martedì 16 maggio 2017

La leggenda di Fata




 RITA FRATTOLILLO



La figura di Fata rappresenta un  superamento  dell’immagine femminile  così come viene rappresentata secondo la tipologia di questo genere narrativo.
Infatti ci troviamo di fronte ad una ragazza  di ceto molto modesto  - è una pastorella – e tuttavia ben conscia della propria dignità di donna.
Lei  non si lascerà incantare dal bagliore delle gemme, né dalla prospettiva di una esistenza agiata da castellana.
 Per niente disposta a cedere alle lusinghe del potente di turno,  rimarrà fedele al suo innamorato e dimostrerà coi fatti di essere gelosa della sua virtù. Pur di non tradire i propri sogni,  sacrificherà la propria vita.

Questa vicenda, che ha ispirato nel lontano 1915 a Cirese il suggestivo poema dialettale, aleggia ancora tra gli abitanti di Castropignano, borgo appollaiato su una collina  molisana e dominato da un  imponente castello medievale  da poco parzialmente restaurato e visitabile.
Il massiccio, costruito verso il 1300 dai signorotti del luogo, si erge in alto sulla collina circondata da una vasta spianata -punteggiata da irti scogli - che precipita  giù verso la vallata del fiume Biferno a quell’epoca tumultuoso.
E’ proprio il nome dato ad una roccia situata a nord-ovest del castello, “ Cantone della Fata”, ad echeggiare l’antica e triste leggenda, in cui ricorre spesso il nome del responsabile della tragedia, il duca Giambattista d’Evoli, potente feudatario della contrada, “uomo superbo e dissoluto”, vissuto nel XVI secolo.

Narra dunque il poeta che era l’epoca in cui la plebe era in balia della sfrenata prepotenza dei feudatari, padroni assoluti della  vita e delle  sostanze del popolo. Tra gli altri abusi, il più odioso, e praticato, era il privilegio dello “ius primae noctis”, in base al quale il signore acconsentiva alle nozze dei suoi sudditi dopo aver messo alla prova la purezza della futura sposa.
Ora, accadde che durante una battuta di caccia il vecchio e infame duca rimase ammaliato da una fresca voce di donna che cantava.
Sguinzagliò i suoi sgherri per saperne di più.
Lontano dal paese, nel fitto della boscaglia, abitava in una modesta casetta una fanciulla, di cui si mormoravano meraviglie per le fattezze perfette e l’incarnato di bambola. Tanto che la chiamavano “bella Fata”.

Il bel bocconcino risvegliò gli appetiti del duca, che, senza pensarci su, ordinò ai suoi di prelevare la ragazza.
L’alba del giorno stabilito, Fata, dopo una nottata insonne passata tra tremendi incubi, portò a pascere le pecore nel frondoso querceto lì intorno, come al solito.
Il ricordo degli incubi notturni svanì alla vista di Antonio, il suo innamorato.
I due giovani, ignari delle nubi nere che si stavano addensando sul loro capo, passarono il tempo a discorrere dei preparativi per le prossime nozze.
Tramontato il sole, Antonio tornò al lavoro, Fata riprese lesta il cammino di casa, dietro alle sue pecore; non le piaceva essere sorpresa dal buio. Mentre seguiva lieta i suoi pensieri di futura sposa, sobbalzò alla vista di un uomo, che le si parò davanti, come apparso dal nulla.
Togliendosi il cappello piumato con un ampio gesto, lo sconosciuto la invitò al castello dicendo: «Il duca ti vuole come favorita e ti manda in regalo quest’anello come segno d’amore».
A quella proposta, indecente per una ragazza onesta, a Fata mancò il terreno sotto ai piedi, ma, appena si riebbe, reagì con molta indignazione.
Purtroppo, come c’era da aspettarsi, il suo diniego scatenò ancora più il desiderio del signorotto, che trovò un pretesto per fare arrestare Antonio.
Quando seppe che il suo innamorato era finito in prigione, la ragazza rimase tramortita.
Appena riuscì a riprendersi, si guardò intorno. Tutto era inerte e silenzioso.
La disperazione che l’aveva invasa le rendeva insopportabile la vista degli oggetti familiari che la circondavano.
La solitudine le pesava come un macigno, dandole un senso di soffocamento:
meglio andare dalla futura suocera. Avrebbe aspettato con lei le ombre della sera, così avrebbe pure evitato brutti incontri. All’imbrunire,“tra lume e lustre”- racconta Cirese - Fata uscì di casa prendendo, circospetta, per un sentiero seminascosto tra i cespugli.

Quei viottoli le erano familiari, li conosceva uno ad uno, li aveva percorsi chissà quante volte con Antonio, eppure, mentre procedeva, si sentiva a disagio; aveva la netta sensazione di essere osservata, non da persone in carne ed ossa, ma da spettri in agguato nell’oscurità. Alla luce morente della sera l’ombra dei rami oscillava come in una danza macabra.Fata ebbe un brivido, e si strinse nello scialletto ancora di più.
Ad una svolta, una voce improvvisa «Eccola! Finalmente!», e tre sgherri corsero con lunghe falcate su di lei. Come impazzita, col cuore in gola,  Fata sgusciò via, corse e si ritrovò, senza rendersene conto, sul Cantone.
La notte era scesa, nera e ventosa; la pastorella tremava di freddo e paura, stretta tra i suoi inseguitori e il burrone.
Un buio infinito la circondava inghiottendola come un oceano desolato.
Si girò intorno, ansiosa: neanche un’anima a cui chiedere aiuto.
Con un grido di giubilo, i tre erano ormai pronti ad afferrare la loro preda; la ragazza, consapevole di non avere più scampo, si sentì perduta.
Che fare? Un rapido segno di croce e un grido, mentre si gettava con un balzo nel vuoto davanti ai suoi persecutori atterriti: «O morte, dolce ché non soffro l’ingiuria di questa gente!».
Poi, ma la voce già era portata via dal vento, «Antonio mio…!».
Il silenzio che seguì fu più assordante di un tuono.
La leggenda narra che il duca s’impressionò tanto, alla funesta notizia, che impazzì.
Antonio, uscito di galera, vagò a lungo per le strade del paese invocando Fata a gran voce, e fino alla fine dei suoi giorni se ne venne a piangere vicino al cantone dove si era consumata la tragedia.
Dopo, la leggenda si è arricchita di altri dettagli.
Una tradizione vuole che quando la nottata è calma l’ombra diafana di Fata si aggiri senza pace tra le rupi. Poi, stanca, si ferma vicino al cantone, si inginocchia e si raccoglie in preghiera fin quando lieve lieve si dissolve, alle prime luci dell’alba.
In fondo alla valle, l’acqua del Biferno, scorrendo sul greto come un nastro luccicante, sembra mormorare  una mesta canzone d’amore…


 Fonte:
Eugenio Cirese, Ru cantone de la Fata, Storia de tiempe antiche in dialetto
molisano, Prefazione di N. Scarano, Xilografie di A. Cermignani,
Illustrazioni di A.Trombetta, Stabilimento industriale Grafico, Pescara 1915.
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Rita Frattolillo © tutti i diritti riservati 2017











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