Rita
Frattolillo
Quando
si torna a Gambatesa, paese affacciato sul lago di Occhito, uno specchio
d’acqua incastonato nello splendido panorama della valle del Tappino, a una
trentina di km. dal capoluogo
Campobasso, non si può fare a meno di apprezzare l’ospitalità degli abitanti,
che qui sono circa 1500, e il notevole decoro
urbano; dopo qualche giro nel lindo centro
storico, si sale fino al colle Serrone, dove si erge il castello.
Qui la visita è obbligatoria, per poter ammirare con rinnovato interesse e piacere i mirabili affreschi di Donato Decumbertino (Da Copertino) che ne decorano le stanze.
Passando
da un ambiente all’altro, la mente va immancabilmente allo splendido e sontuoso
volume pubblicato nel 2003 da Franco Valente, mente vulcanica votata con la più
grande verve e altrettanta competenza
alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico del territorio molisano.
L’architetto
Valente, in quegli anni direttore della collana “Castelli del Molise” per le
Edizioni Enne di Enzo Nocera, ha contribuito notevolmente, specie grazie alla pubblicazione di svariati saggi e
studi storico-artistici, ad accendere l’interesse su periodi poco indagati del
nostro passato.
Nel
volume “Il castello di Gambatesa - Storia Arte Architettura” (completato
da una corposa Appendice) corredato da un ricco repertorio fotografico, Valente si è
“divertito” a sciogliere un intrigante enigma
basandosi sulle poche tracce, arrivando ad aprire una porta sulla Storia del
Cinquecento molisano. Procedendo con grande passione e molto acume, ha infatti ricercato tutto quanto potesse gettare
luce sull’identità e i contatti artistici di Decumbertino, pittore sconosciuto
fino a qualche decennio fa, e autore del ciclo di affreschi commissionatogli alla metà del Cinquecento dal potente
feudatario Vincenzo De Capoa (di Capua).
Un’impresa
pittorica che, per il suo significato complessivo e la sua valenza artistica,
rende la bianca massa compatta del maestoso castello che l’accoglie una perla rara
del Molise.
La
lunga e laboriosa ricerca condotta da Valente con rigoroso metodo scientifico
supportato da una ricca documentazione è per il lettore un viaggio affascinante e allo stesso tempo un bell’esempio di
ricostruzione fondata sulla filologia delle pietre e l’analisi comparativa,
metodo che può adottare solo chi ha una vasta preparazione nel campo specifico.
Per
quanto riguarda il castello, è attraverso l’analisi delle trasformazioni e
degli adattamenti subiti in epoche successive dal maniero - il quale dall’
originaria struttura longobarda si configurò, nel periodo angioino, come un fortilizio
e residenza feudale, divenendo con ulteriori modifiche palazzo rinascimentale -
che l’A. risale lungo i fili dell’ingarbugliata trama delle dominazioni e
invasioni che hanno caratterizzato questa parte del Molise, muovendosi con
agilità tra arte, storia e architettura.
Una trama complessa, in cui si intrecciano
papati e regni, alleanze di famiglia e interessi politici, e dove si stagliano
condottieri come Riccardo Pietravalle, che nel XIII sec. per le sue gesta
militari e la sua abilità diplomatica fu
apprezzato tanto dalla corte partenopea quanto da quella papale, divenendo per
questi meriti feudatario di Gambatesa.
Non
avendo avuto eredi maschi, il feudo passò al nipote Riccardello, figlio di
Sibilia di Gambatesa e di Giovanni
Monforte, dalla cui discendenza nacque un altro grande condottiero, Cola Monforte conte di Campobasso. Intanto, si
faceva avanti una nuova famiglia, quella dei De Capoa, all’inizio grandi
proprietari di armenti, che, grazie a
quest’attività molto redditizia, negli anni aumentarono il loro credito e potere.
