbatoio, tra le
siepi”(ibidem).
L’ultimatum per la consegna scadeva alle ore
12, le trattative si susseguivano concitate senza risultati, finché il senatore
Vittorino Cannavina, molto amato e stimato dai suoi concittadini, e al corrente
degli eventi, non risolse positivamente l’incidente. Infatti, qualche minuto
prima di mezzogiorno, prese la parola, e convinse la folla accalcata in piazza
a versare pacificamente quanto dovuto e a rimuovere la barricate, cosa che fu
prontamente fatta con l’aiuto degli stessi carabinieri.(L’episodio di Rebecca
(2.4.1891- 30.3.1980), che devo al ricordo del nipote Paolo Petti che
ringrazio, ha ispirato a Mario Tanno, appassionato di storia locale, e autore
di ricerche riguardanti il patrimonio storico-culturale del suo paese, uno
spettacolo teatrale -che ha coinvolto la collettività - intitolato “Rebecca: la
rivolta del grano”. Esso fu registrato nell’agosto 1982 e poi trasmesso dalla
sede regionale Rai. M. Tanno, oltre a fornirmi gentilmente documenti in suo
possesso sulla sommossa, mi dà anche notizia che Ripalimosani è stato forse
l’unico paese, nel 1924, a rifiutare la cittadinanza a Mussolini, cfr. Vita
del Molise del 30 novembre 1924)
In realtà, quale fosse il
peso della produzione di frumento era chiaramente emerso - come dimostra
l’episodio di Rebecca- nell’immediato dopoguerra, di fronte al crescente
disavanzo della bilancia commerciale, in cui un ruolo importante era giocato
proprio dalla importazione di grano, che da sola ammontava al 15% del
totale. Infatti, su un consumo di 75
milioni di quintali di frumento, l’Italia importava 25 milioni di quintali. La
parola d’ordine di Mussolini divenne ben presto “mobilitare il grosso esercito
degli agricoltori “e la battaglia del grano, lanciata nel 1925, fu la prima
vera grande impresa propagandistica di massa del fascismo. Preludio di un
intervento governativo che assunse i caratteri della “bonifica integrale”, il
cui piano, opera di Arrigo Serpieri, entrò in vigore nel ‘29, essa rientrava
nell’ambito della politica autarchica di autosufficienza dall’estero, e si
basava essenzialmente da una parte sull’aumento delle superfici coltivabili e
dall’altra sulla destinazione alla cerealicoltura di terreni prima destinati ad
altre colture.
Il
primato rurale del Molise di cui si compiaceva tanto Mussolini ebbe dunque un
peso fondamentale nella battaglia del
grano, grazie alla quale l’Italia riuscì ad eliminare un deficit sulla bilancia
commerciale di 4 miliardi di lire che servivano per importare tutto il frumento
necessario alla popolazione, e a soddisfare quasi a pieno il suo fabbisogno.
Non a caso alla fine del ’38 l’argomento principale sulla stampa molisana era
la ruralità trattata in tutti i suoi aspetti, dalla costruzione di strutture
per la produzione di cellulosa alla baldanzosa notizia delle località “più
rurali della più rurale regione d’Italia, il Molise”( Il Giornale d’Italia,
6 dicembre1938).
Purtroppo
il ruralismo tanto caro all’ideologia fascista non si tradusse in una effettiva
modernizzazione dell’agricoltura, e se a questo stato di cose si aggiunge che
non mancarono in quegli anni ripetute grandinate e altre avversità natutali,
con il conseguente aumento della disoccupazione bracciantile, non c’è da
meravigliarsi che per tutto il ventennio, fino all’avventura militare spagnola,
la migrazione interna, l’esodo nelle colonie, e la guerra furono visti come
soluzione al malessere economico e ai problemi cronici della disoccupazione di
massa .
E le donne, nella sostanza sempre più sole malgrado
il controllo occhiuto, esercitato dai parenti
in nome della rispettabilità e della difesa dell’onore, continueranno a
reggere casa, terra e animali, abituandosi a decidere da sé.
La concezione della donna
Su
questo tessuto umano e sociale a macchia di leopardo la politica del Regime
diede il via ad un ambizioso progetto di riforme che richiese anzitutto
l’individuazione di una certa identità femminile da proporre, valorizzare e
propagandare con tutti i mezzi di informazione a disposizione.
La concezione fascista
della donna si espresse attraverso la costruzione del mito della donna
sposa e madre esemplare, esaltando al
massimo la funzione materna. Fu definita anche l’immagine di bellezza muliebre,
che doveva essere florido, forte, tranquillo, possibilmente rurale; fu lanciata
la “battaglia per il grasso”. Circolavano espressioni del tipo:” Di donna senza
ciccia lo strapaese non s’impiccia”; “ In stretto bacino mal si cova il
piccino”.
Di pari passo con la campagna per l’aumento
delle nascite, si diede vita a politiche ad ampio raggio, come prestiti per
matrimoni e nascite, assegni familiari, titoli di preferenza nella carriera per
padri di famiglie numerose, istituzioni per l’assistenza sanitaria e sociale
alla famiglia e all’infanzia.
