Perché in questa giornata del
27 gennaio il nostro pensiero sia rivolto, oltre che alla shoah di
sei milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale, a tanti altri
olocausti di cui si sa poco o nulla.
Perché troppo spesso gli studiosi occidentali passano
sotto silenzio o dimenticano i grandi eventi che sono accaduti al di fuori dei confini di loro “competenza”.
Del feroce
genocidio perpetrato ai danni dei curdi, qualcosa ogni tanto comincia a trapelare, ma a fatica.
Quasi nulla,
poi, è affiorato sulla sorte tragica toccata a più riprese, durante i secoli, ad
un popolo geloso della propria indipendenza ed unicità come quello armeno.
Il loro genocidio è tuttora negato, ed è per questo che
voglio parlarne.
Tre sono i
momenti tragicamente indimenticabili - mi pare - della loro travagliata lotta per
l’indipendenza.
Nel V sec. d.C. la battaglia di Avarayr (26 maggio 451)
segna un evento decisivo per l’affermazione dell’identità del popolo armeno,
che aveva aderito al Cristianesimo dodici anni
prima dell’Editto di Costantino, nel 301.
A quell’epoca
gli armeni erano stati assoggettati ai persiani, i quali, professando lo
zoroastrismo, cercarono in tutti i modi di convincerli ad aderire alla loro
religione. Ma questi si ribellarono ai magi (sacerdoti di Zoroastro), riuscendo
a mettere in piedi un esercito guidato dal leader militare Vardan Mamikonian,
filo-romano e insofferente ai soprusi sasanidi. Esercito che, malgrado il
valore, nulla poté contro gli schieramenti persiani potentissimi, completi di
elefanti e cavalieri con armamento pesante. Vardan, che prima dello scontro aveva
pronunciato queste parole galvanizzando i suoi: “Chi credeva che il
Cristianesimo fosse per noi un abito, ora saprà che non potrà togliercelo, come
colore della nostra pelle!” fu trucidato in battaglia con altri 1036 martiri,
guadagnandosi l’onore degli altari.
Dopo decenni di guerriglia tra armeni e armate persiane fu deciso, per evitare ulteriori
danni, di concedere agli armeni la libertà di culto. Era il 484 d.C.
Questo è il
primo dato sconvolgente di una storia tutta intrisa di una fede cristiana
rimasta salda, compatta, che ha fatto da collante sociale e morale di fronte a
intimidazioni, minacce, persecuzioni e tormenti di ogni genere.
Il secondo momento incancellabile è il massacro di
Adana, città in provincia di Cilicia, nell’Anatolia, iniziato il 14 aprile 1909
e proseguito per quindici giorni.
Era un mercoledì di Pasqua e la città contava
all’incirca “novecento famiglie armene; oggi, in quello che resta delle case
più volte distrutte e altrettante volte ricostruite sono rimasti ventotto
uomini e sessanta donne” (domenicobonvegna@alice.it, da Rozzano, 10 marzo 2012).
Ma cosa era successo?
Quando nello
sfaldamento del potere ottomano la Grecia e i territori balcanici diventano
indipendenti, il partito ultranazionalista “Unione e progresso” dei Giovani
Turchi che arriva al governo ha in animo
di rispolverare il mito della Grande
Turchia.
Inizia così il disegno di annullamento degli armeni,
sospettati anche di simpatizzare per i russi. Tra il 1894 e il 1896 si erano contate
duecentomila vittime, a cui bisogna aggiungere conversioni forzate e migliaia
di armeni in fuga.
Quella mattina
del 14 aprile 1909 civili e militari turchi, al grido di “Uccidete gli
infedeli!”si abbandonarono ad efferatezze inaudite che sconvolsero i pochi
osservatori internazionali. A colpi d’ascia, gli assalitori forzavano le porte, dilaniavano e torturavano
le vittime, poi gettavano gli oggetti recuperabili in una carretta ferma in
strada, e infine con una pompa si passava “al petrolio”la casa, dandole fuoco.
