Devo ammettere che c’ero andata senza
particolare entusiasmo: avevo visitato nel corso degli anni intere città (Pompei e poi Jerash in Giordania), calpestato arene, strade, Fori, anfiteatri,
siti costruiti dai romani antichi in tutti i loro domini, in Europa come in
Africa; che c’era ancora da vedere? Mi domandavo. Ma mio marito, imperterrito,
me ne parlava da settimane, dopo che ne aveva letto sui magazine di settore: era l’anfiteatro
romano, tra quelli dell’Italia meridionale, dove un tempo si assisteva alle battaglie navali, ma
soprattutto dove era stato costretto ad esibirsi
il gladiatore Spartaco, lo schiavo che, dopo Annibale e i Sanniti, aveva
rappresentato una gravissima minaccia per i romani.
Nel 73 a.C. infatti era riuscito a mettere assieme un
esercito di uomini disperati e pronti a
tutto, pur di scrollarsi di dosso le condizioni disumane in cui erano costretti
a vivere. La sua storia ha anche ispirato qualche film-polpettone o peplum che
dir si voglia, la sostanza non cambia : primo tra tutti quello con un Kirk Douglas-Spartacus muscoloso e
scattante…
Ma la
mano ferrea di Roma era stata implacabile, gli insorti erano finiti
massacrati negli scontri, come lo stesso Spartaco, e coloro che l’avevano
scampata, avevano rimpianto mille volte di non essere morti in battaglia,
perché erano stati fatti prigionieri, poi esposti sulle croci lungo il ciglio
della via Appia alla vista dei passanti e lì crocifissi come monito e macabro trofeo. Dove si trova questa
meraviglia?chiedo: a Capua antica.
Questa città fu per molti secoli la capitale
della Campania, se non ricordo male, e la sua cavalleria era particolarmente
apprezzata. Famosa per la ricchezza dei suoi cittadini e per lo stile di vita
elegante delle classi dirigenti, amata dall’imperatore Adriano che vi
soggiornava volentieri, situata in un territorio (Campanus ager) talmente
fertile da poter offrire fino a quattro raccolti l’anno, Capua è ricordata
soprattutto per gli “ozi” di Annibale nel corso della seconda guerra punica
(216 a.C), e, appunto, per la sanguinosa rivolta degli schiavi capeggiata da
Spartaco.
In
realtà la città, che aveva un rapporto quasi simbiotico con la vicina Cuma, eccelse nell’agricoltura, nelle
attività artigianali e nella mercatura, che esercitò con i popoli contermini, ma
anche con greci e orientali. Ed ebbe a lungo il potere anche grazie
all’eccellenza della pratica militare, come dimostrano affreschi e statuette
tombali rappresentanti giovani atleti o militari. Un suo concittadino, Publio
Sabbione, si era arricchito enormemente
rifornendo di mantelli le legioni romane, e si fece costruire una villa
sontuosa di cui rimangono preziose tracce visitabili nel corso Aldo
Moro.
Nel IV sec a.C. Capua, che secondo la
tradizione era stata fondata dall’eroe troiano Kapis, assurse ad una influenza
tale da poter guidare autorevolmente la
lega delle dodici città etrusche; ma quando, due secoli dopo, tentò di
riassumere un ruolo autonomo nella politica italica rispetto alla dominazione
romana alleandosi con Annibale, vide decimata la classe dirigente e perse ogni
autonomia politica e amministrativa.
Fortunatamente
ogni volta la città si rialzò, grazie alla determinazione dei suoi abitanti e
alla ricchezza del suolo, finché l’incursione saracena dell‘841 non li costrinse
a disperdersi in tre borghi raccolti intorno a tre chiese, tra cui quella di
Santa Maria. E fu proprio l’ultimo dei tre borghi a dar nome alla ripresa
dell’occupazione in chiave urbana dei luoghi a partire dal XVIII sec., con il
progressivo sviluppo dell’attuale Santa Maria Capua Vetere. I Borboni scelsero
la nuova città come piazzaforte militare per la sua posizione strategica nei
confronti della Reggia vanvitelliana di Caserta.
Arrivando nell’antica Capua, idealmente separata dall’attuale Santa Maria C.V. dall’Arco di Adriano,
all’incrocio tra la via Appia e la via Anfiteatro vedo ergersi in tutta la sua magnificenza la
struttura enorme, stagliata contro lo sfondo azzurrognolo dei monti tifatini.