Tanto
redditizia da spiegare l’esistenza di una serie di torri sorte strategicamente
proprio in prossimità dei tratturi, le “vie della lana” percorse durante la
transumanza delle pecore dall’Abruzzo alla Puglia e viceversa. Probabilmente edificate come torri di
avvistamento e guardia, esse vennero in
seguito destinate soprattutto al
controllo del passaggio degli armenti, loro fonte di grande ricchezza.
Tra
la fine del ‘300 e gli inizi del ‘400 la
famiglia faceva già parte dell’entourage della corte napoletana, se un De Capoa,
Andrea conte di Altavilla, risultava essere il migliore amico di Ladislao di
Durazzo.
Nel
‘500 la casata raggiunse l’apice del potere e dell’espansione territoriale, arrivando a possedere nel
Molise oltre una trentina di feudi, tra cui Gambatesa, grazie alla valorosa
impresa di Matteo De Capoa che nel 1480 aveva sconfitto nella battaglia navale
di Otranto i turchi di Achmed Pascià.
Battaglia che è raffigurata con dovizia di
particolari in uno dei grandi affreschi del castello, a ribadire, oltre al
prestigio del nome, la posizione antiturca del committente dell’opera,
Vincenzo.
Quali
furono dunque le vere ragioni che indussero il feudatario a commissionare la
decorazione del maniero?
Analizzando
i temi degli affreschi -tutti profani - Valente ha ricostruito la personalità e i gusti del committente.
Il
quale doveva essere affascinato dalla
mitologia e dalle “Metamorfosi” di Ovidio in particolare, dal momento che ne
aveva fatte rappresentare alcune, a cominciare da quelle di Zeus, pronto a
trasformarsi in giovenca, cigno o polvere d’oro pur di possedere una fanciulla.
Le
scene delle metamorfosi sono state eseguite da Decumbertino con molta
“reticentia”, facendo intuire più che mostrando, il che rimanda ad un altro
aspetto della personalità del feudatario. A cui piacevano i libri, tanto
che fece dipingere una libreria trompe-l’oeil, ma con la particolarità che i
tomi sono rappresentati in disordine, per significare sia la costante
consultazione da parte del proprietario, sia per celarne il titolo. Quindi non sapremo mai quali
fossero i gusti letterari di Vincenzo De
Capoa, a parte la sua evidente passione per la mitologia.
Procedendo
con il metodo delle affinità iconografiche e/o stilistiche, su questa libreria
finta Valente, ad esempio, ha avanzato l’ipotesi che Decumbertino conoscesse il
quadro di Colantonio, il “San Girolamo” situato nel polittico della chiesa di
San Lorenzo a Napoli, che rappresenta per l’appunto una libreria simile. Ergo, l’ambiente
in cui l’artista avrebbe maturato le sue esperienze giovanili, sarebbe molto
verosimilmente quello napoletano.
Continuando ad analizzare gli affreschi,
appare chiaro che De Capoa avesse la
necessità di far illustrare le sue virtù di feudatario giusto, tanto che una spaziosa
sala è dedicata alle figure allegoriche della Prudenza, della Fortezza, della Clemenza,della
Carità, Fede e Giustizia.
La sorpendente affinità - si direbbe fotocopia
- della figura femminile della Fortitudo di Gambatesa con quella della
Concordia affrescata nel Palazzo della Cancelleria a Roma, e altre somiglianze
iconografiche con le opere ospitate in importanti palazzi romani, hanno indotto
Valente a ipotizzare la presenza, a
Roma, di Decumbertino, probabilmente in veste di discepolo di Giorgio Vasari.
Infatti l’artista fiorentino, che aveva
ricevuto l’incarico di decorare nel palazzo della Cancelleria un salone (poi
chiamato “dei Cento giorni”), per
accelerare i lavori si servì di diversi allievi (di cui peraltro non rimase
contento). A tale proposito girava all’epoca un aneddoto: a Vasari che si
vantava con Michelangelo di aver decorato quel salone in soli cento giorni,
Michelangelo rispose laconico: “Si vede!”, alludendo alla cattiva qualità delle
decorazioni.