L’Istituto
dei prestiti, operativo dal 1 luglio 1937, fino alla fine del ’39 aveva già
concesso 2068 prestiti matrimoniali (Il Giornale d’Italia 31 marzo 1940).
Il Giornale d’Italia 6 marzo 1940,
riferendo sull’ “Attività dell’Unione fascista tra le famiglie numerose”,
elenca i benefici goduti dai capi di famiglia numerose, non prima di aver
dichiarato che nella regione le famiglie con sette e più figli sono 3984 con un
complessivo di figli viventi n.29,972.Di fatto la campagna demografica portata
avanti dal regime si rivelò fallimentare, perché le donne, a dispetto del diktat
fascista, seguirono proprie strategie di rapporto con la modernità, a cui non
furono estranei né i contatti con l’estero, favoriti dallo stesso regime, sia
pure sotto l’egida dell’ufficialità, né la stampa, che, malgrado tutto, riuscì
a proporre, tra pubblicità e servizi giornalistici, una molteplicità di modelli
da seguire e imitare.
Comunque, tra le agevolazioni concesse: 15% di
sconto sull’importo del consumo di energia elettrica, del biglietto ferroviario
(per viaggi compiuti contemporaneamente da almeno tre componenti di famiglia
numerosa); 20% di sconto sulla tariffa per l’assistenza ostetrica alle madri di
famiglie numerose; il Comune di Campobasso e l’Impresa Gas De Capoa concede sconti su acqua e gas per cucina.
Quanto
all’assistenza all’infanzia, non mancava la Refezione scolastica:
«Migliaia
e migliaia di bambini poveri di ambo i sessi, nelle scuole elementari di Stato
ed in quelle rurali hanno ricevuto, anche nelle zone più lontane del Molise, il
cibo sano, abbondante, caldo, con razioni di pane e frutta» Il Giornale
d’Italia 7 marzo 1940
Altro
motivo di gloria erano le colonie estive:
«Da
tre colonie climatiche che appena ricoveravano 700 bambini, le colonie sono
salite a 8 con 5000 bambini assistiti. A Campobasso, Termoli, Isernia, centri
di assistenza specifica ed in tutti i
comuni del Molise sono sorti centri fiorenti di cure ben attrezzati e con ogni
conforto: abbondante e sano vitto, educazione spirituale, culturale e sportiva.
Tutto un fiorire di gentilezza e di assistenza dall’alza all’ammaina bandiera
nel cordo sacro degli eroi e della gratitudine al Duce» Il Giornale d’Italia
7 marzo 1940
In
campo ostetrico e pediatrico, poi,
«Premesso
che finalità dell’assistenza è il miglioramento e il potenziamento della razza,
è ovvio che l’Opera deve curare i bambini costituzionalmente sani aventi
bisogno di maggiore nutrimento, lasciando la cura degli infermi ai Comuni ed
alle organizzazioni che hanno tale specifico mandato per tassative disposizioni
legislative» Il Giornale d’Italia 12 marzo 1940
Il
potenziamento della razza escludeva l’aborto. Le cronache di quegli anni danno
notizia di svariati procedimenti penali per procurato aborto e per ogni pratica
di prevenzione delle nascite, pur se la fecondità femminile era molto elevata e
oltre la metà delle donne fertili arrivava al quarto figlio.
La forte razza italica, naturalmente, era solo
quella nata nel sacro vincolo del matrimonio.

I
Patti Lateranensi (1929), assieme alla Casta
Connubi di Pio XI, ebbero un ruolo preminente nel collocare l’istituzione matrimoniale in una
posizione privilegiata, e allora, per
uniformare il codice di famiglia alla legge canonica, il regime abbassò l’età
minima del matrimonio per le donne a
quattordici anni e si diede da fare per agevolare le nozze di gruppo.
Nello
stesso tempo, le coppie unite solo con rito civile furono trattate da pubblici
peccatori: nel nm. di luglio-agosto ’34
del bollettino diocesano (fondato nel ’33 dal vescovo monsignor Bernacchia, che
si mostrò fermo nei confronti del regime) di Larino compare una sanzione in tal senso
per coloro che si sposano civilmente, e si impone inoltre che il matrimonio
religioso sia ad essi consentito solo a patto di una vera penitenza, e con una
celebrazione fatta senza pompa, a porte chiuse e di prima mattina (R.Colapietra,
op. cit., pp.178-179).
I “Casini”
Intanto, allo scopo di rimuovere dagli spazi
pubblici il sesso illecito e tracciare uno spartiacque netto tra le donne cattive e quelle buone, dalle
strade sparirono le prostitute.
Comparvero
così le case di tolleranza, i “casini”, emblema della doppia morale
dominante: alla donna era imposto l’obbligo della verginità prima delle nozze e
della fedeltà coniugale dopo, mentre all’uomo tutto era concesso, anzi dovere
della brava moglie era chiudere un occhio sulle scappatelle del “maschio
italico, vera gloria della stirpe.”( http://www.storiain.net, visita del 14 aprile 2010).
