Rita Frattolillo
Il viaggio è stato più lungo del previsto,
ma molto pittoresco, un’ immersione totale in un pesaggio ondulato tra le alture dalle mille sfumature di verde, quello tenero
e fresco della primavera che si fa largo.
Lungo il ciglio, eleganti steli della
malva fiorita e pseudoacacie dai grappoli bianchi.
Il loro
profumo intenso irrompe nell’auto inebriandoci.
A guastare l’armonia, un’orribile infilata di
pali eolici sul crinale, proprio presso Lucito, paese natale del pittore molisano a me caro, Antonio Pettinicchi.
Il cartello stradale di Castelbottaccio,
nome indissolubilmente legato a quello della baronessa illuminista Olimpia
Frangipane, ci segnala che la nostra meta è prossima.
Da
sempre, ogni volta che sentivo
pronunziare “Civita”, la mia mente immediatamente associava quel suono a
due personaggi che per me hanno incarnato l’espressione più alta
dell’intelligenza tesa a migliorare le sorti del Molise, terra a cui entrambi sono
stati intimamente legati, pur se le
vicende delle loro esistenze li hanno tenuti fisicamente distanti: Gabriele
Pepe e Vincenzo Cuoco.
Centro di grande vivacità culturale nel
Settecento, Civita è infatti il luogo di nascita del generale Pepe e di V. Cuoco;
il primo, uomo di spada e di penna, esponente
del Circolo fiorentino del Vieusseux; il secondo, avvocato, storico e filosofo,
tra i promotori della Rivoluzione napoletana del 1799 e poi consigliere di
Gioacchino Murat.
Sono percorsa da una leggera ansia, per me
questa visita tanto attesa è un’immersione nella storia molisana e dell’Italia
meridionale.
Il paese ci accoglie con un grande murale:
una bimba in calzoncini corti ci guarda con occhioni indagatori.
Sì,
lo so, nell’aprile scorso (2016) diversi artisti di strada guidati dalla
direttrice artistica del festival street art Alice Pasquini si sono cimentati
ad abbellire con scene di vita quotidiana, giochi infantili di una volta e immagini
della tradizione i muri del paese, che oggi è ridotto a tre-quattrocento
abitanti.
Spopolato come molti altri.
Ma lindo e pieno di fiori alle finestre e
ai balconi. Dopo aver girovagato su e giù per
stradine (la toponomastica aiuta) e scalinate alla ricerca della dimora
storica di Gabriele Pepe (abitazione privata, ci dicono) e di Vincenzo Cuoco
(finalmente troviamo una piccola targa di ottone che ci garantisce di non esserci sbagliati, è
proprio quella!), io saluto alcune
anziane sedute davanti alla loro porta e
accetto volentieri una sedia e la loro compagnia.
Sembra
di vivere in un’altra dimensione, di andare controcorrente, tanto ci sovrasta
il silenzio.
Sono tentata di darmi un pizzicotto: né
rombi di motori né voci, intorno.
Le
donne sono ben disposte e raccontano senza giri di parole che i giovani sono fuggiti altrove in cerca di lavoro: Civita non offre niente o
quasi, un niente che intristisce anche i “vecchi”; pur se - aggiungono - il
giovane sindaco Paolo Manuele si dà molto da fare per rivitalizzare il paese, e
si dicono mirabilia del nuovo corso
impresso da lui, all’insegna della rinascita del paese, della valorizzazione
delle sue peculiarità e della rigenerazione urbana.
Sapevo
qualcosa della nuova strategia di Manuele.
Dopo aver aderito al sodalizio “Borghi
autentici d’Italia”, che conta oltre 280 comuni, il sindaco ha attivato la pro Loco grazie all’impegno di
ragazzi volontari, e ci si è pure collegati
con l’Università degli studi di Parma, che nel settore delle scienze enogastronomiche
rappresenta la punta di diamante italiana, per valorizzare certi prodotti dolciari.
Né si è trascurata la visibilità - dal
momento che oggi più che mai essa è l’anima non solo dell’apparire, ma anche
dell’essere - aprendo una vetrina internazionale a Coventry, in Gran Bretagna,
per trattare la vendita di immobili molisani.
