Uno dei più grandi artisti europei di fine Ottocento,
metafora di una condizione esistenziale al confine tra eredità della tradizione
pittorica e stimoli di matrice internazionale, è in mostra al Palazzo Reale di
Milano (18-09-2014/18-01-2015).
Si tratta di Giovanni
Battista Segantini ( 1858-1899), al cui genio artistico, che è stato
riconosciuto e apprezzato dagli ambienti istituzionali, dai circoli
intellettuali e dai ceti borghesi italiani e internazionali del suo tempo, è
toccata una sorte a dir poco singolare, essere cioè “semplicemente”
dimenticato, cancellato dalla memoria nazionale. Chiederci perché questa
“dimenticanza” sia potuta accadere esula dall’intento di questo scritto, ma il
pensiero che balza immediatamente alla mente è che sicuramente l’oblio è durato
troppo a lungo, se è vero che oggi, per
colmare un debito imperdonabile nei confronti di questo talento incredibile, è
stata allestita una mostra straordinaria
̶ è la prima volta a Milano ̶ che
si deve anche all’interessamento della nipote dell’artista, Diana Segantini.
L’imponente mostra,
che è corredata dal catalogo (Skira
Masters, 2014) curato dalla massima esperta dell’opera segantiniana, Annie
Quinsac, raccoglie oltre 120 opere provenienti da musei e collezioni europee e
statunitensi.
La grande retrospettiva ripercorre le fasi dell’evoluzione
umana ed artistica di Segantini, facendo scoprire, assieme al cammino
pittorico, una eccezionale figura di homo faber, di un uomo che si è costruito da
sé, affrontando e superando difficoltà di ogni genere, grazie ad una
straordinaria forza di volontà, una capacità di assimilazione e un grado di
focalizzazione sui propri obiettivi davvero rari, sorretti da una reale
passione per l’arte e da un’assoluta padronanza del mezzo, maturata e affinata
nel tempo. Infatti la prima metà della sua breve (e intensissima) vita è stata
contrassegnata, fin dall’infanzia, da privazioni affettive ed economiche che lo
hanno portato sempre più in basso, fino al riformatorio “Marchiondi” di Milano,
città in cui, dopo la morte prematura della madre, era giunto dalla nativa
Arco, piccolo paese del Trentino, all’epoca territorio ancora sotto il dominio
austriaco. In realtà il padre Agostino,
non avendo i mezzi per occuparsi del piccolo Giovanni, lo aveva affidato alla
figliastra Irene, che lo trascurò al punto che il ragazzo si segnalò per una
condotta riprovevole. Uscito dal riformatorio dopo tre anni, nel 1873, eccolo
impegnato come garzone di laboratorio fotografico presso un altro fratellastro,
Napoleone, a Borgo Valsugana, e qui il giovane chiuso e solitario comincia ad
avvicinarsi all’arte, tanto da sviluppare una propria idea che realizza
tornando a Milano, dove frequenta per tre anni i corsi serali dell’Accademia di
belle Arti di Brera. Sostenendosi con le sue forze come artigiano decoratore, e
̶ prima rivincita sul destino avverso ̶ come
insegnante nello stesso riformatorio dove anni prima era stato rinchiuso,
riesce a frequentare (1878-’79) i corsi regolari dell’Accademia, affinando il
proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. Forse è in questo periodo che
modifica leggermente il proprio cognome, inserendo una n alla parola Segatini, che
diventa così Segantini, nome con cui l’artista è universalmente conosciuto.
Il periodo milanese è
molto fecondo: ai suoi esordi, per il giovane la città è una vera patria dello
spirito e fulcro della sua parabola artistica. A Milano stringe amicizia negli
ambienti artistici, si lega ad Emilio Longoni, comincia a ottenere le prime
committenze dai ceti borghesi; i suoi
lavori evidenziano il chiaro influsso
del verismo lombardo, ma se ne allontana in fretta, se ancora in qualità di
allievo dell’Accademia, appena ventunenne, il suo quadro Il coro di Sant’Antonio Abate (1879) indica la voglia di
reinterpretare la tradizione pittorica degli interni di chiesa, imponendosi sulla scena milanese. Non più la
prospettiva della navata centrale con l’abside in fondo, ma una inquadratura
“fotografica” di forte contrasto chiaroscurale, con un taglio d’angolo, e la
luce che, entrando dalla vetrata del finestrone, illumina i sedili lignei del
coro, il chierichetto in piedi di spalle davanti al leggìo, il quadro a parete,
e il pavimento a tessere invaso dalle ombre lunghe.