Nelle case chiuse, controllate dallo Stato, le
donne, prostitute ufficiali del regime, erano soggette a controlli medici periodici obbligatori da parte dell’Istituto
di igiene e profilassi, ed esercitavano la
professione con clienti che
dovevano avere minimo 18 anni.
Nel Molise si aprirono
casini nei maggiori centri, quasi sempre nei quartieri storici, come a
Campobasso, dove le due case chiuse erano situate nella zona antica, al riparo da sguardi indiscreti. L’una, fuori
Porta San Paolo, nei pressi dell’omonima chiesetta, e l’altra, ubicata a Ponte
Brusca (Informazione di Pasquale
Tucci, classe 1930, che ricorda il suo stupore di bambino, quando incontrava,
nella zona dove abitava, quelle donne alla moda, eleganti, truccate, che
“osavano”fumare disinvoltamente per strada), erano rette, negli anni d’oro, da
due tenutarie siciliane, donna Maddalena Bencivenga, e donna Peppa Patanè. A
quel che è dato sapere, a “quelle” signorine non mancavano accompagnatori
assidui di ogni età e dei vari ceti sociali.
Come si sa, i casini
saranno chiusi nel 1958, come tutti gli altri sul territorio nazionale, dopo
l’approvazione della L.Merlin.
Il processo di normalizzazione
Il processo di
normalizzazione che colpì e scompaginò la rete organizzativa sovversiva
molisana fu portato a termine con il determinante
concorso del prefetto marchigiano Agostino
Iraci.
(Cfr. Antonio D’Ambrosio, W il I° Maggio La
festa del lavoro nel Molise dal 1890 ai giorni nostri, Associazione “Pro
Arturo Giovannitti”, Campobasso 2006).
Tra i sovversivi vanno menzionati almeno i fratelli Alessandro
e Giovanni Porfirio, artigiani di Trivento, che animarono una vivace sezione
socialista nel loro paese con 150 soci finché non furono costretti a riparare in Usa. Tornati a
Trivento, furono affiancati dal nipote Spartaco e da due donne coraggiose, la
polacca Maria Nejman, che Giovanni aveva conosciuto in Usa, e Domenichina Del
Castello, moglie di Alessandro. Nel ’43 compirono molte missioni sul confine
tra Abruzzo e Molise in collegamento con i canadesi. Fornirono agli alleati preziose
informazioni, catturarono soldati tedeschi, aiutarono prigionieri fuggiti dal
campo di concentramento di Sulmona ad
attraversare le linee con lunghe marce attraverso i boschi fino a Campobasso.
Successivamente dichiarati “partigiani combattenti”, furono sostenuti nella loro opera da un gruppo di 50 contadini.
(www.e-brei.net, visita del 24 aprile 2010).
Il via al nuovo corso
totalitario vide, a partire dagli anni Trenta, le masse femminili sempre più
coinvolte nel pubblico per realizzare gli obiettivi del partito nazionale
fascista (PNF), concorrendo a consolidare il regime, attraverso la
condivisione del progetto ideologico,
oltre che di quello politico-sociale.
Non si spiegherebbe diversamente la militanza
e l’attività del personale femminile nei campi di internamento. Un esempio per
tutti, e certamente non isolato, è quello di Caterina Martino, che diresse con mano ferma il campo di
internamento Vinchiaturo, in cui il fratello Nicola era medico delle internate (Per
un approfondimento sulla figura di questa outsider si rinvia a Caterina
Martino, in Rita Frattolillo, Barbara Bertolini, Il tempo sospeso Donne
nella storia del Molise, Ed
Filopoli Campobasso 2007 pp.198-206).
Per formare la donna “nazionalizzata” fu
necessario costruire una coscienza politica che avesse a cuore gli interessi
dello Stato
Sensibili all’appello diretto del duce, alle
scenografie di massa che davano
l’illusione di essere parte attiva della
Nazione, le donne si sentirono sostenute dal regime, ed erano convinte, quando
si privarono della fede d’oro o d’argento durante l’emergenza per la guerra
d’Etiopia.
Ma più tardi si sarebbero rifiutate di
consegnare i figli alla leva, avrebbero cercato di impedire la deportazione dei
loro uomini nei campi di lavoro forzato in Germania, si sarebbero schierate
contro il razionamento dei beni di prima necessità, si sarebbero sollevate
contro i soprusi di dazi e tasse e contro il ritardo nell’erogazione dei
sussidi. Le relazioni comunali, soprattutto dall’armistizio in poi, sono piene
di episodi di violenza, aggressioni, proteste,
spesso capeggiati da donne, a Cercemaggiore come a Guglionesi, a Palata
come a Gildone, a Montefalcone come a Montecilfone.(Cfr. Roberto Colella, Il
Molise dalla crisi del fascismo alla Liberazione, ed. Il Bene Comune,
Campobasso 2009, p.54 sg.)
In verità sollevamenti popolari non mancarono
neanche prima dell’armistizio. Infatti lo schedario Carbone, enumerando i
molisani confinati per motivi politici durante il ventennio, menziona tra essi
una contadina vedova di 68 anni, analfabeta, apolitica, Cenci Maria Felicia di
Vastogirardi, arrestata nel ’40 per aver istigato altri contadini a manifestare
contro l’applicazione di nuove tasse, condannata a due anni, confinata a Nereto
(Teramo), e poi prosciolta nel ’41(cfr.R.Colapietra, op.cit., p.197).