Tutto questo asset strategico sta cominciando
a funzionare - avevo letto - tanto è vero che diversi edifici sono stati
acquistati da stranieri e sono in via di ristrutturazione, come possiamo
constatare con i nostri occhi.
![]() |
Vincenzo Cuoco |
Un’ulteriore fase di questa strategia
condivisa comprende un piano di microricettività, e a questo scopo è stata già
ristrutturata la casa natale di V.Cuoco.
Tuttavia, durante la nostra breve permanenza, non
abbiamo modo di notare movimento di stranieri, incrociamo solo turisti italici, che si guardano intorno curiosi.
Attirati non solo dai tanti, artistici
murales, ma anche dagli scorci caratteristici che non si aspettano, archi e
scalinatine molto pittoreschi che rimandano ad un’atmosfera antica, senza
tempo.
Lungo la
bella cinta muraria invariabilmente ci si sofferma davanti all’ampio
panorama graffiato dai calanchi e punteggiato dai cespugli delle ginestre
fiorite che trionfano sul tappeto verde con il loro giallo lucido e brillante.
Per
ultimo, prima di congedarmi, chiedo alle gentili signore se hanno figli.
Sì,
lavorano in Toscana e in…. Colorado.
Andate
a trovarli ?Chiedo; ammettono che no, non vanno mai.
Non percepisco ombra di tentennamento o rimpianto
nella loro voce, che è chiara e ferma; e il famoso “mammismo” italiano dove è
finito? Il pensiero attraversa la mia mente rapido come un fulmine.
Ma queste che ho davanti sono donne
concrete! - mi rispondo…. Discendenti da
generazioni di emigrati che sanno l’importanza della “giobba”, oggi più di sempre…
Ma la visita che non posso perdere, qui a
Civita, è quella del castello, che nel ‘400 fu donato da Alfonso d’Aragona a Paolo di Sangro, suocero di Cola di Monforte, per il sostegno avuto
contro gli Angioini. Ma a quell'epoca - non diversamente da oggi - le alleanze politiche e di famiglia si facevano e si rompevano con grande...disinvoltura: tutto dipendeva dai compromessi, dagli interessi e dai benefici reciproci. Su uno stemma, infatti, sono tuttora visibili i gigli di Francia, mentre molti dettagli architettonici rimandano allo stile aragonese...
E' un castello carico di Storia: tra le sua mura venne stipulato solennemente il contratto nuziale tra Cola di Monforte e la giovane Altabella di Sangro, alla presenza di vescovi e baroni, avvocati e arcipreti. Nessuno poteva immaginare in quei giorni di tripudio per tutta la parentela di Sangro, che esistenza sventurata sarebbe toccata alla leggiadra donzella, la cui vita sarebbe stata stroncata per un sospetto di infedeltà coniugale dallo stesso marito, uno dei condottieri più rappresentativi del Quattrocento italiano, quale era giustamente considerato per la sua perizia nelle armi e nella strategia bellica Cola, detto comunemente "il Campobasso"....
E' un castello carico di Storia: tra le sua mura venne stipulato solennemente il contratto nuziale tra Cola di Monforte e la giovane Altabella di Sangro, alla presenza di vescovi e baroni, avvocati e arcipreti. Nessuno poteva immaginare in quei giorni di tripudio per tutta la parentela di Sangro, che esistenza sventurata sarebbe toccata alla leggiadra donzella, la cui vita sarebbe stata stroncata per un sospetto di infedeltà coniugale dallo stesso marito, uno dei condottieri più rappresentativi del Quattrocento italiano, quale era giustamente considerato per la sua perizia nelle armi e nella strategia bellica Cola, detto comunemente "il Campobasso"....
Il castello con la sua mole incombe sul paese, sembra
fuori scala per quanto è imponente rispetto all’esiguità della cittadella!
Basamento assai importante, e torri d’angolo
secondo l’usanza angioina.