Il ritratto della
signora Torelli (moglie del direttore
del Corriere della sera,1885) chiude
il periodo degli esordi di Segantini: pur mantenendo l’approccio colorista, la
messa a fuoco fotografica, l’eleganza del disegno, la finezza materica, egli ha
sganciato il ritratto dagli abbellimenti
mondani o socialmente validanti il committente. Infatti la signora non guarda
lo spettatore, e, in abito scuro che contrasta con il parasole talmente
abbagliante da confondersi con il cielo
se non fosse per il bordo scuro, è
totalmente immersa in voluta simbiosi con l’ambiente del naviglio presso ponte
San Marco.
Il quadro, ora per la
prima volta in Italia, mostra come il pittore abbia fatto tesoro della lezione
scapigliata riguardante il ritratto: la signora occupa la metà sinistra della
tela, la sua figura viene tagliata dal bordo inferiore, e il volto in ombra, lo sguardo obliquo, chiariscono
il distacco con cui l’artista si rapporta al personaggio. Ciò che gli preme è
l’effetto pittorico, la restituzione di una certa atmosfera, perché, come egli
stesso ha scritto, “Voglio che il quadro
sia il pensiero fuso nel colore, i fiori sono fatti così, e questa è l’arte
visiva”.
Già, i fiori….In realtà, quello delle nature morte, vero
banco di prova per i giovani artisti, è un lato meno noto dell’attività di
Segantini, che era un indebitato cronico, e si dedicò a questo genere finché
non ne trasse un introito significativo.
Le nature morte prodotte in questo periodo soprattutto per
sbarcare il lunario convenivano al pittore perché se la cavava con poche ore di
lavoro, essendo di formato piccolo, e convenivano al committente anche meno
agiato, che per una cifra molto accessibile poteva vantare una sala da pranzo
decorata con fagiani, anatre o frutta dipinti da maestri del genere, primo tra
tutti Filippo Carcano. Segantini dovette avere un ripensamento dopo che
l’editore Treves ricusò quattro nature
morte (1886) destinate alla sua sala da pranzo.
In ogni caso il periodo brianzolo è fondamentale non solo
perché lavora, soprattutto grazie al sostegno del mercante d’arte svizzero
Vittore Grubicy, talent scout ante litteram e suo mentore, ma anche perché conosce
Luigia Bugatti, detta Bice, la compagna di tutta la vita, che gli darà dei
figli, creandogli l’ambiente familiare di cui era stato privato nella sua
infanzia e che lo farà sentire amato e
venerato.
A Pusiano, nei
quattro anni brianzoli, Segantini recupera l’universo perduto dell’infanzia e
l’amore per la vita dei campi, intanto lavora con accanimento per ricercare una
forma espressiva personale, proseguendo nel distacco dalle impostazioni
accademiche giovanili. Nell’86 si trasferisce nei Grigioni, a Savognino, dove
Vittore Grubicy lo avvia al divisionismo. L’attenzione vòlta al rapporto
uomo-animale-natura appare sempre più evidente. Egli mira alla massima
congruenza tra realtà e proiezione emotiva, commisurando la perfezione
dell’immagine alla sua capacità espressiva Un esempio di questa esigenza ossessiva è rappresentato
dall’opera Dopo il temporale
(1883-’85), che, pur essendo già stata presentata al pubblico, fu ritirata e
ritoccata dal pittore, persuaso che “Sotto il pennello la gamma deve scorrere
maliante e far nascere gli oggetti le persone le linie[…] La passione
febbricitante dell’Arte deve involgere tutto d’un interno tremito. La nervosa
commozione che prova l’artista la deve comunicare. Davanti all’osservatore
tutto si deve fondere in un solo pezzo, in una commozione profonda di vita vera
vita palpitante”.
Quadri come La raccolta delle patate (1885-’86), Alla stanga (1886-88) sono seguiti da una serie di disegni a
carboncino e gessetto bianco su carta che rispecchiano la funzione
catalizzatrice dell’immagine successivamente rielaborata, al punto che il
superamento di ogni letteralismo descrittivo spesso ne modifica il senso,
caricandolo di valenze simboliste. La sua riconosciuta sensibilità
nell’interpretazione del paesaggio, nella descrizione della maestosità innevata
delle Alpi svizzere che dominano vallate sconfinate in cui si intravede un
villaggio sperduto, gli fa meritare il soprannome di “Pittore della montagna”.
Sensibilità quanto mai manifesta nella “traduzione” allucinata che egli stesso
fa dell’olio Soffia il vento: “Soffia
il vento di levante che geme come lontana bestia che muore, la neve si stende
pesante e malinconica come lenzuolo che copre la morte, i corvi stanno vicino
alle case, tutto è fango, la neve sgela”.