Comunque, l’adesione alla
causa, che suggellava con la consegna della propria fede l’unione tra le donne
e lo Stato, oltre ad avere un gran peso simbolico (ma anche concreto, con il
rastrellamento dell’oro in ogni parte della nazione), diede forte impulso al
proselitismo delle organizzazioni fasciste: alla fine del ’36 erano in
tutt’Italia oltre mezzo milione le nuove iscritte, di cui 250 mila massaie
rurali.
Alla grande adunata delle
forze femminili che si svolse a Roma nel maggio ’39, arrivarono 70 mila donne,
e 15 mila sfilarono in uniforme dal Circo Massimo a Via dell’Impero.
D’altronde,
il duce non perdeva occasione per rivolgersi direttamente alle donne,
risvegliando in loro l’amore per la Patria, spingendole a esaltare la guerra, a
valorizzare la vittoria, solleticandole nell’orgoglio di essere importanti come
madri di pionieri e soldati.
“
La vecchia mamma dell’Eroe, autentica massaia rurale, era nel suo fondo intenta
a dirigere i lavori agricoli. Aveva nelle braccia un piccolo nipotino quando
ricevette il Gerarca dei combattenti molisani”: così Il Giornale d’Italia
9 ottobre ’40 enfatizzava il “Devoto omaggio ai congiunti di Iezza
Guerrino” alla cui memoria era stata
concessa la “Medaglia d’Oro al V.M. per le sue gesta sul fronte italo-francese,
Moncenisio” a giugno] in quanto milizia civile al servizio dello Stato.
Una milizia le cui linee-guida, apparse fin dal
14.1.1922, chiarivano il ruolo riservato alle donne: dovevano partecipare a
riunioni e raduni, avvicinare la gente al regime attraverso attività benefiche,
occuparsi di propaganda, assistere malati e feriti, fare da madrine ai nuovi
Fasci di combattimento, ma era proibita ogni iniziativa politica.
Dopo il 1925 la
dittatura riconobbe solo due “movimenti”: le organizzazioni femminili fasciste
e i gruppi cattolici, questi ultimi appena tollerati, e ben sorvegliati
all’indomani della Conciliazione, in quanto guardati con sospetto come fucina
della futura classe dirigente democratica.
I prefetti
erano tenuti a inviare a Roma lo specchietto riassuntivo riguardante il numero
dettagliato - e distinto per paese e sesso degli iscritti - delle associazioni
giovanili cattoliche, mentre in un rapporto successivo dovevano sottolineare la
consistenza degli iscritti alla GIL. Sia la considerazione che l’informazione
sono riprese da R.Colapietra (op. cit., pp.170-171).
Solo
la militanza fascista consentiva visibilità e persino qualche opportunità di carriera.
Ad esempio, erano indetti i corsi nazionali
per il conseguimento del grado di Capo centuria e del grado di Capo coorte,
entrambi
«destinati
alle camerate non appartenenti alle Giovani Fasciste graduate per le quali
saranno organizzati appositi corsi a cura dei Comandi federali. Ad essi possono
concorrere le insegnanti e le diplomate » Il Giornale d’Italia 5 giugno
’40.
I giornali non mancavano di dare rilievo ai
successi ottenuti dalle camerate:
“Il Comando Generale della GIL di Larino ha
ratificato la proposta del Federale che nomina la nostra segretaria del Fascio
Femminile signorina Luisa De Rosa, Ispettrice provinciale della GIL(…), nomina
che premia la sua opera ben nota per la sua collaborazione diligente alle opere
del Regime, e perciò vadano a lei i più vivi rallegramenti di Larino Fascista”
Il Giornale d’Italia 3 marzo ’40.
Non è da meno la Sezione operaie a domicilio
di S.Croce di Magliano, dove
“(…)la insegnate Pilla Teresa è stata nominata
dalla Segretaria Federale fiduciaria della sezione” Il Giornale d’Italia
5 marzo ’40.
L’evidente
oscillazione degli interventi statali tra conservatorismo e modernizzazione
della condizione femminile induce a chiedersi come si potevano conciliare le
virtù della domesticità e la subordinazione - predicate incessantemente - con
le attività volute dalle organizzazione fasciste fuori casa e l’esaltazione
delle manifestazioni di eroismo. Tanto più che nella sostanza la donna fu
chiusa nei ruoli tradizionali: basti pensare alle norme espulsive dal mercato
del lavoro, o alla negazione del diritto di voto: fu concesso il diritto al
solo voto amministrativo, ma quasi contemporaneamente furono abolite le
elezioni locali; l’istruzione femminile e l’inquadramento nelle organizzazioni fasciste non dovevano in
alcun modo turbare una realtà storico-sociale fondata da secoli sulla
indiscussa autorità maschile.
Come “fattrici”, le donne dovevano essere silenziose,
sempre disponibili, incarnare i ruoli tradizionali, mentre come cittadine e
patriote, dovevano essere combattive, presenti e pronte a rispondere alle
esigenze del regime. Obiettivi divergenti, insomma, generati da una concezione dualistica del
ruolo femminile tipica del fascismo.