Questo anfiteatro campano, che, dopo il
Colosseo, è il più grande tra tutti quelli fatti costruire dai romani, risale
ai tempi di Giulio Cesare (I sec. a.C.), anche se fu ampliato in epoca
successiva. Oggi è annunciato da un bel viale costeggiato da due scarpate
coperte dal prato e scandito da salici e tigli profumati.
Mi sorprende la solitudine e il silenzio del
luogo: né bus turistici, né bancarelle di cianfrusaglie o risto-bar, niente di
tutto ciò che assedia tristemente i siti più gettonati. Evidentemente, Capua
antica è rimasta fuori dal business dei
tour-operator, e non so se sia un male…Comunque, tutto il sito è denso di significato e il paesaggio intorno è
spettacolare. Nell’attrezzatissima biglietteria-bar-ristorante book-shop
acquisto, tra l’altro, un libro storico a fumetti (edizioni Spartaco, manco a
dirlo!) molto divertente e istruttivo firmato da una pedagogista e da un
architetto del posto.
Il ticket, dalla cifra irrisoria, include
la visita al museo e al mitreo, che si trovano ad una manciata di minuti.
La costruzione, di forma ellittica, era
alta 46 metri, ed era costituita da quattro piani, di cui tre formati da 80
arcate ; l’ultimo piano, in muratura, era riservato alle donne in una zona
detta cathedra, mentre i nobili, i magistrati e i sacerdoti, occupando il primo piano (podio), potevano
godere lo spettacolo da vicino. Sulle gradinate, dette cavee, erano sistemate
le altre classi sociali, ben divise secondo il ceto. La summa cavea era sovrastata da un portico
ornato con statue e colonne.
Gli ingressi principali coincidevano con i
quatto punti cardinali: le quattro arcate più alte rivestite di marmo bianco,
sormontate al centro dai protomi (volti di divinità che coprono la chiave di
volta) permettevano l’accesso solo alla parte della platea riservata ai nobili;
lateralmente, sono visibili le gallerie che conducevano la “plebe” all’interno.
Qua e là vedo disseminati sul prato diversi fusti di colonne, edicole scolpite, capitelli,
conci, mentre il monumento conserva ancora qualche rivestimento in marmo, che
trionfa al sole. Un po’ più giù si intravedono delle tombe (forse del IV sec. a.C.)
con affreschi parietali appena visibili.
L’anfiteatro
ha, come la città, una storia tormentata, e ciò che è sopravvissuto a
secoli di devastazioni e ruberie è custodito nel museo archeologico di Napoli e
in quello provinciale campano (che merita la visita, oltre che per il museo suoni
e luci didattico e il bellissimo Satiro del greco Prassitele, per il ricco
corredo di anfore, gioielli, tombe,
maschere teatrali, e la statuaria, tra cui l’ineguagliabile Mater Matuta, simbolo della fecondità
femminile). Ha subito rovinose
distruzioni anche per i saccheggi che si sono ripetuti nel tempo, non ultimo
quello dei Vandali guidati da Genserico (456 d.C.). Sotto i Longobardi
Capua continuò ad essere una delle principali città della Campania, tanto che i
vescovi di Benevento nel 787 è lì che accolsero e resero omaggio al futuro
Carlo Magno.
Nell’841
d.C., quando i Saraceni distrussero la città, il monumento venne trasformato in
una fortezza. Durante la dominazione sveva divenne cava di estrazione di
materiali lapidei reimpiegati per costruire gli edifici della città, che nel
periodo angioino ospitò la famiglia reale: infatti qui nacque Roberto d’Angiò,
e ancora oggi un’arteria importante è intitolata a lui.
Espressione armoniosa dell’incrocio della
civiltà etrusca - a cui si deve l’invenzione dell’arco che qui trionfa – con
quella greca, sannitica e infine romana (che invece adoperava la tecnica
dell’architrave), questo fu anche il primo anfiteatro provvisto di velarium,
che, secondo la leggenda, fu progettato dai capuani per proteggersi dal sole.
Si
trattava di un grande tendone che fungeva da copertura, che i Romani prima
irrisero accusando i capuani di mollezza, poi, però, pensarono bene di
appropriarsi dell’idea, replicandola anche nel Colosseo.
Attraverso lunghe scalinate scendiamo nei
sotterranei, una selva ordinatissima di archi incolonnati ad angolo retto; oggi
c’è il sole, che illumina bene i muretti rivestiti di muschio e ogni
anfratto, immergendo questo ambiente
enorme in una atmosfera magica che mi proietta secoli addietro. Sembra di
rivivere le scene viste in tanti film, ultimo Il Gladiatore con Russel
Crow, il ruggito delle belve impazienti di uscire nell’arena, i gladiatori occupati
a completare la loro armatura, mentre afferrano lo scudo, la daga o la rete,
indossano l’elmo e gli alti gambali…..