Ma se la presenza
umana e quella animale risultano componenti necessarie del paesaggio, vera
protagonista delle tele, spesso di formato gigante, è la natura, eterna e inesorabile nella sua
indifferenza al passaggio dell’uomo come a quello delle stagioni.
In Engadina si sono
conservati i segni più importanti della presenza e dell’arte di Segantini, che
qui conduce una vita solitaria seguendo il desiderio di una più profonda
meditazione personale e di riscoperta del proprio misticismo. Intimamente
convinto che “Dio era in noi e che ciascuno di noi ne possedeva e ne poteva
acquistare facendo delle opere belle, buone e generose, che ciascuno di noi è
parte di Dio”, si avvicina al panteismo, e a poco a poco il simbolo prende il
sopravvento sulla rappresentazione della vita dei campi o degli incontaminati
paesaggi alpini.
Gli anni di
Savognino sono quelli della doppia
crescita dell’artista. Da una lato la sua poetica si irrobustisce, definita
sempre meglio dalla nuova tecnica che restituisce appieno la luce e le
atmosfere terse delle Alpi. Dall’altro, all’isolamento del pittore fa da
contraltare una decisa affermazione internazionale.
Nel 1888 figura alla “Italian Exhibition” londinese, nello
stesso periodo è premiato con medaglia d’oro a Parigi per il dipinto Vacche aggiogate, esposto nella sezione
italiana dell’Esposizione universale di Parigi. Anche il Governo italiano
acquista i suoi quadri, tra cui Alla
stanga, esposto a Bologna (1888). Invitato ad esporre dal gruppo Les XX di Bruxelles (1890), è premiato
con due medaglie d’oro a Torino e a Monaco di Baviera, dove diviene membro
straniero della neonata Secessione (1892). Parallelamente comincia a scrivere
articoli per una serie di riviste d’arte. L’attività teorica è una costante del
pittore, che non perde occasione per guadagnare visibilità. Conscio dei limiti
della propria formazione – ottenuta nell’istituto “Marchiondi” dove era entrato
analfabeta – Segantini si fa aiutare da Bice e da Vittore nella redazione dei
suoi scritti.
Si immerge nella lettura di Nietzsche, Schopenhauer, Ruskin,
dei quali si trovano echi nei suoi articoli. La sua fama intanto si accresce in
Europa, e verso la fine del secolo è scelto ad Amsterdam con altri 26 artisti
tra i più noti del momento per partecipare ad una grande impresa editoriale,
illustrare la Bibbia.
Sempre aperto a nuove suggestioni, si cimenta con fonti
letterarie e si avvicina ai movimenti artistici all’epoca definiti “moderni.”
Il tema centrale
all’interno della sua produzione simbolista è quello della figura femminile,
dove il fil rouge è rappresentato
dalla maternità, della madre con il figlio, soggetti ricorrenti nella sua
poetica e particolarmente cari all’orfano Segantini, sia nei dipinti a
carattere naturalista che in quelli simbolisti. Fortemente anticlericale, rompe
completamente con l’immagine plurisecolare tramandata della Madonna aureolata
con Bambino. Le sue madri sono mucche nella stalla con il loro vitellino,
oppure la contadina con il figlioletto in braccio mentre procede sul sentiero. Su
questo tema, c’è almeno da segnalare, per la bellezza assoluta, tre oli: Il
primo è Ave Maria a trsbordo. Il
chiarore sospeso dell’alba lambisce i tetti di un villaggio che fa da orizzonte
dell’opera separando il cielo dall’acqua, che
ne riflette la luce abbagliante. Nel silenzio sovrumano trasmesso dallo
scenario si inquadra una barca a remi che increspa appena la superficie del
lago di Pusiano. Trasporta un gregge di pecore, il cui vello è impregnato di
luce, il pastore e la sua compagna che abbraccia il figlio addormentato. Come
nelle opere successive dedicate al tema della maternità, l’artista infonde nel
dipinto una spiritualità immanente estesa
a tutti gli elementi del paesaggio, che acquista una serena solennità e
conferisce un senso di preghiera panteista dando superba voce alla religiosità
degli umili. Quest’opera, che nella prima versione meritò la medaglia d’oro
all’Expo universale di Amsterdam del 1883, è nella seconda versione (1886) un
dipinto cruciale per la storia della pittura italiana, essendo considerata la
prima opera divisionista, cioè eseguita con la tecnica della separazione delle
tinte.