Il dépliant turistico informa che si tratta di roccaforte ad uso
difensivo progettata nel Quattrocento dal
senese Francesco di Giorgio Martini, esperto di architettura militare.
I vari ambienti sono ammobiliati con un
occhio attento allo stile Ottocentesco, ma cercando di recuperare utensileria e
materiale in armonia con la destinazione d’uso originaria dei vani: ammiriamo
tra l’altro una tinozza metallica per neonato provvista di ruote, un
calesse, e molti orci.
Gli arnesi, realizzati con materiale
povero, pietra, legno, terracotta, richiamano la nostra attenzione soprattutto
quando non ne comprendiamo l’uso.
Le
grandi botti riportano alla mente i gesti che ricordiamo, quelli legati alla
pigiatura dell’uva per la produzione del vino.
Il
lungo sotterraneo, bello come una galleria,
è illuminato dalle feritoie a forma di croce.
Questo “museo”, accogliendo arredi e
utensili, oggetti di vita quotidiana, risulta una struttura attiva, pronta a
rinnovarsi e ad ospitare altri segni dell’operosità umana.
Una collezione etnografica in nuce ma già
significativa, già capace di evocare la storia della comunità civitese.
Delle tre chiese che arricchiscono il borgo,
una mi interessa particolarmente, S. Maria Maggiore, perché dà sul largo del castello.
Ma
ad essere sincera il mio non è un interesse artistico, bensì…sentimentale.
Perché è lì che il diciassettenne Gabriele Pepe si prese la prima
cotta, e intendo finalmente vedere con i miei occhi questo posto che ho
immaginato un’infinità di volte, calpestare lo stesso pavé di allora…
Ma sentite come è andata.
Dunque una domenica mattina dell’anno di
grazia 1796 Gabriele si vestì con più cura del solito.
Si spazzolò la camiciola chiara col collo
alto e il pantalone aderente alla francese,
si passò il pettine tra i folti ricci biondi.
L'occhiata rapida che lanciò allo specchio
prima di gettarsi sulle spalle il tabarro scuro, uscendo, gli rimandò
l'immagine di un giovane pallido - non si era ancora ripreso da quel dannato
intervento alla vescica - con le guance appena ombrate da un'incipiente
peluria.
Tanta cura perché quella mattina era
speciale: Gabriele sentiva di essersi
innamorato, ma sul serio;
non una cottarella qualunque, di quelle
che passano veloci senza lasciare segni, ma un amore che gli toglieva il sonno.
Si avviò in tutta fretta verso il piazzale
del castello Angioino, perché di lì a poco lei
sarebbe passata, accompagnata dai genitori, per andare alla messa solenne di S.
Maria Maggiore.
![]() |
La scalea d'onore del castello |
Questo lato sentimentale del Generale viene
fuori leggendo il diario Galimazias (rimasto a lungo manoscritto
e in parte distrutto), che Gabriele Pepe iniziò nel 1807 con l'intenzione di
"buttarvi tutto quello che mi veniva in testa di scrivere, avventure,
osservazioni, varietà, pensieri e delusioni", tra le difficoltà di uomo spasmodicamente diviso tra
Marte e Minerva, tra l’impegno delle strategie militari e il gusto per i
rovelli letterari.
I suoi
numerosi biografi hanno consumato fiumi d’inchiostro sull'uomo d'arme e sul
patriota, col risultato che si ricorda
di lui esclusivamente il celebre duello sostenuto nel 1826 con l'incauto poeta
e uomo politico francese Alphonse de Lamartine che, definendo l'Italia
"terra di morti", aveva suscitato il risentimento di Gabriele, da
allora soprannominato "gallo
italico".
Su Pepe uomo di lettere e autore prolifico
sembra invece essere calato un velo, evidentemente propiziato dalla
spettacolarità che si fece del duello a
fini di comprensibile propaganda nazionale.
Quindi neanche di questa sublime
love-story del bel Gabriele, un amore giovanile
durato testardamente tutta la vita,
si è mai saputo nulla.