L’apparato statale fascista
provvide comunque a riempire, oltre agli spazi privati, anche quelli
pubblici della giornata di tutte le
cittadine italiane.

Il
primo Fascio fu istituito a Monza da Elisa Savoia il 12 maggio 1920; le
aderenti ai Fasci, a livello nazionale, fino alla marcia su Roma non furono più
di qualche centinaio. Essi comprendevano le Piccole
Italiane (8/14 anni), le Giovani Italiane
(14/17anni), le Massaie Rurali.
L’organo centrale era la Consulta, e il suo compito era indirizzare e
coordinare l’attività delle organizzazioni femminili del Partito.
Le attività femminili dei
gruppi giovanili davano peso alla ginnastica - altro punto di forza
dell’ideologia fascista era la sanità fisica, la cultura del corpo - e
comprendevano la puericultura, decorazioni, assistenza sociale (soccorso e
carità), economia domestica.
il
tradizionalismo fascista si manifestò anche nella scelta delle dirigenti,
che erano escluse dalle decisioni; gli
uomini al vertice decidevano persino il
tessuto per le uniformi o i punti da
disegnare per la bandiera e la fiamma sui fazzoletti della SOLD. Di solito
erano nobildonne, preferite agli altri ceti per la delicatezza del tratto. Ma
neanche le dirigenti erano considerate “vere”
professioniste e questo continuò ad escludere le militanti dal potere.
I cinegiornali Luce (obbligatori dal ’26) propagandavano senza sosta i corsi che
valorizzavano le virtù domestiche, chiamati con enfasi “corsi per fidanzate”, e
ribadivano l’immagine tradizionale della donna, diffusa anche dalla stampa, dalla
letteratura fascista, dai libri scolastici.
Un
libro sussidiario per le scuole del Molise di quegli anni è Gente
Buona, edito dall’ed. Carabba di Lanciano nel 1925, realizzato da Eugenio
Cirese nello spirito della svolta didattica voluta dal ministro Gentile sotto
l’influsso del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice. Esso è testimonianza
preziosa, oltre che di un’epoca, del tentativo di dare sostanza e spessore
all’identità molisana. Infatti pagine dedicate ad eroi e combattenti sono accostate a quelle sulla fierezza
dell’eredità storica sannita, sull’amore per la natura, per le stagioni, a
quelle che esaltano l’attaccamento alla terra, il floklore della regione,
l’operosità e la profonda sobrietà interiore della “gente buona”.
Sui giornali rimbalzavano luminosi esempi di
volontarie ed assistenti:
«Non
può passare sotto silenzio la fervida attività che svolge la camerata signorina
Margherita Tozzi nel campo assistenziale dell’Ospizio Pollice di S.Martino in
Pensilis dove tutte le mattine si reca per curare il pranzo dei vecchi
bisognosi(…) Al sentimento aggiunge aiuto materiale rispondente alla sua fede
fascista (…) Auguriamoci da (sic) tanto esempio di carità sia mònito e sprone» Il Giornale d’Italia
2 marzo 1940.
Venivano
imposte esercitazioni, perché la pratica sportiva doveva assicurare una stirpe
più sana al popolo italico, ed adunate a cadenza fissa, a cui partecipare in
divisa. Le esercitazioni nel capoluogo molisano si svolsero all’aperto fin
quando non fu eretto, su progetto dell’architetto napoletano Domenico
Filippone, tra il 1936 e il 1938, l’edificio della GIL(Gioventù Italiana del
Littorio).
La partecipazione alle attività, oltre a
migliorare il fisico femminile; e
stimolare lo spirito competitivo, offriva la libertà di uscire di casa,
tra adunate e ginnastica, e di allontanarsi
un po’ alla volta dall’autorità
genitoriale.
Altro
che “La donna è come la perla, men si mostra e più è bella”; altro che “Mogli e
sardine vanno chiuse in scatoline”.
Quando
nel 1932 fu istituita ad Orvieto l’Accademia Nazionale di Educazione Fisica, la
cultura del corpo, che era considerata dal Fascismo come esercizio di
disciplina in nome del Partito e della razza, fu guardata dalle donne
soprattutto come una maniera di esprimersi.
Le Massaie
Rurali
Le
Massaie Rurali, donne residenti in Comuni rurali o appartenenti a famiglie di
coltivatori diretti, coloni, proprietari terrieri, dovevano incrementare
l’autarchia, promuovere la formazione delle donne di campagna in ordine
all’educazione all’infanzia, alla salute, all’igiene, ad una sana maternità.
Il Giornale d’Italia 3 marzo 1940 segnala soddisfatto :
«A
Montagano, sia nel nucleo Massaie rurali, che in tutti gli altri settori, delle
lavoranti a domicilio, delle operaie e delle fasciste funzionano tutte le
attività di carattere culturale e della preparazione della donna alla vita
coloniale. Quanto prima saranno ripresi i corsi di infermiere e di telefoniste
e telegrafiste».