Il secondo quadro è Le
due madri (1889): in una stalla rischiarata solo da una lanterna, una madre
dai tratti botticelliani sonnecchia, seduta
tenendo in grembo il figlioletto addormentato. Il richiamo alla Madonna
è immediato, ma il pittore vi affianca una seconda coppia, costituita da una
mucca che sta mangiando con ai piedi il proprio vitello. La lanterna appesa tra
le quattro figure rischiara la scena con un effetto chiaroscurale caravaggesco
che conferisce all’ambiente un’
atmosfera carica di intimità e di misticismo. Le due madri è anche la prima opera in cui viene chiarito
dall’artista l’assoluto parallelismo tra uomini e animali, che condividono
destini e ciclo vitale.
Il terzo dipinto, L’Angelo
della Vita (1894), uno dei pochi quadri custoditi in Italia (Milano,
Galleria d’arte moderna), è una visione unica nel panorama artistico europeo, e
possiede una carica creativa tale da attrarre come una calamita, tanto che non
sono riuscita a distogliere lo sguardo se non dopo molti minuti. L’immagine,
tutta mentale, in quanto non ha radici letterarie, né risale a figure viste
realmente dal pittore, è resa con tale realismo da creare una sorta di
sfasamento non solo visivo. La scena, su tela di grande formato, è racchiusa in
una cornice dorata dipinta di gusto preraffaellita (William Morris e le sue Arts and Crafts), e si impone immediatamente ad una ammirazione
incondizionata per l’originale rappresentazione della Madonna dai tratti botticelliani,
bionda e diafana, che avvolge teneramente il Bambino. Entrambi sono ricoperti
da un copioso panneggio della stessa
tonalità del cielo, e la
Madonna è assisa con
eterea leggerezza su una betulla (albero
privilegiato dai Preraffaelliti) contorta, dai rami estremamente sviluppati,
che fa da trono naturale alla madre. Il gruppo e il paesaggio, l’insieme di tutta
la composizione, sembrano attinti dalla
pittura fiorentina del Rinascimento, a cui si sono mescolati vari elementi del
Simbolismo europeo. L’opera, di una
bellezza sconvolgente da togliere il fiato, è un tributo del laico Segantini
alla Madre generatrice realizzato cinque anni prima della sua morte
improvvisa, mentre sta lavorando anche alle
due opere del ciclo Le Cattive Madri,
ispirato al poema decadente Nirvana,
scritto dal librettista di Puccini e Giordano, Luigi Illica.
Entrambi i
dipinti, Il castigo delle lussuriose (1891) e Le Cattive Madri (1894)
trattano il tema della punizione delle donne che hanno rifiutato la maternità o
che hanno maltrattato i figli. Sono dominati da una forte componente
intellettuale e offrono una visione allucinata e allucinante della condizione
atroce che aspetta queste cattive madri. In uno scenario di alta montagna,
sopra un prato coperto di neve, le
lussuriose sono sospese in un’aria strana che le sospinge, tenendole in
posizione orizzontale. Hanno gli occhi chiusi, i capelli rossi contorti e sono
avvolte in un bianco lenzuolo che lascia scoperto il seno. Il secondo dipinto,
in un analogo contesto naturale di forte impatto, mostra una betulla contorta
da cui fuoriesce una donna flessuosa dalla lunga chioma rossa, coperta da un
leggero velo, che cerca invano di divincolarsi dai rami dell’albero, mentre al
suo seno si avvinghia un bimbo per succhiarne il latte. La pronunciata
sensualità delle protagoniste, il fisico longilineo, la massa dei capelli
rossi, rimandano alle femmes fatales
che popoleranno questa fin de siècle
e l’inizio del successivo, dalle opere preraffaellite a quelle della Secessione viennese, per la
quale Segantini avrebbe rappresentato un modello.
Questo ciclo rappresenta il massimo esito del simbolismo segantiniano,
che non trova equivalenti in quello europeo per la compenetrazione panteista
tra visione onirica e natura.
A Pontresina, il 28 settembre 1899, mentre dipinge, è colto
da un letale attacco di peritonite.
Viene sepolto nel
piccolo cimitero di Maloggia, paese dove abitava dal 1894. Stava lavorando al Trittico della Natura per l’Expo di Parigi del 1900. Grande fu il cordoglio di
tutti gli ambienti intellettuali europei per la sua morte, e D’Annunzio dedicò all’artista una lunga lirica dove lo
celebra così:
“…Partita è sui vènti ebra
di libertà l’anima
dolce e rude di colui che
cercava
una patria nelle altezze
più nude
sempre più solitaria”.
La città di St. Moritz, a dieci anni dalla morte, inaugurerà
il Segantini Museum, a tutt’oggi la più grande raccolta di dipinti e studi eseguiti dal pittore
apolide che non aveva mai voluto cambiare nazionalità, sentendosi fino alla
fine soltanto italiano.
©2014 Rita Frattolillo – Tutti i
diritti riservati
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