Comunque sia, le figure femminili, collocate
scenograficamente con grande effetto plastico, sono straordinarie, per la forza
che emanano e lo sfolgorio della tavolozza.
Magnifiche sono anche le “grottesche” eseguite
dal pittore, anch’esse scoperte in quegli anni a Roma, nella Domus Aurea di
Nerone (a cui si accedeva attraverso una grotta, da cui il nome), e quindi
“copiate” dagli artisti del tempo.
Anche
il notevole numero di ariose vedute della campagna laziale e di Roma (il ponte
rotto dell’Isola Tiberina con il tempio di Venere, i Fori imperiali, il ponte di Tivoli
sull’Aniene, il complesso di San Pietro con il Colosseo sullo sfondo e la presenza dell’obelisco) conferma la
conoscenza dei luoghi da parte del pittore, e quindi accredita la sua presenza
a Roma.
Questa formidabile - e convincente - ipotesi dettata a Franco Valente dalla sua
grande esperienza è stata indirettamente confermata da una studiosa francese,
Nicole Dacos, nel volume “Viaggio a Roma- I pittori europei nel ‘500”(Milano,
Jaca Book 2012), la quale scrive:
“[…]varie
fonti segnalano la presenza di pittori stranieri che lavorano nei cantieri di
Perin del Vaga, dei fratelli Zuccari, di Vasari e di molti altri artisti
italiani che, per realizzare velocemente cicli di affreschi nei palazzi del
potere si avvalgono di manovalanza a basso costo, limitandosi spesso alla
realizzazione dei disegni ed affidando a terzi (anche ai “pittori stranieri”)
la realizzazione delle opere.
“A
Roma, chi visita i grandi cicli di affreschi del Cinquecento spesso rimane
stupito dalla varietà delle mani che vi si distinguono. Il maestro incaricato
dei lavori partecipava poco alla loro esecuzione, quando non si limitava a
fornirne i progetti, che affidava agli aiuti. Se alcuni di loro realizzavano
fedelmente, altri non vi si adeguavano del tutto, come se non potessero farlo a
causa della loro formazione; in questo caso si tratta spesso di stranieri che
si sforzano di esprimersi in italiano nella loro pittura, di passare a un’altra
“lingua”, ma vengono traditi dall’accento.
Per
individuarne la provenienza occorre procedere come fanno ancora oggi gli
italiani quando sentono parlare i loro connazionali. Avvezzi alle molteplici
inflessioni di cui si colora la loro lingua nelle differenti regioni del paese,
per individuarne il luogo d’origine colgono i termini dialettali, vagliano la
pronuncia e il ritmo della frase e ne esaminano l’espressione. Fanno lo stesso
con gli stranieri, più facilmente identificabili a causa degli errori di
lessico e di sintassi in cui incorrono. Così si comportano anche gli storici
dell’arte con i pittori del Rinascimento”.
Come
si vede, Valente aveva applicato a Decumbertino, sulla scorta delle
comparazioni iconografiche, questo meccanismo delle committenze e degli
“aiuti”, lo stesso a cui è giunta, dopo uno studio trentennale, la studiosa francese.
Rimugino
questi pensieri mentre continuo a percorrere le sale, indugiando davanti alle
decorazioni tornate splendide dopo il restauro eseguito dalla Soprintendenza
alle Belle Arti. Tra gli intramontabili miti, le allegorie, i paesaggi, gli
intrecci di pergolati, le volute di acanto, i telamoni e le sfingi, i blasoni
nobiliari, le battaglie e i busti di imperatori, è facile esaltarsi, trovarsi
immerso nell’atmosfera dell’epoca, entrare come in una meravigliosa capsula del
tempo.
Rita
Frattolillo © tutti i diritti riservati 2016
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