![]() |
Monumento a Gabriele Pepe, Campobasso |
Fatto sta che tra una pagina e l'altra del
Galimazias - vera miniera per chi
voglia avvicinarsi all'uomo - tra le fatiche delle guerre, i fuochi notturni
negli accampamenti, le peripezie dell'esule, affiora qua e là il ricordo
struggente di quell'impetuoso amore giovanile.
In data 1807 trovo questa confidenza:
"All'età di 17 anni una grande
rivoluzione si operò in tutto il mio essere, sia mediante la guarigione da una
grave malattia (l'operazione alla vescica), sia mediante l'Amore.
Cupido vibrò ad una tale età il suo dardo:
io ebbi la prima passione e l'unica, l'azione della quale risento ancora dopo
dieci anni, e probabilmente risentirò in tutta la mia vita".
Parole profetiche, poiché fino alla fine
dei suoi giorni lo accompagnerà il ricordo struggente di Luisa.
Ma chi era, in realtà, questa ragazza che
gli era entrata con tanta prepotenza nel sangue?
Sicuramente i due ragazzi, entrambi di
Civitacampomarano, si erano visti in una delle occasioni "canoniche"
dell'epoca, cioè l'uscita dalla messa o
la festa del Santo patrono, come dire la discoteca o la “vasca” per il Corso di
allora….
Luisa De Marinis, tratti delicati, bocca
piccola e incarnato chiaro, aveva attirato immediatamente l'attenzione del
giovane.
Il matrimonio poteva essere lo sbocco
naturale di quella passione profonda, ma le nozze che lui desiderava con tutte
le sue forze non avvennero né allora né mai, perché De Marinis padre, borbonico
e conservatore come molti a Civita, non
vedeva di buon occhio i Pepe, che considerava rivoluzionari giacobini,
ubriacati dalle nuove idee, come del resto i loro cugini, i Cuoco.
Non per niente -
doveva pensare il De Marinis - la madre
di Gabriele, Angelamaria, era la zia di quel Vincenzo Cuoco che faceva tanto parlare
di sé. Ma si sa, la malapianta delle novità attecchisce subito in certa gente,
che si riempie la bocca con parole grosse come libertà, uguaglianza.. e Dio
solo sapeva che altro si complottava nel salotto di Olimpia Frangipani a
Castelbottaccio.
Ma - ragionava tra sé De Marinis - come poteva, la baronessa, alimentare gli
stessi ideali rivoluzionari che avevano fatto cadere, neanche dieci anni prima,
la testa di migliaia di aristocratici francesi?
Valli a capire, i nobili!
Comunque, avevano fatto
bene a dare una lezione a quel senzadio di Marcello Pepe, mandandolo in galera
a Lucera, perché pure lui faceva parte della combriccola di Castelbottaccio....
anche se in fondo gli dispiaceva per i sei ragazzi, già orfani di madre
(Angelamaria, pace all'anima sua, se n'era andata già da due anni).
Quel giovanotto che aveva messo gli occhi sulla figlia, il
terzogenito di Marcello, sì, Gabriele, forse era un pò indolente negli studi ma
era stato educato bene dallo zio gesuita, don Francesco Maria; comunque, uno cresciuto
tra "sovversivi", senza madre né padre, che avvenire poteva dare alla
sua Luisa?
Un buon partito, ecco cosa ci voleva per sua figlia!
Gabriele, dopo un’attesa che gli parve
eterna, finalmente vide comparire Luisa all’estremità del piazzale.
Il corpetto e la gonna a pieghe di tessuto
leggero lasciavano intuire le sue forme snelle ma piene, e la piccola mappa di
raso nascondeva a malapena la massa biondo grano dei lunghi capelli appena
mossi.
Rapito da quella visione, Gabriele la
fissò in volto, e rimase sconcertato dal suo sguardo accorato.
Vi lesse la sua condanna quando,
attraversando il piazzale in direzione della chiesa, lei fece in modo di
passargli vicino sfiorandolo.
Mamma De Marinis, chioma raccolta secondo
il costume delle donne maritate, tirò dritto.
Lo
stesso fece il padre, ma Luisa non poté fare a meno di alzare lo sguardo dolce
e mesto su Gabriele, che si sentì percorrere da un fremito per tutte le membra.