I banditi procedevano con metodo, avanzando progressivamente nel quartiere
armeno, risparmiando le abitazioni che avrebbero potuto trasmettere le fiamme
alle case dei musulmani. Tutto il resto veniva raso al suolo (c.f.r.Manoscritto
di Padre Rigal, gesuita del Collegio di San Paolo, testimone oculare.) Non
furono risparmiate dai saccheggi neanche le fattorie dei dintorni di Adana: uomini
crocifissi sulle tavole, bimbi infilzati in cima alle baionette, donne
violentate e sventrate a colpi di coltello….Furono quindici giorni e quindici
notti di terrore e angoscia.
Ma non è finita: la fase decisiva del genocidio si
verifica nel 1915, quando, approfittando del fatto che le potenze europee sono
impegnate al fronte (Prima guerra mondiale), il regime dei Giovani Turchi ha
finalmente mano libera per risolvere una volta per tutte la “fastidiosa Questione
armena”(Questione ufficialmente entrata nella diplomazia internazionale - ma senza esiti reali - al Congresso di
Berlino 1878), quella, cioè, di un popolo che vuole rimanere a tutti i costi
cristiana e rifiuta decisamnete sia l’islam che l’ideologia panturca.
“ Il genocidio diventa
sistematico e capillare, portando a compimento una ininterrota serie di
persecuzioni e di stragi contro le minoranze cristiane presenti in Europa
(Serbi, Bulgari…) e in Asia minore (Greci, Assiri, Armeni). Inizia anche un
piano sistematico di deportazione accompagnato da violenze e stragi inenarrabili
che vengono ignorate dall’opinione pubblica mondiale impegnata in guerra e dall’opportunismo delle
alleanze politiche e militari”(c.f.r.Angela Frattolillo, Armenia: Antica Chiesa di frontiera tra Storia e Tradizione, in c.d.s., pp. 9-10).
E’ un piano di pulizia etnica che, iniziato il 24
aprile 1915, giorno di Metz Jeghern (del Grande Male), coordinato da un
direttorio di cui faceva parte anche Mustafa Kemal, noto come Ataturk, ha
l’obiettivo di cancellare dalla faccia della terra la comunità armena
cristiana. E ci riesce.
Quel 24 aprile 1916 comincia con il massacro dei
notabili, a cui segue la confisca dei beni e l’arruolamento dei maschi armeni i
quali, una volta in divisa, vengono messi al muro. Subito dopo un’Organizzazione
speciale paramilitare si abbandona a eccidi e violenze sulla popolazione civile
e infine i superstiti sono deportati
dall’Anatolia – dove gli armeni erano installati dal VII sec. a.C. - nel
deserto di Der es Zor.
Metà di essi perisce durante la terribile marcia, e il
resto viene soppresso con metodi brutali, il più spesso con la lapidazione, per
risparmiare le munizioni.
Dal 21 luglio al
12 settembre del 1915 sul monte di Mosè - Mussa Dagh- si arroccano circa cinquemila armeni che, ribellandosi
al governo ottomano, intendono sfuggire alla deportazione. Assediati,
attaccati, bombardati, non cedono,poi riescono a farsi trarre in salvo da un
incrociatore anglo-francese di passaggio nel golfo di Alessandretta e portati
in salvo a Porto Said in Egitto.
Paolo Granzotto
ha scritto (Il Giornale.it) che i quaranta giorni di Mussa Dagh sono l’unico
episodio di resistenza da parte degli armeni ai tempi dell’Olocausto.
Sono in molti a
negare il genocidio di Metz Jeghern, ma
Vittorio Messori ha scritto che oltre un milione e mezzo di morti su una
popolazione di due milioni sono una “percentuale dell’orrore che non ha pari,
in età moderna, per nessun altro popolo”.
E Giovanni Paolo II si è chiesto “come il mondo abbia
potuto conoscere aberrazioni tanto disumane”. Aberrazione che a tutt’oggi – conclude
Granzotto – il governo turco con ambizioni europee continua a negare.
Rita Frattolillo©2016 Tutti i diritti riservati
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