Qualche giorno dopo, l’8 marzo, lo stesso
quotidiano annunciava un corso teorico-pratico di viticoltura tenuto a Riccia
dal perito agrario camerata Pannunzio Giuseppe anche “per ricordare ai nostri
rurali di concorrere all’esito soddisfacente della battaglia autarchica
ingaggiata dal Regime”. Dunque, tra i compiti dei tecnici, non mancava quello
di mediatore del consenso (Cfr. Gino Massullo, Dalla mobilità
all’emigrazione, in Storia del Molise, a c. di Idem, V, Laterza Bari 2000, p.50).
La
politica di divulgazione culturale dava i suoi frutti, tanto che, sempre nel
’40, le 150 sezioni rurali costituite nella Provincia avevano raggiunto un
rilevante numero di iscritte e di tesserate e funzionavano senza sosta. Vi si
svolsero i corsi di pollicoltura, orticoltura, apicoltura, frutticoltura,
olivocoltura, lavori femminili, economia domestica, di igiene e pronto
soccorso, lotta contro gli sprechi in merito alle attività organizzative
dell’autarchia e della conservazione dei prodotti (Il Giornale d’Italia
21 sett. 1940).
Il “massaismo” produsse
anche un altro risultato - probabilmente non previsto, o sottovalutato, ma
foriero di conseguenze - perché, favorendo l’accesso al mercato, consentì una
certa indipendenza economica delle donne. Queste ebbero quindi la possibilità
di migliorare il proprio aspetto, di “addobbarsi” con prodotti cittadini, come
nastri e stoffe di seta artificiale, allora in voga. E soprattutto, grazie ai
vari corsi, si aprirono canali di
comunicazione tra donne di campagna e di città. Infatti il rapporto intessuto
tra le militanti e le donne che avvicinavano e coinvolgevano allo scopo di organizzarle,
finì per emancipare le “discepole”, avviando inesorabilmente lo sfilacciamento
della società rurale patriarcale. Inoltre, le lezioni di economia domestica -
che era intesa come razionalizzazione delle risorse domestiche- introdussero
l’esercizio di una gestione razionale all’interno del proprio nucleo familiare
che ebbe evidenti effetti concreti.
Infine, siccome i corsi
erano organizzati di solito dalle esponenti della classe più elevata,
legittimarono ancor più il ruolo di guida di quella classe sui ceti inferiori.
Il volontariato
L’attività
di volontariato venne vissuta dalle donne come obbligo sociale e ritenuto dalla
dittatura l’unica dimensione politica possibile per le donne.
Era
il così detto “sano” femminismo, da contrapporre al “vano” femminismo. Fu
istituita la figura delle Visitatrici,donne che visitavano le famiglie
bisognose, assistendole moralmente e materialmente, specie nell’ambito
maternità e infanzia, e che erano tenute a riferire alla segretaria del Fascio
di appartenenza. L’avv. Enrico Sassi,
classe 1925, ha ricordato un simpatico
episodio: zelanti visitatrici, nel corso dei loro abituali giri di assistenza
alle famiglie bisognose, bussarono alla porta della casa di tolleranza del
Ponte Brusca. Quando si videro davanti un paio di “signorine” truccate e
discinte, ebbero un attimo di panico, e, arrossendo fino alla radice dei
capelli, scapparono via balbettando che
si erano sbagliate.
In un articolo del 20 sett. ‘40 Il Giornale
d’Italia sintetizza bene la consistenza de “La vasta attività delle donne
fasciste molisane”:
«
Magnifica l’attività svolta dai Fasci femminili della ruralissima i quali hanno
improntato la loro perfetta organizzazione ai criteri direttivi dipendenti in
pieno alle (sic) finalità istituzionali ed alle norme dei competenti
Organi centrali. Al lavoro organizzativo, amministrativo e politico (…) è
parallelo (sic) la fatica
quotidiana delle visitatrici fasciste che si sono distinte in specie nei Fasci
femminili di Agnone (…).I Fasci femminili del Molise hanno continuato ad
organizzare corsi speciali di economia domestica in 18 comuni, i lavori
femminili in 12 comuni, di taglio, cucito, e ricamo in 10 paesi, di
puericultura in 9 comuni, di igiene e pronto soccorso, di corso per analfabeta,
di cultura fascista e di corso per infermiere volontarie (…).Oltre tutte queste
attività la fiduciaria provinciale dei Fasci femminili ha curato la raccolta di
fondi per i pacchi ai combattenti dando concreata organizzazione per effettuare
un servizio di datrici di sangue ai fini assistenziali per il potenziamento
fisico della razza (...)».
Il bifrontismo del regime
«La
indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la
maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto
più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito».Ferdinando
Loffredo, Politica della famiglia, 1938
L’assioma
della diversità naturale tra uomini e donne fu esteso a tutti i campi della
vita sociale e politica a vantaggio dell’altro sesso, a cominciare dalla
determinazione dei salari e dalle forme di partecipazione alla vita sociale.
Furono ribadite con forza le
nozioni di paternità, maternità, virilità, femminilità.
La riforma del sistema scolastico del
1923 non favorì l’istruzione femminile, e molte leggi ebbero
lo scopo di ricacciare le donne all’angolo del focolare domestico.
