Diverse volte, mentre leggevo Un
corvo nel cuore (Filopoli, 2008, pp.431, euro18), opera bella e terribile
di Maria Giuseppina Fusco, mi è capitato di
pensare : “anch’io…”
Perché Pina Fusco (Campobasso, 1941) ed io
apparteniamo alla generazione uscita
dalla guerra, abbiamo conosciuto le medesime privazioni, annusato l’euforia
della “ricostruzione”, vissuto il boom economico, il ’68 e tutto il resto, fino ad oggi. Chissà
quanti bimbi di allora, come noi, sono cresciuti con il latte in polvere degli
americani, i ritagli delle ostie passati dalle monache, quanti, per addobbare
il presepe, a Natale cercavano il muschio sui tronchi e lungo i muretti di
campagna.
E quante di noi si sono fatte le
bambole di pezza, sfruttando i cuscini di casa…
Andando avanti nella lettura ho anche scoperto che Pina Fusco ed io ci
siamo emozionate alle stesse canzoni, visto gli stessi film, amato le stesse
letture. E non parlo solo di quelle “fondanti”, ma anche delle altre, che, siccome
rivelano le pieghe più intime della sua formazione, fanno della sua opera prima Un corvo nel
cuore ben più di un bildungsroman sia pure di alto valore
umano e letterario, ma direi una sorta di autobiografia intellettuale.
Di solito gli scrittori cominciano
cimentandosi con storie brevi, e invece Pina Fusco si è misurata immediatamente
con il passo lungo e difficile della narrativa.
Una sfida, certo, e una sfida vinta, dettata
dall’esigenza improcrastinabile di “vuotare il sacco”, di fare outing
attraverso la lunga “confessione” fatta all’amica del cuore scomparsa. Ha
voluto «mettere a nudo la ferita che non guariva», fare definitivamente i conti
con i tanti, troppi lutti, le sofferenze, i sensi di colpa, e allora ci
troviamo davanti pagine devastanti,
impregnate di una sincerità spietata,
che non fa sconti a nessuno, e meno che
mai a se stessa.
Un romanzo lungamente nutrito, sedimentato ed elaborato, che non
poteva più aspettare, in cui le vicende personali che scandiscono la maturazione
della protagonista dando corpo alla
narrazione sono inserite - a differenza del genere del mémoir - nel
flusso della storia, che poi è quella cruciale del Novecento, filtrata attraverso il suo vissuto.
Chissà quante volte, ripercorrendo la
propria odissea, l’A. ha tentato di scucire episodi bui che però la sua
memoria implacabile non le ha consentito di tralasciare.
Una memoria incredibilmente nitida, e
sostenuta da una scrittura capace di restituire al lettore persino le
vibrazioni dei momenti da lei rivissuti sulla pagina.
Chissà
quanto le sarà costato il coraggio della sincerità, infrangere la cortina di
perbenismo tipico di ogni provincia, per
definizione esposta a malumori assai poco carsici quando si toccano certi
argomenti.
Eppure
l’A. ritesse episodi piccoli e grandi della “sua” esistenza dando al pulviscolo
delle “comparse” nome e cognome, rendendole in tal modo ben riconoscibili;
eccola raccontare, impietosa, come s’è consumata la deriva personale e
familiare dopo l’improvvisa morte del padre adorato, le traversìe in ospizi e
orfanotrofi, eccola ricostruire come s’è
scavato l’abisso – mai colmato – tra lei e la madre.
Una “lei” che si confonde con l’Autrice
non solo perché ogni libro, anche quando non autobiografico, finisce sempre per
svelare il suo autore, ma soprattutto perché la finezza introspettiva, la
lucidità e la cognizione analitiche sono di un livello possibile solo in una
sensibilità acuita da una lunga, profonda - e reale - sofferenza. E che si è
“esercitata” nel lavorìo di scandaglio e di autoanalisi, facendo di Un corvo
nel cuore un viaggio nella psiche,
prezioso anche grazie ad una scrittura che non è solo colta.
Infatti se l’A. accoglie il lessico
famigliare e il linguaggio mimetico del parlato, è costante
l’attenzione a riportare il “verbo” al suo peso e al suo significato
autentico. Che il timbro sia drammatico o lirico, che il registro sia gergale o
letterario, la lingua è sempre sintonizzata con intelligenza al tono e al
contenuto.
Un’ultima
parola va detta sul valore specifico, educativo ed etico, di questa epopea
moderna, in cui scorre prepotente la vita.
Vita
che va sfidata, aggredita, e riconquistata sempre e comunque, come fa la
protagonista. La quale, attraverso il racconto della propria discesa agli
inferi e della rinascita, induce a considerare in positivo il rapporto con la
vita: sana lezione, specie per i giovani, spesso tentati di barattarla con lo
sballo o l’euforia malata di un attimo. E in filigrana emerge dalle pagine di
questo romanzo l’importanza dell’esempio, perché, malgrado tutto, proprio la
protagonista, nel segno della fedeltà al padre -figura mitizzata – imparerà a
proteggere e comprendere gli altri, sentirà
forte l’etica dell’impegno, crederà con
forza ai propri sogni e ideali.
Rita
Frattolillo©2015 Tutti i diritti riservati
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