I tre sparirono nel portale buio di S.
Maria Maggiore, e del fugace passaggio di Luisa
gli rimase nella testa solo la scia del suo profumo, che sapeva di
buono…
Amareggiato e deluso, il giovane scappò via da Civita, pronto ad abbracciare
la carriera delle armi, a cui del resto si sentiva fortemente incline,
distinguendosi, oltre che per valore di soldato e di letterato, come il
patriota insigne e generoso che conosciamo.
La Repubblica partenopea lo trova
impegnato sui campi di battaglia, e il 14 giugno 1799 è ferito e preso,
rinchiuso nelle carceri della Vicaria.
Solo la prima di una lunga serie di
peripezie che si intrecceranno con i successi militari e letterari.
L'effimera Repubblica partenopea viene
soffocata nel sangue e sfocia nella feroce repressione sanfedista: molti centri
del Contado di Molise, come Casacalenda e Civita - dove anche casa Pepe viene
saccheggiata - sono teatro di luttuosi episodi di violenza fratricida.
A Napoli, lo "spettacolo
diabolico" di alcune "damigelle" , nel 1812, acuisce in lui il rimpianto per quell'amore
angelicato: "Quanta differenza tra queste donne e L…
Ma! Che dissi? Ardisco io rabbassarla con
una sì vituperosa comparazione? No. Resti ognuno al suo posto.
L.. nel suo candore, nella sublimità delle
sue virtù, nella perfezione morale del suo cuore, e fisica dell'angelico volto;
queste nel lezzo della civetteria e della corruzione."
Parole che ci consegnano un Gabriele
rivoluzionario sì, ma moralista.
Nel 1814, gravemente ferito nei pressi di
Macerata nel corso degli scontri che segnano la fine del regno murattiano,
viene riportato a Civita per la convalescenza e in questa occasione confessa:
"Mi rammento di essermi arrestato sul
Monte S. Angelo Altissimo e salutai di là la mia terra natale con una specie di
santo entusiasmo. Io provai un'estasi di gioia e consolazione al pensiero che
era presso a rivedere i miei fratelli, i miei parenti, i miei compaesani e
quell'angelo infine di beltade e virtù che è stato l'oggetto del primo ed unico
amore, e che io amo ancora".
In verità l’ angelica signorina De Marinis andò in moglie all'illustre giureconsulto
Zaccaria Padulo.
Un’unione apparentemente irreprensibile,
dietro la quale però alcuni storiografi fanno intravedere un matrimonio subìto
e una passione segretamente ricambiata per un altro… Pepe.
Uno di loro, Raffaele De Rensis, arriva a
buttar lì una frase che vale da sola la trama di un romanzo tutto da scrivere
quando afferma che le eccessive "affezioni" della signora Luisa
Padulo verso il nipote di Gabriele, Marcellino, "rivelavano i suoi
sentimenti".
Che
voleva dare a intendere, De Rensis?
Che
tra Gabriele e Luisa ci fosse un amore impossibile ma reciproco?
Che
la sottomessa Luisa, non trovando il coraggio di rompere il rigore delle
convenzioni per fuggire col bel
compaesano, si accontentasse di rimpianti e ricordi?
E non potrebbe magari essere che, in fondo
in fondo, la vera vocazione di donna Luisa De Marinis fosse proprio quella
della signora alto-borghese, e che la sua "affezione" per Marcellino
fosse semplicemente un modo grazioso, e sopratutto comodo, per riscattarsi di
tante pene d'amore inflitte a Gabriele?
Mentre guardo ancora una volta questo
angolo racchiuso tra la scalinata che sale al castello e la chiesa, teatro di
quell’amore infelice, penso che l’enigma che mi ha portato qui si sbroglierà solo
se qualcuno avrà la chance di una
lettera segreta o di qualche gossip del
tempo.
Intanto, ancora una volta, largo alla fantasia.
Rita Frattolillo © Tutti i diritti
riservati 2016
Bellissimo pezzo, un reportage con i fiocchi per una pese che merita di essere visitato.
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