In realtà occorreva
conciliare esigenze contrastanti, perché
molti genitori guardavano all’istruzione come ad una specie di dote per le
proprie figlie e quindi spingevano a favore della loro scolarizzazione, ma era
pure necessario non creare competizione tra i sessi sul mercato del lavoro. Il
risultato fu il RD 2480 del 9 dic. 1926, firmato dal filosofo e ministro
Giovanni Gentile, che escludeva le donne dai concorsi per le cattedre di
latino, greco, lettere, storia e filosofia nei licei (classici e scientifici),
dall’insegnamento di italiano e storia negli istituti tecnici.
Due anni dopo, una legge decretò che le donne
non fossero nominate presidi delle scuole medie; nel ’40 un’altra legge le
escluse anche dagli istituti tecnici.
Tuttavia, malgrado gli ostacoli dovuti alle
discriminazioni del sistema scolastico e alle disuguaglianze sociali, le
ragazze più dotate riuscivano a
raggiungere l’università, ma qui
trovavano un clima decisamente
antifemminista.
La canzone più in voga tra i camerati dei GUF
(Gioventù universitaria fascista) recitava: “ Noi non vogliamo donne
all’università, ma le vogliamo nude distese sul sofà”, e la loro opinione
comune era che la donna “ è complemento dell’uomo, come il turacciolo della
bottiglia” .
Se tale era l’umore negli
atenei, si comprende facilmente che fu impossibile istituire sezioni femminili
delle GUF fino al ’31, come fu impossibile includere le universitarie nei
Littoriali della cultura, concorsi annuali di cultura e sport promossi a partire dal 1934. Per aprirli alle
donne bisognò aspettare fino al 1938, ma anche allora furono tenuti in date
diverse e separati dai concorsi maschili. Solo nel 1941 i Littoriali furono
tenuti congiuntamente, forse perché molti studenti erano stati richiamati sotto
le armi.
Se non erano rosee le possibilità
occupazionali nel sistema scolastico,
non erano molto migliori quelle negli
uffici.
Infatti il DL del 5 sett.
1938 ordinava che gli uffici pubblici e privati
riducessero il personale femminile al dieci per cento delle maestranze.
Quel decreto legge era il risultato di quindici anni di una politica che tollerava
l’occupazione femminile nelle giovani, mentre mirava alla rinuncia al lavoro
extradomestico nelle donne maritate. Nel contempo, il regime favorì il lavoro
sommerso, perché utilizzava soprattutto lavoratrici a domicilio, sottopagate e
poco tutelate, anche se fu istituita la Sezione operaia lavoranti a domicilio
(SOLD), sempre nel 1938.
Mussolini
era convinto che il lavoro era necessario all’identità dell’uomo, ma nelle
donne “ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta una
indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto”.
Gli
strali della propaganda fascista si scagliavano volentieri contro le
lavoratrici del riso, le mondine (scioperi in Val Padana già nel 1930-31),
ritenute sfacciate perché lavoravano nell’acqua con le gonne tirate su alla
cintola, perché avevano il più alto tasso di aborti spontanei (dovuti al fatto
che stavano ricurve per ore), o perché abbandonavano i lattanti per il lavoro.
Il loro equivalente cittadino, ugualmente deplorato pubblicamente, era la
commessa, di solito giovane, non
sposata, disinibita, e perciò sicuramente
sfacciata. Se avevano un’occupazione, doveva essere per necessità familiari
imprescindibili, oppure perché gli uomini
avrebbero rifiutato quel tipo di lavoro.
In tal modo, il lavoro non poté essere
considerato dalle donne né come una
forma di autonomia, né come autoaffermazione delle proprie capacità e
inclinazioni. Anzi, l’ordinamento corporativo impedì alle lavoratrici di essere
adeguatamente rappresentate, anche perché negli anni Trenta donne laureate in
materie giuridiche erano mosche bianche.
La
prima donna a rappresentare il genere femminile nel seno del Consiglio
Superiore delle Corporazioni fu Vittoria Maria Luzzi, che era a capo della
Corporazione delle ostetriche, tutte donne. Nel 1931 fu nominata la consigliera
Adele Pertici Pontecorvo, nota esperta di diritto del lavoro. Per tutto il
resto, le lavoratrici erano in balia dei sindacalisti maschi.
Dopo l’entrata nel conflitto
A
sfogliare i giornali e le riviste del ’40, non si nota un cambio di passo dopo
l’entrata dell’Italia in guerra, il 10 giugno: tutto sembra scorrere come
sempre, tra le relazioni compiaciute sull’attività federale, la cronaca dei
seguitissimi eventi sportivi, dei solenni riti “inaugurali” per l’inizio
dell’anno scolastico.
Ancora il 27 sett. ’40 Il Giornale d’Italia dava notizia
dell’istituzione di quaranta nuove scuole nella regione, scuole che si
aggiungevano alle 110 dell’anno precedente. Il totale arrivava così a oltre 1300 scuole di grado elementare che
copriva quasi completamente le necessità.