Torniamo in superficie.
Sul
lato orientale è ancora visibile, tra l’erba, una cisterna in opus reticulatum
in cui si raccoglieva l’acqua per la pulizia dei sotterranei, più in là i resti di una fontana monumentale a forma
ottagonale. Il lungo muro di fronte alla biglietteria è coperto da un
interessante e coloratissimo graffito con l’immagine di un gladiatore coperto
dall’elmo, evidente rimando al museo dei gladiatori ubicato nei pressi del
monumento.
Appena vi si entra, si nota l’allestimento
di una scena di combattimento tra gladiatori e un leone (completa del vocìo
tipico di questi spettacoli); seguono delle teche contenenti l’armatura dei
gladiatori, cartelloni informativi, e infine, l’ultima sala mostra diversi
pezzi di fregi ornamentali provenienti dall’anfiteatro; molte le divinità, tra
cui un Ercole scolpito nell’atto di compiere qualcuna delle sue fatiche; la
popolarità di questo semi-dio non mi sorprende, perché presso tutto il mondo
antico Ercole è stato l’oggetto di un culto molto sentito e diffuso, in
particolare presso i Sanniti. I quali hanno lasciato in eredità il nome del
monte Tifata, prestato poi come attributo alle divinità alle quali in
quest’area sono stati dedicati dei templi: Diana, Iana (la Giunone dei Romani) tifatina.
Proseguendo nella visita del museo, trovo
notevoli i plutei frontonali e le balaustre dell’anfiteatro, scolpite con
animali esotici e scene di caccia, mentre i vomitoria (varchi di accesso agli
spalti) fungevano da corrimano ai lati degli ultimi scalini.
Poco
distante dall’anfiteatro andiamo a visitare il museo e poi il tempietto ipogeo
del dio Mitra (Mitreo). Questa divinità, che era originaria dell’Asia Minore,
aveva a che fare con la cosmogonia, ed ebbe un culto molto diffuso anche in
Occidente, finché non fu assorbito - per certi versi “travasato”- nel
Cristianesimo.
I Romani se ne appropriarono - come avevano
fatto con le altre divinità - e lo raffigurarono con un’aureola di raggi
solari, denominandolo “Sol Invictus”,
sole invitto.
In
realtà il suo culto è legato al mito del toro, animale che Mitra dovette
sacrificare per obbedire al dio Sole e far sì che il pianeta continuasse a
vivere. Nel tempietto che visitiamo le
parete di fondo presenta la scena dell’atletico, giovane dio con mantello rosso
e berretto frigio nell’atto di uccidere
un grosso toro bianco. Sui lati, corrono due lunghi canali rialzati, dove presumibilmente
alla presenza dei sacerdoti e degli adepti durante le cerimonie sacre scorreva
il sangue dell’animale sacrificato.
L’affresco
principale è conservato piuttosto bene, mentre quelli parietali, a causa della
elevatissima umidità, sono ormai poco visibili.
Nella maggioranza dei culti italici, come in quello dei sanniti, è presente il culto del
toro, sia pure con sfumature e significati diversi.
I giovani
sanniti che dovevano fondare un nuovo villaggio, ad esempio, seguivano il toro,
e si affidavano alla direzione da lui
presa: era il famoso rito del “ver sacrum”, la primavera sacra. Piantavano le
tende nel luogo in cui si era fermato l’animale, convinti che quel sito fosse
propizio proprio perché scelto dall’animale; era così radicato il culto per
questo animale, simbolo di forza e potenza fecondativa, che i Sanniti si chiamarono
“vitelios”, nome che è passato a indicare l’Italia (Viteliù), come testimoniano
le incisioni sulle monete sannitiche.
La cosa, ovviamente, non mi sorprende, ma è
semplicemente l’ennesima conferma del crogiuolo che è sempre stato il bacino
del Mediterraneo, dove si sono scambiate e mescolate culture, tradizioni, miti,
usanze provenienti dalle sue varie parti fin dalla notte dei tempi. E questa
“esplorazione” nell’antica Capua è stata, in definitiva, una buona occasione
per fare un tuffo nelle nostre radici italiche.
©2014 Rita Frattolillo – tutti i diritti
riservati
Il satiro in riposo statua del museo di
Santa Maria Capua Vetere
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