Per
la giornata dell’uva, del Balilla, per la cerimonia della leva fascista
“che immette nel Partito, Centro motore delle
attività nazionali, fresche energie plasmate nei reparti della GIL”, e poi
feste danzanti, e ancora feste per il successo della campagna antitubercolare.
Niente - o quasi - sembra scalfire la
spessa patina propagandistica.
Il 21 dic. ’40
la raccolta del cuscino di lana, offerto dalla popolazione campobassana
e dalle associazioni fasciste per confezionare indumenti ai combattenti, viene
sfruttata dall’apparato per dimostrare la partecipazione totalitaria del popolo
molisano alla guerra.
Il
25 luglio dell’anno seguente è organizzata la raccolta del pacco coloniale per
i combattenti.
Ma a poco a poco la guerra scivola
inesorabile tra i pensieri dei molisani, e poi sempre più nel loro quotidiano,
in un crescendo, a mezzo stampa, di appelli, inviti e doveri. Tra questi
ultimi, il bollettino In marcia richiamava con forza la necessità di
ospitare i profughi in arrivo dalle
altre regioni.
A
partire dal ’42, diversi settori dell’economia vennero colpiti, e appositi
decreti legislativi ingiunsero ai molisani la consegna dei manufatti di rame per sostenere le industrie
belliche. Si arrivò a smontare le campane dai campanili per fonderle.
Indizio
sicuro che il vento era cambiato fu la mancata celebrazione, nel 1943, della
festa fascista del XXI aprile, che aveva soppiantato per decenni quella del I
maggio, festa dei lavoratori.
Il
10 luglio, con lo sbarco in Sicilia delle forze dell’VIII Armata, cadde
l’illusione dell’estraneità dalle operazioni belliche.
Il
25 luglio, la sorte della penisola fu segnata definitivamente dalla
destituzione di Mussolini da Capo del Governo.
Ma
fu l’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio,
a far precipitare la situazione e a segnare il caos nel Molise.
Le stesse ragazze che, fino a qualche mese prima, per
illudersi di cambiarsi d’abito, tingevano in un altro colore l’unico che
possedevano, o che fingevano di avere le calze disegnando con il carbone una
riga nera sulla gamba (cfr. R.Colella, op.cit., p35), di fronte ai
rastrellamenti, alle rappresaglie degli ex alleati, alle ritorsioni e alle
deportazioni, ebbero un brusco - e amarissimo - risveglio, e si diedero da
fare, con le loro madri, a nascondere, soccorrere, curare ricercati, soldati in
fuga, sfollati (cfr. Ada Trombetta, 1943-1945…e fu guerra anche nel Molise,
Arti Grafiche la Regione, 1994).
Sartine,
contadine, ricamatrici, magliaie, professioniste, non si risparmiarono, e,
vincendo la paura, sfidarono le pattuglie tedesche, divenendo protagoniste di
gesti di grande determinazione e generosità di cui finora è emerso a stento
qualche frammento e su cui occorrerà indirizzare studi e ricerche.
Intanto, a conferma del coinvolgimento diretto delle
donne durante il conflitto, e a riscattare l’oblio che tuttora avvolge tante di
esse, è sopraggiunta la testimonianza del figlio di una donna non comune,
Medora Marracino (biografia tracciata sulla scorta della testimonianza del
figlio Marcello Capo, nel vol. cit. Il tempo sospeso Donne nella storia del
Molise pp 188-197) che seppe tenere in scacco i tedeschi a Vastogirardi,
coprendo e aiutando i compaesani, e che riuscì a scongiurare, grazie al suo
sangue freddo, la distruzione dell’intero paese.
L’Italia era ancora tutta da ricostruire,
materialmente e moralmente, quando, il 2 giugno 1946, venne chiamata alle urne
per decidere, con un referendum, la forma di governo tra monarchia e repubblica.
Il Molise uscito dalle urne risultò la regione più filomonarchica
d’Italia, dopo la Campania, con 133.548 voti alla monarchia, 61.359 alla
repubblica, su un totale di 194.907 voti validi.
“Ancora una
volta” - è il giudizio dello storico Luigi Picardi, intervista TG 3sede
regionale Rai del 2.6.2010 - il Molise
si dimostrava “regione che non precorre, semmai rincorre, insegue, gli eventi
della Storia”.
Era la prima
volta, nella Storia, che anche le donne - oltre 12 milioni - avevano il diritto al
voto, un diritto ottenuto a costo di lotte lunghe ed estenuanti che finalmente
le metteva sullo stesso piano degli uomini.
Quel giorno,
con l’abito a fiori della festa, tenendo i bambini per mano, stringevano le
schede come lettere d’amore, consapevoli della loro nuova responsabilità, e
soprattutto del significato e della portata di quel gesto. Un gesto che,
sull’onda lunga, ha prodotto, tra
barriere da abbattere, scogli da superare e sfide da affrontare, un
cambiamento radicale nel rapporto tra i sessi e nell’essere pienamente
cittadina.
Rita
Frattolillo © tutti i diritti riservati 2016
Come sempre, un saggio documentatissimo quello di Rita Frattolillo e che fa capire bene il periodo fascista e l’evoluzione del pensiero femminile. Brava! bb
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